Insegnamento universitario e tecnologie internet

Ho scritto questo post conseguentemente ad una serie di conversazioni sul ruolo delle tecnologie negli insegnamenti universitari. Dopo una breve premessa sulle sorti dell’università, discuto tre possibili modalità di impiego di servizi web in un insegnamento universitario:

  1. Trasferire le “dispense” in un sito web che sia accessibile solo previa autorizzazione da parte del docente
  2. Trasferire le “dispense” in un sito web che sia liberamente accessibile
  3. Creare una comunità in rete

Io di università ne vedo due. Una è quella della routine fatta di corsi, esami, riunioni, sostanzialmente la stessa di quella che ho frequentato da studente, circa trent’anni fa. Ho difficoltà a riconoscere cosa sia cambiato. Mi pare nulla di sostanziale eccetto che nelle quantità. Quantità di tutto, di studenti, di corsi di laurea, di insegnamenti, di argomenti per insegnamento, di ore di lezione, quasi tutte “frontali”, di personale precario. L’altra, è l’università descritta da coloro che provano a riflettere su quale possa essere nel prossimo futuro il  ruolo dell’accademia nella società.

Ecco, questi  due mondi sono talmente diversi che non pare nemmeno si riferiscano alla stessa realtà ed è francamente disagevole lavorare in questa situazione. Da un lato mi vengono in mente il collega che mi dice di “esser geloso delle proprie cose”, un altro che sostiene essere il mondo troppo complesso, quindi “inutile agitarsi, le cose cambieranno da sole”,  oppure il collega più anziano che mi ammonisce “attento, le fughe in avanti sono pericolose”. E vedo che questa è un’atmosfera ben consolidata e constato che questo è il mio mondo, quello che tocco con mano tutti i giorni. Dall’altro lato, risuona nella mente un assordante coro di voci autorevoli che in tutto il mondo si stanno domandando con preoccupazione di come debba cambiare l’accademia, per evitare che “l’intera struttura educativa stia scivolando sotto i nostri piedi”, come ha paventato il prof. Ken Robinson nel suo intervento Do Schools Kill Creativity? al TED 2006.

Sono troppi gli esempi che mi vengono in mente. Mi limito a citarne due, uno fuori dell’università e l’altro dentro. Don Tapscott, esperto di strategie di business e di IT di fama internazionale, giornalista, autore di vari bestseller su economia e IT, ha recentemente espresso in un articolo, Colleges Should Learn From Newspapers’ decline, le sue perplessità sul futuro delle università suggerendo che forse queste ultime dovrebbero trovare dei punti di riferimento nella crisi delle più importanti testate giornalistiche del mondo, che stanno naufragando nel maremoto causato da Internet. Scrive Don Tapscott

One thing for sure. The smartest students want to get an “A” without having ever gone to the lectures. They understand that there are better ways of learning than being the passive recipient of a one-way, one size fits all, teacher-focused model where the student is isolated in the learning process

Daniel Lemire, che è invece un professore di Computer Science molto noto, titola The end of ‘mass universities’ un articolo nel quale arriva a sostenere che

One thing is clear to me: The value of a lecture in front of 80 students—or the equivalent as a webcasted show—is exactly zero. (From an educational point of view.)

L’accademia appare ferma in uno scenario vieppiù mutevole dove gli attori in grado di compiere scelte immaginative sembrano essere altri. Aziende come IBM, Procter & Gamble o Goldcorp [1] hanno mostrato immaginazione e coraggio ridisegnando il concetto di proprietà intellettuale ad un livello e in un modo che, pensando al mondo accademico che io conosco, sembrerebbe essere dominio di fantascienza.

Cosa si può fare allora? Mi sembra che ci siano tre possibilità:

  1. si può fare finta di niente abbandonandosi ai ritmi della routine, di semestre in semestre; opzione poco dignitosa per chi di professione si occupa di  generazione e trasmissione della conoscenza
  2. ci si può arroccare nella difesa ad oltranza di un metodo che un tempo esprimeva qualità e attribuendo i problemi a fattori degenerativi esterni; posizione oziosa poiché è irrealistico pensare che le voci dei resistenti possano competere con le forze che vediamo muovere il sistema
  3. si può assumere che, almeno in parte, i nostri metodi siano rimasti un po’ fermi rispetto all’espansione del sistema intero e che forse occorre provare a riagganciarlo; questa pare l’unica possibilità dignitosa, almeno si accoglie una sfida interessante.

Quando si è nella necessità di risolvere un problema è naturale far ricorso a tutte le tecnologie disponibili. Vediamo allora se possiamo volgere i servigi di Internet a nostro favore invece di vederli come parte di quel mondo che minaccia la nostra missione.

Prima di andare avanti deve essere chiaro che ci proponiamo di usare la tecnologia di Internet per cambiare il nostro modo di insegnare, sperabilmente in modo utile. Non ci stiamo invece proponendo di introdurre tecnologie nel sistema di insegnamento così com’è. In tal caso è certo che non otterremo nessun risultato di rilevo se non peggiorare ulteriormente le cose, come è già successo innumerevoli volte in tutti i tipi di scuole, università compresa. Questa posizione è sostenuta magnificamente da Gianni Marconato nel suo blog Apprendere (con e senza le tecnologie). Il discorso di Marconato orbita prevalentemente intorno al mondo della scuola ma si attaglia bene anche all’università, considerato anche che, dal punto di vista degli studenti, questa si discosta oggi assai poco dal liceo.

Poiché la ricchezza degli strumenti disponibili è tale da rendere possibili una grande varietà di opzioni, per semplificare proviamo ad individuare tre azioni diverse, ordinate in modo da allontanarsi progressivamente dallo status quo.

1. Trasferire le “dispense” in un sito web che sia accessibile solo previa autorizzazione da parte del docente

In sostanza si tratta di una semplice operazione che concerne il trasferimento di contenuti sotto forma di testi ed immagini su di un altro medium e che lascia sostanzialmente inalterata la struttura degli insegnamenti universitari così come sono concepiti nella grande maggioranza dei casi. L’impegno preminente è costituito dal tempo occorrente per il trasferimento dei contenuti. Al docente è richiesta solo una minima “compliance” per l’adozione e l’impiego del medium diverso.

È opportuno precisare che con l’espressione “contenuto” intendo un testo del docente o quelle che un tempo chiamavamo dispense e non solamente un file con le slide della lezione. Nulla vieta poi che i contenuti possano essere arricchiti con brani audio, sequenze video o servizi interattivi.

Uno strumento che si adatta molto bene allo scopo è il wiki, che non è altro che un sito web che può essere redatto ed aggiornato da più autori.  Un wiki può essere creato in pochi secondi su uno degli appositi servizi web. Imparare a inserire contenuti è questione di pochi minuti. La libertà di creare pagine collegate fra loro in vario modo è pressocché totale.

Mi capita spesso di parlare con dei colleghi di questo approccio. Commento alcune delle obiezioni usuali.

  1. Non ho le competenze necessarie per fare un sito web. Credo che questo sia un alibi insostenibile. Il successo dei wiki, dei blog e di tanti strumenti di social network deriva in buona parte dalla grande facilità d’uso. Se vi fossero problemi di competenze non si sarebbe potuto verificare il coinvolgimento di centinaia di milioni di persone nell’arco di un decennio.
  2. Non ho tempo. Ricordo di avere studiato, fra il 1974 e il 1978, su dispense manoscritte e disegnate che potevano essere composte da svariate centinaia di pagine. Credo che sia normale per un professore trovare il tempo per lavorare sul materiale didattico per i suoi studenti. C’è poi da considerare che per certi tipi di lavori è possibile coinvolgere gli studenti. Il coinvolgimento degli studenti per lo sviluppo e l’aggiornamento del materiale didattico è un ottimo modo per bilanciare una pratica didattica che è esageratamente orientata verso lo studio teorico. I wiki sono perfetti per questo tipo di attività. I miei studenti nel corso del tempo hanno fatto un gran lavoro nella redazione delle dispense del wiki.
  3. I miei contenuti contengono parti di autori terzi che sono coperte da copyright. In effetti può verificarsi che il materiale didattico contenga parti di opere precedenti che sono coperte da diritti d’autore, come potrebbero essere immagini, grafici, video, musiche, specialmente per certi tipi di insegnamento. Si porrebbe quindi la necessità di assolvere gli obblighi derivanti da tali diritti ma trattandosi di usufruire del materiale in un ambito protetto si può invocare il principio del fair use, un concetto che è stato introdotto negli Stati Uniti nell’ambito della legislazione sul copyright. Il fair use consente l’impiego senza autorizzazione da parte dell’autore di un’opera altrimenti protetta da copyright, nei casi in cui questo comporti la promozione “del progresso della scienza e delle arti utili”. Un caso tipico è proprio quello di un professore che utilizzi un’opera per l’insegnamento ai suoi studenti. In Europa, e in particolare in Italia, esistono strumenti legislativi analoghi ma in un primo momento sono stati applicati in modo molto più restrittivo. Per quanto riguarda la nostra legislazione si tratta dell’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, ove si dispone che il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscono concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera. Con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003 è stata introdotta l’espressione di comunicazione al pubblico, per cui il diritto non è esercitabile solo per i vecchi mass media, ma anche per i nuovi come da ultimo il web. Pare quindi che l’articolo 70 della Legge sul diritto d’autore vada interpretato in senso molto simile al fair use statunitense e quindi non si vede perché un professore non possa avvalersene nel proprio insegnamento, all’interno di un ambiente protetto.
  4. Perché devo usare un web service invece di un server di ateneo? I web service sono gestiti da aziende che di tali attività fanno il proprio core business. Queste dispongono di infrastrutture e competenze allo stato dell’arte, in grado di garantire livelli di affidabilità con i quali il servizio tecnico di un ateneo italiano, spesso gestito in condizioni asfittiche e sub-ottimali, non potrebbe mai competere. Le aziende che gestiscono i web service hanno infatti la necessità di garantire il servizio a milioni di utenti. Da quando mi sono affidato completamente ai web service ho cessato di avere problemi tecnici.
  5. Se ogni docente si costruisce il proprio sito viene meno l’omogeneità nell’offerta dei contenuti. Uno dei messaggi che si ricevono oggi dai grandi fenomeni del web è che le persone sono interessate a ciò che può risolvere loro un problema e non alla forma con la quale le informazioni vengono presentate loro. Il web pullula di pagine bellissime e formalmente ineccepibili, talvolta anche istituzionali, che sono assolutamente inutili; nel linguaggio del web questo significa che non le usa nessuno. Nella gran parte dei casi i servizi web di maggior successo si presentamo in maniera spesso semplice, se non dimessa, ma offrono in modo semplice e chiaro un servizio che serve molto a tante persone. Dobbiamo inoltre tener conto che le attuali generazioni di studenti hanno una grande dimestichezza con il web e sono tendenzialmente indifferenti alla presunta ufficialità di ciò che viene loro offerto. Se invece, durante la prima lezione di un insegnamento, apprendono che in un certo sito web possono trovare ciò che realmente serve loro, allora si può essere certi che lo useranno. Credo che la qualità oggi si faccia con i fatti prima che con la cura dell’immagine, non viceversa.

2. Trasferire le “dispense” in un sito web che sia liberamente accessibile

È lo stesso processo che ho testè descritto ma senza il meccanismo di protezione. Dal punto di vista tecnico è quindi ancora più semplice ma comporta due problemi aggiuntivi non trascurabili.

  1. Il problema dei diritti d’autore, che abbiamo già visto prima, diventa qui un problema serio perché il materiale didattico è esposto al pubblico. Il costo di questa voce non deriva solamente dai diritti ma anche dal lavoro necessario per la gestione ivi compreso il rintracciamento degli autori o degli enti che controllano i diritti, le trattative e l’esecuzione dei pagamenti, un lavoro che può essere molto frammentato e lungo.
  2. Resistenza dei docenti a pubblicare il materiale didattico. Mentre quello precedente è sostanzialmente un problema di costi questo è un problema di cultura. La soluzione del primo dipende dalla situazione finanziaria mentre nel secondo caso è il contesto generale ad essere determinante, essenzialmente la mentalità e la cultura del paese dove si trova l’università. In Italia la maggioranza dei docenti ha difficoltà a rendere pubblico il proprio materiale didattico. La riluttanza a condividere i materiali didattici è frequentemente giustificata con il timore di incorrere in infrazioni sulle disposizioni in materia di diritti di autore ma in realtà deriva soprattutto da una maggiore fiducia nella protezione del proprio lavoro piuttosto che nei vantaggi del libero scambio delle conoscenze.

Ponendo i propri materiali didattici in rete di fatto si contribuisce al mondo delle Open Educational Resources (OER) che comprendono tutte quelle risorse liberamente disponibili in Internet che possono essere utilizzate per fini di formazione.  Se inizialmente le OER si identificavano con i contenuti didattici classici, di natura testuale o iconografica, ora si intendono estese a documenti multimediali di qualsiasi tipo ed anche a software e servizi web utili per produzione di materiali didattici, per esercitazione e simulazioni. Si tratta di una realtà di grandi proporzioni che ha suscitato l’interesse di importanti organizzazioni internazionali, quali l’OECD con il Centre for Educational Research and Innovation (CERI)- Open Educational Resources, la Commissione Europea con l’azione Open eLearning Content Observatory Services (OLCOS) e The William and Flora Hewlett Foundation, che fra i propri obiettivi primari annovera “la compensazione delle opportunità didattiche negli Stati Uniti e nel mondo mediante l’impiego delle Open Educational Resources”. Il 12 marzo scorso negli Stati Uniti è stata anche introdotta una proposta di legge sullo sviluppo delle OER (Bill H.R. 1464).

In un numero crescente di atenei si sta lavorando alla definizione ed allo sviluppo di modelli per la libera diffusione del materiale didattico. La prima e più importante iniziativa è l’OpenCourseWare del MIT che nel 1999 si pose il problema dell’opportunità di porre tutti i suoi corsi online, nel 2000 decise che ne valeva la pena e nel 2002 aveva realizzato la prima versione dimostrativa con 50 corsi. Attualmente l’offerta OER del MIT consta di 1925 corsi (in aprile erano 1800 …) in 33 discipline accademiche. L’iniziativa del MIT è anche quella più rilevante sotto il profilo dell’impegno economico, con un budget annuale di 3.5 milioni di dollari ma molti altri atenei in varie parti del mondo sono presenti sul fronte delle OER. Trascurabile la presenza italiana in armonia con le posizioni dei nostri atenei nei bassifondi dei World University Rankings, dove l’Università di Bologna,  174-esima, è la prima delle italiane [2].

Nell’immenso quanto caotico e disomogeneo universo delle OER vi è indubbiamente una grandissima ricchezza ma non è facile orientarsi. Senza alcuna pretesa di completezza le seguenti risorse possono costituire un buon punto di partenza per fare delle ricerche: OER commons, Open Courseware ConsortiumKhan AcademyCanale Education Youtube.

Un’ultima osservazione sui vantaggi dell’impiego delle OER concerne la questione degli obblighi derivanti dai diritti d’autore: la probabilità di trovare ottimo materiale didattico da integrare nel proprio corso inizia ad essere elevata per molte materie e questo è tutto materiale per il quale gli obblighi sono già stati assolti.

3. Creare una comunità in rete

Il titolo è apparentemente in discontinuità con i precedenti. Infatti, mentre pare ovvio associare le dispense con lo studio, può sembrare molto meno chiaro cosa c’entrino  con lo studio le comunità e le reti. Occorre quindi fare una premessa discutendo separatamente i due sostantivi, comunità e rete.

Molti autori hanno evidenziato come la partecipazione in una comunità possa avere effetti importanti sull’apprendimento, muovendo dalle osservazioni di Vygotskij sulla natura  interpersonale dell’apprendimento,  attraverso la teoria del costruttivismo sociale, per giungere alle comunità di pratica descritte da Etienne Wenger e all’artigiano demiurgo di Richard Sennet, operoso e creativo nella e grazie alla comunità di cui fa parte.

Invoco esplicitamente questi importanti presupposti affinché sia chiaro che il ruolo della comunità nell’apprendimento è stato riconosciuto e discusso in contesti senza alcun dubbio indipendenti dall’esplosione tecnologica della quale siamo testimoni.

In effetti, esperienze significative a riguardo non mancano, per esempio quella di Don Milani, forse troppo discussa in chiave politica e poco considerata, in pratica, sul piano dell’innovazione didattica. Tenendosi lontani da temi che non sono oggetto di questo scritto, sta di fatto che avvalendosi di tecnologie che potremmo tranquillamente dire ottocentesche, quali sedie, tavoli, carta, penne, forbici e altri oggetti di uso comune o propri del mondo del lavoro, Don Milani proiettò i suoi bambini in attività e in strati sociali che mai si sarebbero potuti sognare nella condizione in cui si trovavano.

More about Communities of PracticeAnche le comunità di pratica di Wenger prescindono dalla tecnologia. Per esempio in Communities of Practice, Wenger impernia tutta la discussione sulla comunità di un gruppo di impiegati nell’ufficio di una compagnia di assicurazioni sanitarie. Certo, in quel tipo di ufficio si utilizzano tecnologie oggi comuni ma le dinamiche delle relazioni umane che vi descrive sono solo marginalmente dipendenti da queste. More about L'uomo artigianoLo stesso vale per l’uomo artigiano che Sennet riconosce  anche nell’attualissima forma del programmatore di software Linux e che descrive servendosi dell’ideale di artigiano cantato nell’inno omerico di Efesto. Il programmatore di Linux, come l’artigiano dell’antichità, svolge il suo lavoro in una condizione di stretta interdipendenza con la comunità di cui fa parte. Questa rappresenta il contesto nel quale la sua attività acquisisce un senso ed è sempre la comunità che svolge al tempo stesso la funzione di  fondamentale catalizzatore del suo apprendimento.

Chiarito che l’influenza della comunità  sulla vita dei propri membri è stata riconosciuta e valorizzata a prescindere dalle tecnologie di Internet, possiamo tranquillamente affermare che queste ultime possono  essere utilizzate per “aumentare” una comunità di pratica. Le comunità di pratica devono l’esistenza, in primo luogo, al fatto che i propri membri possono comunicare fra loro. Ebbene, la rete annulla i tempi di comunicazione, azzera le distanze, libera l’espressione che può essere testo, suono, immagine, video o combinazione di questi. Tali proprietà consentono di  dilatare le potenzialità di una comunità di pratica e magari di creare le condizioni per l’emergenza di nuove possibilità.

Le dilatate potenzialità della “comunità di pratica aumentata” sono molto interessanti se vengono pensate nel contesto di una classe scolastica. Infatti, un fattore fondamentale che ostacola l’applicazione di metodi che enfatizzano le relazioni interpersonali è rappresentato dal rapporto docenti-studenti che nella fattispecie è sempre troppo basso.

Ebbene, Internet e, in particolare, l’insieme dei servizi che formano il cosiddetto web 2.0, possono essere usati proficuamente per integrare le attività didattiche convenzionali e arricchire in modo significativo le esperienze di apprendimento degli studenti.

A titolo di esempio descrivo per sommi capi un metodo del quale conosco tre realizzazioni simili, seppur con qualche variante:  i corsi online sulla Open Education (edizione fall 2007) di David Wiley e su Connectivism and Connective Knowledge di George Siemens e Stephen Downes (edizione fall 2008) che ho frequentato come studente e i corsi che svolgo su temi inerenti all’impiego delle tecnologie online in una varietà di corsi di laurea delle facoltà di Medicina, di Scienze della Formazione e della Italian University Line da un paio di anni.

In questi corsi ciascun studente deve creare un blog, gestirlo e usarlo sia per documentare il proprio lavoro che per collaborare con gli altri studenti. Anche il docente ha un blog che impiega per   dare gli assignment e per scrivere testi, magari corredati da immagini, grafici e video, che ritiene funzionali per l’insegnamento. L’insieme di tutti questi blog forma una rete grazie al meccanismo di aggregazione dei feed RSS che tutti gli studenti devono imparare ad utilizzare. In questo modo la rete viene generata di concerto da tutti i partecipanti in un processo di apprendimento cooperativo.

Laddove l’organizzazione lo consente, sono previste anche ore in presenza che vengono tuttavia gestite con maggiore elasticità. Infatti solo una parte di queste ore viene utilizzata per lezioni frontali a favore di  seminari o discussioni di problemi che possono emergere nel corso dell’insegnamento. In taluni casi, le ore in presenza rappresentano un ibrido fra ricevimento studenti e seminario.

Ho sperimentato il metodo anche con classi online alle quali partecipano studenti che vivono e lavorano in località remote. È il caso per esempio degli studenti della Italian University Line che sono insegnanti di scuola che frequentano un corso di laure triennale, Tecniche delle interazioni Educative, interamente svolto in modalità online. Con questo tipo di classi, gli incontri in presenza  vengono  surrogati da una serie di incontri in classe virtuale organizzati mediante semplici web service. Per avere un’idea di come viene vissuto un corso del genere da parte di uno studente, riporto qui le “tracce” di una studentessa di questo semestre. Benché siano tutte molto interessanti, ho scelto questo contributo perché è espresso in un formato che si presta ad essere integrato in un post.

Un aspetto tecnico interessante è dato dalla possibilità di analizzare le attività degli studenti con i metodi della Social Network Analysis che consentono di compiere valutazioni numeriche della rete formata dalle relazioni fra i vari blog e di produrre rappresentazioni grafiche della medesima, i cosiddetti sociogrammi. Non mi dilungo qui in dettagli, alcune considerazioni a riguardo possono essere trovate in un post precedente intitolato Come guardare una blogoclasse.

La “macchina” che ho appena descritto, costituita da blog e aggregatori di feed è estremamente potente e flessibile per condurre un insegnamento: studenti e docenti hanno una grande libertà espressiva potendo rapidamente produrre testi multimediali; gli scambi di idee fra gli studenti sono favoriti dalla facilità con cui si possono commentare i post degli altri e dal meccanismo di aggregazione dei feed che consente a ciascuno di tracciare le attività degli altri con grande semplicità; il fatto che i post nei blog possano essere molto articolati unitamente al meccanismo di comunicazione asincrono induce un tipo di espressione riflessiva, contrariamente ad altri meccanismi di comunicazione della rete che favoriscono espressioni più estemporanee e superficiali; l’asincronicità facilita anche il docente nel tracciamento delle attività, quest’ultimo ha la palpabile sensazione di vedere la classe lavorare, come se si trovasse in un laboratorio andando a discutere ove necessario ora con uno studente poi con l’altro, ciascuno intento al proprio lavoro.

Le classi alle quali ho partecipato in veste di studente e quelle che mi è capitato di condurre in veste di docente hanno dato vita ad esperienze di apprendimento molto interessanti. Vorrei concludere tuttavia riprendendo un tema ricorrente in questo scritto. Il merito del metodo va ascritto primariamente all’atteggiamento del docente e solo secondariamente allo strumento tecnico. Ripensando alle esperienze che ho vissuto da studente o da docente e ad altre che ho seguito in rete senza partecipare, direi che tre sono gli elementi fondamentali in corsi di questo genere:

  1. Non concentrarsi sui contenuti. In moltissimi campi i contenuti sono già disponibili e sono stati confezionati e perfezionati da ottimi insegnanti ed esperti. Si può investire il tempo risparmiato utilizzando risorse esterne in lezioni integrative, in seminari, discussioni o approfondimenti, a seconda di quello che la classe necessita.
  2. Concentrarsi piuttosto sugli assignement che dovrebbero essero vissuti più come stimoli anziché come compiti o verifiche, ossia dovrebbero essere pensati come uno strumento di dialogo sui problemi. Un approccio che conduce a minor enfasi sull’apprendimento esclusivamente teorico, maggior enfasi sulla discussione degli argomenti appresi, sul cimento delle idee e sulla soluzione di problemi.
  3. Giocare sul fattore emulazione che è un fattore fondamentale dell’apprendimento. Vedere il proprio insegnante che apprende a sua volta, magari che sbaglia ma si corregge e gestisce positivamente l’errore, che è sicuro sulla direzione da prendere ma che può essere seguito, seppur con impegno e fatica costituisce un formidabile stimolo per gli studenti. Insomma, a parte questi ultimi due secoli, il meccanismo dell’imitazione ha giocato un ruolo fondamentale nella trasmissione dei saperi.

[1] Wikinomics, Don Tapscott e Anthony D. Williams, Portfolio (Penguin Group), New York, 2006
[2] Tanto per avere un riferimento, la vicina Svizzera, 41000 km2, 7.7 milioni (contro i 300000 km², 60 milioni dell’Italia), annovera sei atenei nelle prime 174 posizioni)

14 pensieri riguardo “Insegnamento universitario e tecnologie internet”

  1. Bella e densa questa riflessione ma vorrei vederci meglio dentro.

    Non sono cresciuto in città, mondo che mi è sempre stato sostanzialmente estraneo, anche se ci ho studiato e ci lavoro.

    Prospettiva per me sorprendente ma non mi sono chiari i riferimenti temporali.

    L’università attuale è solo altrove, le manca il radicamento, la capacità di distinguere ciò che è locale e può toccare direttamente da ciò che non lo è e che tocca solo temporaneamente, viaggiando.

    Sì, certamente ma da quando? Io quella radicata non l’ho mai conosciuta. Fisica ad Arcetri 1974-78. Avulsa dal contesto. Avulsa dalla storia, da ogni altro riferimento. Torre d’avorio. Castalia dimessa. Polverosa.

    Forse altri studi erano diversi? Forse quelli umanistici? Non lo so. Da racconti di altri dubito.

    Affascinante la visione dell’università radicata ma fino a quando lo è stata? Ignoranza, lacuna che devo colmare.

    Ipertrofia strumentale, sì.

    Stentata capacità comunicativa, oh sì!

    L’università che vorrei dovrebbe aiutare la città a sviluppare la sua dimensione comunicativa.

    Anch’io la vorrei così ma tutto fa fuori che insegnare a comunicare, anche dove si insegna comunicazione.

    Una maggiore, più profonda, capacità di comunicare è la cosa di cui c’è più bisogno al mondo oggi.

    Su internet c’è da dire dell’altro, più in là.

  2. L’università emerge per aiutare e amplificare la capacità di apprendere della città. Anche se è aperta, essa lo è come istituzione radicata, capace di approfondire la conoscenza locale tanto da poterla comunicare e rendere utile altrove. L’università attuale è solo altrove, le manca il radicamento, la capacità di distinguere ciò che è locale e può toccare direttamente da ciò che non lo è e che tocca solo temporaneamente, viaggiando.
    All’università oggi manca la città come riferimento, anche se ci sono città sedi di importanti istituzioni universitarie. L’università che vorrei è stanziale, non è nomadica come cerca di essere quella attuale. Proprio per questo ha bisogno della sua città. L’università recente era già virtuale e internet ha reso permanente e universale quel sistema di relazioni che l’università sradicata già produceva. Non sarà certo la tecnologia a risolvere questo problema.
    La città di oggi ha una ipertrofia strumentale e una stentata capacità comunicativa: l’università tecnologica aumenta quella ipertrofia, quando avremmo bisogno invece di sviluppare la dimensione comunicativa, civica della città universitaria.
    La città costruiva un mondo mediante l’integrazione della dimensione personale con quella sociale, nella comunità definita dal suo ambito civico (le sue “mura”). Questo ambito da tempo si è diviso, da una parte l’ambito/muro individuale, soggettivo (l’appartamento, la villetta, ecc.), dall’altro l’ambito nazionale, oggettivo, con la sua dogana, il passaporto, la patria, la bandiera, ecc. La città globale allarga i confini della nazione e restringe ulteriormente quel muro per individui single, aumentando la loro sensazione di libertà con una maggiore privatezza e il nomadismo. La casa si riduce a una stanza dove la tecnologia consente di trasmettere messaggi a tutto il mondo. Questa situazione ha molto condizionato la nostra vita sentimentale, non a caso emerge la psicologia del profondo per cercare di ricucire questa ferita, la divisione tra sentimento patriottico, nazionale, causa di totalitarismi nel secolo scorso, e sentimento individuale, privato, segretato.
    Convincere gli individui a essere tanto orgogliosi della propria prigione da potere dar loro la chiave, sicuri che – convinti che essa rappresenti il massimo di libertà possibile – ci torneranno, rappresenta il massimo della funzionalità: una macchina urbanistica perfetta.
    L’università che vorrei dovrebbe aiutare la città a sviluppare la sua dimensione comunicativa. È una università che mi ricorda la cultura romanza, Dante, gli stilnovisti, le donne, l’architettura romanica, la conoscenza attraverso il sentimento. Dante costruisce mondo sviluppando una lingua che è una città comunicante, vivendo fuori dalla sua città ma parlando sempre il suo “parlar materno”.
    Quello che manca al mondo di oggi, e mancherà ancora più a quello di domani, è una capacità affettiva di comunicare, troppo spesso rimpiazzata dal consumo di macchine e macchinette personal che, non riuscendo a compensare l’assenza di sentimento, non finiscono mai. Anche la smodata fame di denaro del moderno nomade, regredito allo stato di cacciatore raccoglitore, rappresenta questa cronica insoddisfazione. Posso aggiungere altre ansie: il sesso, il cibo, il lusso fino allo spreco, il senso che non sia mai abbastanza, costituiscono evidenti messaggi di questa mancanza. L’evidenza del consumatore insaziabile è la conferma migliore di questa perversione tecnologica del consumatore.
    Sento già i predicatori della irreversibilità, sarebbe bello ma impossibile, o del cinismo, non sarebbe neanche bello. Eppure non saranno le macchine, belliche o commerciali, a migliorare la salute del mondo che viviamo, ma una maggiore, più profonda, capacità di comunicare.

  3. Una cara collega mi chiede:

    Perchè escludi la possibilità di usare un sito web “interno” come ad. es. quello di E-Learning che, anche se fortemente migliorabile, ha personale dedicato che può rimediare alle difficoltà “tecniche” di molti docenti?

    Il problema delle difficoltà “tecniche” di molti docenti è un problema culturale che va anche ben al di là della categoria dei docenti medesimi. Non si può risolvere un problema del genere con i servizi di ateneo. Cerco di spiegare in modo molto sintetico e un po’ brutale, necessitando d’esser chiaro e conciso.

    Per una serie di motivi che non sto ora a discutere qui, la società non investe più tanto volentieri nell’accademia, in Italia ancor meno che in altri luoghi.

    I temi dominanti nelle riunioni degli organi universitari preposti alla gestione dei servizi telematici e informatici sono quelli inerenti alla mancanza delle risorse.

    Malgrado la presenza di persone competenti e volenterose, è veramente difficile immaginare che queste strutture possano assorbire le richieste che avrebbero luogo se vi fosse un impiego massiccio dei sistemi di e-learning dell’ateneo.

    Siamo quindi in presenza di gestioni condotte in regime di scarsità.

    I servizi web a cui mi riferisco nel post, peraltro gestiti da grandi aziende attive su un mercato moto competitivo con rilevantissime risorse e competenze, vengono usati oggi con grande facilità da centinaia di milioni (probabilmente già oltre il miliardo) di persone, senza l’ausilio tecnico di nessun servizio.

    I casi sono due:

    1. o la generazione adulta si sveglia (*), ivi compresi i docenti (forse dovrebbero essere istituzionalmente i primi?)
    2. o bisogna aspettare che noi si muoia (così mi rispose un collega che si occupa di formazione …)

    (*) Non vedo grandi ricadute della scuola di “una volta” in questa classe adulta priva di immaginazione, intenta sostanzialmente a nettare e difendere i propri “salottini”. Gli uomini realmente colti che ho avuto la fortuna di conoscere (ce ne sono pochi ma ci sono) sono estremamente curiosi e pronti a recepire le novità leggendole alla luce dell’insegnamento dei grandi del passato, che furono a loro volta creature massimamente curiose e attente al nuovo …

  4. Egregio,
    commento il tuo interessante post con qualche considerazione a caldo:
    1) nella realtà univeristaria che conosco siamo, ahimè, anni luce lontani da quanto da te indicato; ancora oggi agli studenti di molti corsi di laurea triennale viene richiesto l’adempimento di 3 (o, qualche volta, 6) cfu di “informatica” dove si intende, spesso, una replica più o meno monca del progamma dell’ECDL; come ben sappiamo entrambi stiamo parlando a malapena del saper “leggere e scrivere” in ambito informatico, e l’ECDL stessa, per come viene strapazzata, non consente un approccio “critico” e “consapevole” come sarebbe opportuno aspettarsi da uno studente universitario; IMHO l’ECDL dovrebbe essere un prerequisto per l’iscrizione, e da li, forse, si può partire.
    2) i professori, con alcune, rare, lodevoli eccezioni sono spesso alieni dall’uso a loro volta “consapevole” di strumenti che non hanno avuto modo di maturare nella loro carriera; del resto l’età media è, come sappiamo, piuttosto alta, e l’informatica (specialmente se parliamo di WEB e, peggio ancora, di WEB 2.0) è roba decisamente recentissima, per non dire appena nata.
    Spesso c’è una chiusura dovuta al timore di apparire “incompetenti”, cosa questa che lascia l’amaro in bocca: TUTTI dovremmo sempre e comunque essere consapevoli di “sapere di non sapere nulla”…
    Chiudo, per non essere inutilmente prolisso; mi auguro anche che qualcosa cambi, senza dover necessariamente aspettare una o due generazioni… però onestamente non vedo quale possa essere il pertugio da cui passare per iniziare il cambiamento…

  5. Carissimo Andreas,

    Grazie ai tuoi stimoli, vengo ripagato, da tanti bruttissimi ricordi, di esperienze universitarie fatte , un pò di anni fa; incontrando docenti universitari, che certo non avevano mai frequentato personalità come il Prof.Ken Robinson. Ebbene ho trovato davvero importante il contributo che Robinson, dà al dibattito sul tema : Insegnamento universitario e tecnologie Internet, nel quale semplicemente egli dice che non basta certo, riempire un’aula di computer, collegarli alla rete e il sistema universitario è bello e rinnovato; ma occorre che le persone vengano prima di tutto ascoltate e messe nelle condizioni di operare e sbagliare , avendo cura di seguire i loro talenti e la loro creatività. A me è capitato ad un esame universitario di fronte ad una mia prova mediocre , che un professore universitario , mi dicesse: perchè non cambi mestiere. Certo occorre una migliore integrazione tra la tecnologia e la didattica, al fine di rinnovare il nostro sistema accademico , ormai arrivato al tracollo; ma se ancora le nostre accademie insegnano che sbagliare equivale a fallimento; che ognuno debba fare da sè, non parliamo poi della possibilità di poter sperimentare alcunché, o di arricchire la propria formazione scambiandosi le esperienze. Come possiamo pensare di poter rinnovare il nostro sistema universitario. Se poi pensiamo che riflessioni di autocritica , provengono da docenti americani o inglesi, nei quali, senza peccare per sfrenata esterofilia, il sistema accademico può insegnare qualcosa: e non dai nostri accademici, (eccezione fatta per il nostro Prof.) né dalla nostra intelligenza, che ha fatto sentire la propria voce, solo allorquando , qualcuno, non so se con serie intenzioni, ha pensato di guardare il meccanismo di reclutamento, allora dico che forse per noi in Italia ci sono poche speranze di cambiamento .

    Un caro saluto
    Pasquale

  6. (off topic editoriale)
    Caro il mio prof,
    quando scrivi i tuoi pipponi 😀 (uso il termine di un tuo studente) metti anche le ancore che vanno in su oltre quelle che vanno in giù? Thanks.

  7. Caro Andreas, come non essere d’accordo con tutto questo che scrivi. Soprattutto con questa tua affermazione “Il merito del metodo va ascritto primariamente all’atteggiamento del docente e solo secondariamente allo strumento tecnico”. Le cose cambiano nella misura in cui ci si adopera per cambiarle…ciascuno per quello che può, correndo dei rischi…rischi di insuccesso, rischi di incomprensione, rischi di derisione come commenta Gianni Marconato. Un mio insegnante di inglese, che forse ho già citato in qualche post, ci sollecitava con questa frase”Take risks…”, quando, insegnanti in formazione, ci comportavamo peggio dei bambini per il timore di esporci. Il rischio vero però era quello di non imparare nulla. Allo stesso modo, come docenti, di ogni ordine e grado di scuola dobbiamo continuare a non avere paura di correre qualche rischio e di introdurre le novità che ci sembrano importanti nel nostro lavoro. Frequentando questo corso universitario già mi sento decisamente meno sola, considerato l’impegno nel “lifelong learning” riscontrato in tutte le mie colleghe di corso…e quindi alla loro implicita voglia di rinnovarsi e di rinnovare…tutto questo supportato dalle nuove competenze che stiamo via via acquisendo. L’aspetto della condivisione poi, delle comunità di pratica, rende assolutamente significativo, completo, ricco di sostanza il percorso di formazione: il confronto frequente, lo scambio di idee e di opinioni, i lavori di gruppo …il tutto, a distanza, grazie ad un utilizzo voluto e compreso degli strumenti che le nuove tecnologie ci mettono a disposizione.
    Come dici anche a conclusione del tuo intervento del 20.01.09 a Milano (di cui Romina ci ha mandato condivisione in Google Docs): “Loro sono pronti, siamo noi che dobbiamo svegliarci!”.
    …anche perchè altrimenti tra non molto queste giovani generazioni non ci daranno più retta e ci lasceranno indietro, perchè veramente rischiamo di parlare linguaggi troppo diversi!

  8. E’ un brano tratto da un autore che seguo da quando ho relazionato ad un convegno dal titolo “La formazione degli insegnanti tra presenza e on-line: formare nel contesto della rete per facilitare la costruzione di una comunità di pratiche” il 28 febbraio 2005:

    “….la scuola non sempre dispone di strumenti per riflettere su se stessa: i ballerini, che praticano la loro arte alla perfezione, dispongono di specchi per osservare i loro movimenti. Dove sono i nostri specchi?” E.W. Eisner “The Educational Immagination”- New York. Macmillan- 1979

    Per chi volesse sapere qualcosa di più di questo Prof. della Stanford University e del suo pensiero vada in rete e soprattutto su :
    http://www.infed.org/thinkers/eisner.htm

    Ecco cosa dovrebbero fare tutti coloro che decidono di intraprendere l'”arte” dell’educazione in tutti i gradi di istruzione, anche universitari: creare comunità di pratiche; condividere non solo materiali on line- off-line, ma soprattutto modi di essere, pensieri, emozioni.
    Questa è la vera paura della condivisione:
    non è solo il non sapere creare un blog o un sito web;
    non è solo la paura di utilizzare materiali coperti da copyright;
    non è solo la mancanza di tempo o la difficoltà di utilizzare strumenti legittimi.
    E’ l’essere messi a nudo;
    è il credere erroneamente all’importanza del mantenimento del ruolo, come identificazione sociale;
    è il doversi autovalutare come professionista e di rimando come persona;
    è il GUARDARSI ALLO SPECCHIO ed aver paura di vedere qualcosa che non ci piace!!

  9. Andreas, la tematica che sollevi non è di poco conto e francamente, credo, le tecnologie non abbiano un grande peso nel cambiare l’università. I problemi e le resistenze sono ben altre. Le tecnologie, la “questione tecnologica” potrebbe essere un ulteriore mistificazione ed una comoda scorciatoia per non cambiare nulla (nelle dinamiche che contano) cambiando solo l’apparenza. Ricordo una recente esperienza in cui un “luminare” universitario, che per decenza non cito, aveva sollecitato un gruppo di blogger a riflettere, con il suppoorto degli strumenti di rete e del web 2.0 sull’università del futuro. Avevo subito espresso il mio scetticismo sulla reale possibilità di incidere in qualche modo nei meccanismi del potere affermando che nessun potere ha mai suicidato sè stesso. In breve, il progetto si è arenato perchè nessuno di noi coinvolti se l’era sentita di portare avanti un’operazione di mistificazione.
    Ciò premesso, le tecnologie – rimanendo nel microlivello – possono dare una mano a portare avanti una didattica più efficace, Alla condizione di approcciarle in modo disincantato (senza aspettarsi miracoli) e “laico” (senza iedologie tipo “tecnologico è bello”).
    Che è quello che mi pare stia facendo tu.
    Sperimentando, faticando, riflettendo, osservando, migliorando, imbattendoti in tanta incomprensione se non derisione (spero che questa ti sia stata risparmiata). E portando a casa “modesti” risultati … i miracoli non li fa più nessuno (se mai qualcuno li ha fatti) e neppure le tecnologie li fanno.
    Grazie per la citazione e per l’opportunità offerta per questa riflesione

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