Il blocco della rete dell’Università di Firenze (!) mi impedisce di accedere al server dove si trovano i balocchi della blogoclasse. Forse facevo meglio a pagare un server esterno? Magari americano?
Sta di fatto che ora non posso piazzarci niente di nuovo: aspettando, la mente vaga. Maria Grazia ha aperto la soffitta dei ricordi e, si sa, guardando una cosa se ne vede un’altra. Il codice per l’appunto. E m’è venuto fatto di ripensare a tutte le mutazioni di codice per le quali sono passato in tutti questi anni, quale semplice operatore del settore. E allora poi mi sono rammentato di ciò che avevo scritto l’altro giorno:
Espressioni come quella di Marvi (credo)
Prof ci sono riuscita anch’io con la combinazione dei tasti ctrl+u. Quante cose che si ignorano…,
di Gaetano Non sono mai riuscito a imparare a memoria il linguaggio HTML, e credo che non ci riuscirò mai, ma riesco in buona parte a riconoscerlo, capirlo e ad intervenire per apportare delle piccole modifiche
o di Stefano Non ho imparato bene l’html, riuscivo solo a modificare il codice generato da Fronte Page
mi stuzzicano: cosa vuol dire saper fare qualcosa? Cosa vuol dire essere produttivi in un mondo nel quale strumenti e informazioni proliferano a ritmo esponenziale? Che vuol dire oggi essere “preparati”? Quasi quasi ci torniamo domani …
Io nel codice sono inciampato a 22 anni, mi pare. A fisica di computer non ci aveva parlato nessuno, anche se ormai era già entrato di prepotenza nella ricerca, e internet era già fiorente presso gli ambienti accademici scientifici. Ma avevo scoperto che a matematica qualunque studente poteva esercitarsi in una molto faticosa tenzone con quelle misteriose, affascinanti, grandi macchine. Scoprii che chiunque poteva sedersi ad una di quelle grosse macchine da scrivere che con frastuono meccanografico sputavano una scheda perforata per ogni riga di codice battuta. Poi il pacco di schede stampate si consegnava all’apposito servizio e il giorno dopo si andava a prendere lo stampato con i risultati, 9 volte su dieci sbagliati per i troppi errori. Fu una grande scuola che mi appassionò e per la quale credo di avere trascurato un esame o due, facendo anche arrabbiare molto un prof potente che me la fece pagare, a suo modo. Ma non mi pento di avere pagato quel prezzo, so di averci guadagnato.
Fu così che conobbi il Fortran, linguaggio nato per il calcolo scientifico, pur essendo grosso modo mio coetaneo, ancora oggi è molto usato, primariamente nel calcolo ad elevate prestazioni sui supercomputer. Infatti successivamente, negli anni 90, lo utilizzai su di un super computer Cray T3E del Cineca, macchine usate per esempio per i calcoli che servono alle previsioni metereologiche.
Il Fortran mi servì già per la tesi. In nessun esame del corso di laurea in fisica ci avevano parlato di computer, ma già nella tesi mi resi conto che sarebbe stato il mio principale strumento di lavoro! Imparai quindi a parlare alle macchine per laurearmi, a furia di tentativi ed errori, consultando alcuni manuali che avevo scovato in un armadio della medicina nucleare di Firenze.
Non avrei mai immaginato di passare la vita saltando da un linguaggio a un altro, nessuno lo avrebbe immaginato a quei tempi. Provo a fare un lista di quelli con i quali ho prodotto lavori di una certa consistenza, alcuni dei quali mi sono valsi proposte di lavoro. Saltate la lista se vi annoiate, al fine del post può essere sufficiente giusto percepirne la varietà. Tendenzialmente ho messo i link alle voci inglesi di Wikipedia. Per avere le versioni italiane, se esistenti, non avete che da cliccare, in ciascuna pagina Wikipedia, su Italiano fra le lingue nella colonna di sinistra.
- Il Fortran appunto.
- L’assembly, linguaggio strettamente imparentato con il tipo di computer che si usa. Si dice di basso livello, come se per chiedere ad uno studente di venire alla cattedra, si dicesse: “Alzati, gira su te stesso di 90 gradi a sinistra, fai un passo, gira su te stesso di 90 gradi a destra, fai 10 passi, ecc. Ne ho usati di due tipi, uno per computer veri e propri e uno per schede di calcolo superveloci da infilare in altri computer.
- Il linguaggio macchina. Peggio dell’assembly. In pratica la stessa cosa ma dove le istruzioni sono espresse proprio in 0 e 1, quelle che capisce la CPU del computer. Capita di dover lavorare con questi oggetti quando si deve decifrare quello che un software fa, conoscendo solo i numeri binari che esprimono le istruzioni. Io potevo fare questo guardando il display fatto di 16 lucine rosse, che rappresentavano, ad ogni istante, quello che faceva il computer, ad ogni istante (era proprio questo, in alto a destra si vedono 3 lucine e posso dire che sta eseguendo l’istruzione 1001001000000000, che non so più cosa significhi 😀 ).
- Il C. Nato negli anni 70, è diventato il più diffuso linguaggio, utilizzato moltissimo per costruire i sistemi operativi. Il fenomeno del software open source, tipo Linux e tutto il resto, galleggia sul C.
- Un misto dei precedenti: per certe applicazioni era necessario mescolare Fortran, C e assembly.
- Matlab, inizialmente per risolvere problemi di algebra lineare, oggi è diffusissimo nel mondo matematico ma anche ingegneristico per fare tutto ciò che richiede calcolo numerico. Al contrario dell’assembly è di alto livello, una semplice istruzione come a=b/c può inglobare una quantità di matematica che sta in un libro intero.
- Interactive Data Language, anche questo un linguaggio matematico di alto livello orientato alla manipolazione delle immagini, piace molto agli astronomi ma anche a chi fa imaging medico.
- Bash Unix Shell, è un linguaggio con il quale, mettendo insieme comandi del sistema operativo Unix, quindi anche Linux, si costruiscono veri e propri programmi. Uno dei vantaggi del sistema operativo Linux è che in questo modo ci si può fare praticamente tutto quello che si vuole.
- Ruby. Un linguaggio tuttofare messo in circolazione a metà degli anni 90 da un trentenne giapponese, Yukihiro “Matz” Matsumoto. Con questo linguaggio avevo incollato i vari servizi web (Google Docs, Google Reader, Dropbox …) per la gestione delle blogoclassi degli anni precedenti.
- L’ambiente R è qualcosa di simile a Matlab ma orientato alle elaborazioni statistiche. Ci ho costruito i sociogrammi nelle blogoclassi dell’anno scorso.
- Il LaTeX non è un linguaggio bensì un codice di marcatura, proprio come l’HTML, solo che serve per la preparazione di documenti – PDF ma non solo – di qualità tipografica professionale. È lo standard de facto per la scrittura di documenti scientifici, ma ha anche schemi per scrivere poesie – qui un piccolo esempio. Come filosofia è l’opposto dei word processor più noti, di tipo WYSIWYG (What You See Is What You Get), e si descrive con la formuletta WYSIWYM (What You See Is What You Mean), proprio per il fatto che se necessario si può arrivare a controllare ogni particolare del proprio documento. Se conoscete uno studente di matematica o fisica è molto probabile che preferisca di gran lunga LaTeX a Word.
- HTML
- CSS. Serve a controllare gli stili nei documenti HTML ed altri ancora. Vedremo qualcosa.
- Javascript. Serve a rendere dinamica una pagina HTML. Si tratta di pezzetti di codice appesi al documento HTML che quando vengono caricati dal browser conferiscono funzionalità varie alla pagina. Vedremo qualcosa, forse.
- MySQL. Sistema di gestione di database basato sul cosiddetto Structured Query Language. I dati della blogoclasse sono conservati e gestiti in un database MySQL, che risiede in un server, quello a cui stasera non si accede, appunto.
- PHP. Ci si scrive il software che, sul server, consente di controllare il database MySQL (o anche di altro tipo, ce ne sono altri) e di comunicare con il computer richiedente. Ricapitolando un attimo, quando voi vi iscrivete alla blogoclasse, per esempio, e inviate la vostra scheda di iscrizione, succedono, semplificando, le seguenti cose:
- voi introducete i vostri dati e molte delle vostre azioni sono immediatamente processate, nel vostro computer, da pezzetti di codice scritti in Javascript, per esempio per dire: “Hai scritto un indirizzo di email non valido!”
- quando avete riempito la scheda, il vostro browser, mettiamo Firefox, spedisce la richiesta con i dati che avete introdotto al server (che stasera non è raggiungibile …)
- qui un modulo scritto in PHP, utilizzando dei comandi SQL, accede al database MySQL per introdurre i nuovi dati e magari estrarne di altri, poi spedisce eventuali risultati, al minimo una notifica del successo dell’operazione, rinfrescando la pagina che state vedendo sul browser.
- Ajax. È un insieme di funzioni scritte in Javascript che serve a rendere più fluide, in particolare asincrone le comunicazioni fra client, la macchina dove voi navigate con il vostro browser, e server, la macchina dove risiede il database. In pratica può servire a far sì che, per esempio, quando riempite un lungo modulo e il browser o altro collassa a metà del lavoro, voi non perdiate i dati già introdotti, che così ritroverete quando ripartirete. Questo succede perché con Ajax i dati vengono inviati al server via via e non alla fine quando cliccate Invio, o qualcosa del genere.
- jQuery. Un insieme di funzioni che semplifica molto la scrittura dei programmi in Javascript. Utilizza un modo molto intelligente di individuare gli elementi HTML presenti nella pagina, per lavorarci. L’ha inventato nel 2006 un giovanotto che si chiama John Resig, ora ventisettenne, già una star del software. Le funzioni jQuery sono usate già nel 50% dei siti più importanti del mondo. Vale a dire, che la metà delle volte che fate click siete serviti da un web server dove c’è dentro un prodotto messo in circolazione cinque anni fa da un ragazzo di 23 anni …
- Le espressioni regolari. Non è di per se un linguaggio autosufficiente, ma un insieme di regole che consentono di cercare in un testo qualsiasi insieme di caratteri e di farci qualsiasi manipolazione. In pratica è integrato in quasi tutti gli altri linguaggi, e in ognuno di questi in un particolare dialetto! Quindi quando si usano in un comando Unix, o in un istruzione PHP o in un istruzione Javascript – tutte cose molto frequenti – le espressioni regolari cambiano un pochino. Se uno non le conosce un po’, sembrano un rompicapo assurdo. Per esempio questo può essere un modo per “frugare” dentro a un indirizzo internet: /^(http:\/\/)?([^\.\/]+)\./ Perché si usano? Perché consentono di risolvere in maniera estremamente concisa complessi problemi di ricerca e manipolazione di testo.
Per inciso, eccetto Matlab e IDL, tutta questa roba è open source: si scarica dalla rete. Documentazione, innumerevoli tutorial e discussioni su tutti i problemi possibili immaginabili sono tutti liberamente accessibili in rete.
Credo che ce ne sia abbastanza per avere un’idea della vitalità e della ricchezza della lingua con la quale si parla alle macchine, cioè del codice. Ma c’è un altro aspetto, più importante, che voglio mettere in luce.
Non immaginerete mica che io sappia tutta questa roba a memoria? A casa mia non ci crederebbe nessuno … Ho una pessima memoria o meglio, ho una memoria spiccatamente affettiva, emozionale (ma forse molti altri …). Vale a dire che mi ricordo se mi emoziono. È raro emozionarsi leggendo un manuale software, eccetto forse in qualche introduzione, dove si scoprono delle nuove idee interessanti. Il resto è mortalmente noioso. Infatti, non leggo mai i manuali ma prendo qualche esempio in rete, lo osservo, provo a farlo rifunzionare cambiando qualcosa, inizio a fare i cambiamenti che mi interessano, poi costruisco su su, dando un’occhiata ai manuali solo quando serve, piazzando i codici di errore in Google per trovare subito chi e come ha risolto il problema, nove volte su dieci si trova subito. E tutti quelli che scrivono software fanno così.
Ma a pensarci bene, anche il lavoro scientifico in laboratorio, al di là della parte informatica, è così. Anche il lavoro del matematico silenziosamente seduto al suo tavolo, coperto di fogli pieni di formule – computer acceso perché oggi mezza matematica è fatta di software. Questa è tutta gente che con un occhio deve guardare al problema che ha in mano e con l’altro a quello che sta accadendo nel resto del mondo, perché un altro potrebbe avere trovato ieri una soluzione migliore di quella alla quale stai giusto per arrivare oggi, oppure perché qualcuno ha scoperto un marchingegno che ti può far fare cinque passi avanti gratis come nel gioco dell’oca.
Ma a pensarci bene, anche quando parlo con il mio amico elettricista, o il mio amico idraulico, ho la stessa sensazione. Stai finendo di montare il tuo impianto solare, anzi, sei a 2/3 del lavoro ed ecco che compare un nuovo tipo di pannello solare, che ti cambierebbe molto le cose, e devi imparare cosa cambia e come …
Che vuol dire quindi oggi “possedere le competenze”?
Che vuol dire oggi insegnare ad “avere le competenze”?
Sì Benedetta. In questi giorni sto pensando che l’insegnare è tutto un esserci per non esserci.
L’articolo n. 8 è stato scritto da Benedetta Quartieri.
Non possedendo le credenziali di accesso non posso più modificarlo, vero?
E’ un altro inciampo che mi piacerebbe risolvere…
Molto interessanti i vari punti di vista che confermano l’unicità e l’imprevedibilità dell’essere umano.
Che vuol dire oggi “possedere le competenze”?
Che vuol dire oggi insegnare ad “avere le competenze”?
Personalmente, penso che la complicata complessità dell’odierno impone une “façon de faire” che non può certamente essere orientata a copiare, ricalcare pari pari un procedimento.
Le stesse macchine non sono veri cloni, perchè hanno una loro storia di vita, un loro vissuto, pur essendo, ad esempio, tutte TV di uguale marca.
In un mondo così differenziato, si richiede differenziazione.
In questi anni di lavoro scolastico, ho cercato di seminare questo concetto:
non limitarsi a copiare un procedimento, ma eseguirlo, mettendoci del proprio, in modo tale che il prodotto finale sia un ALTRO ARRICCHITO.
Questa è competenza e si gioca mettendo in moto tutte le risorse sia quelle interne possedute dall’individuo, sia quelle esterne disponibili nelle più svariate realtà.
Insomma, è po’ quello che sto vivendo in questo corso che mi prende così tanto!
Ad esempio, tu, Andreas, “insegni-non insegnando” nel senso che non ci spiani la strada, che resta tortuosa e non sempre agevole, ma facendocela percorrere con le nostre gambe viene da noi temporaneamente spianata, in vista di altre impasse.
Infatti, ho capito che quando si chiede aiuto per dubbi, problemi e quant’altro sopraggiunge, non è perchè si è degli incompetenti, ma anzi – come tu hai ben detto – si cerca, “piazzando i codici di errore in Google, di trovare subito chi e come ha risolto il problema, nove volte su dieci si trova subito”.
E’ proprio grazie agli scambi di compartecipazione solidale che si trovano, si risolvono, si integrano… gli “inciampi” prodotti dai camminatori tecnologici!
E allora… dont’be afraid!
Benedetta
caro prof per me il carattere delle persone è come il web, una grande ragnatela, dove a seconda dei link o dei siti che si frequentano, si viene a contatto con informazioni e scambi che ci modificano, ci modellano. la mia riflessività e la razionalità segue la strada dei libri da sempre,l’imprevisto senza “preavviso” mi ha sempre messo molta ansia e il non essere pronta non mi permetteva di superarlo, forse perchè non ho ricevuto le armi necessarie per farlo. ora l’esperienza e forse una maggiore maturità, e un maggiore controllo della mia “affezionata”ansia, mi permettono di affrontare l’ignoto, il mutevole anche senza per forza dovermi documentare su di esso. non mi fa più paura dover seguire un link che non mi serve. invece, la sua riflessività e razionalità, secondo me, si poggia sulla conoscenza diretta dei cinque sensi, l’osservazione diretta, la manipolazione, il trovare una soluzione o soluzioni diverse su ciò che si ha davanti, il conoscere prima o dopo documentarsi, come quei bambini che amano smontare in mille pezzi il proprio giocattolo preferito, senza preoccuparsi del fatto che forse dopo non sarà più possibile ricomporlo esattamente come era. questo solo per il gusto di conoscere ciò che li circonda. questo è un obiettivo che mi piacerebbe raggiungere per poter possedere anche l’altra faccia della medaglia.
io speriamo che me la cavo.
Personalmente, credo che non ci sia alcun antagonismo tra progettazione [riflessione, razionalità – certezza, sicurezza] e improvvisazione [istintività, creatività – incertezza, insicurezza]… C’è convivenza e c’è anche coincidenza, invece.
Anche l’improvvisazione è figlia della progettazione cui non deve mai venir meno la funzione regolativa offertale dalla necessità di documentare un percorso ipotizzato, ma non ingabbiato. L’improvvisazione, infatti, non nasce dal non sapere le cose, ma dalla capacità di prevederle, dai dubbi e dalle risposte a essi che riesco a trovare in fase di progettazione e dalla capacità di porre soluzioni diverse. In tal senso, la progettazione apre all’improvvisazione e lo fa con tutti di là dal loro ruolo, docenti, allievi e quant’altri. E’ la capacità di scegliere di fronte all’imprevisto o all’ignoto NON muovendo dal nulla, ma mettendo in campo le nostre competenze che sono trasversali, sicché, da qualunque parte si voglia vedere, la progettazione non intrappola il percorso, ma ne apre gli orizzonti. E’ la fine della contrapposizione tra pensiero convergente e divergente, come da molti anni si sostiene in ambito culturale, del resto, poiché dove c’è competenza c’è anche vera creatività e non mera casualità. Quell’ambiente “protetto, semplificato, qual è quello della scuola” con la sua pedagogia della “domanda con la risposta giusta” è, ormai, una cattedrale nel deserto. Dovremmo riuscire ad agire “solo” la pedagogia della “domanda e basta” amplificando il nostro orizzonte di prossimità.
Sì Maria Patrizia, penso che il ruolo fondamentale dell’insegnante debba identificarsi sempre più nel “mostrare come affrontare il nuovo e l’incerto” e nel cogliere tutte le occasioni possibili per creare un senso di fiducia nelle proprie possibilità. Il metodo educativo basato sulla “domanda con la risposta giusta” è un metodo che se si è diligenti, più diligenti che curiosi, consente di vivere piuttosto bene in un ambiente protetto, semplificato, qual è quello della scuola o quello di un’organizzazione nella quale si svolge un ruolo ben delimitato, ma è un metodo che non prepara ad affrontare il mondo, dove le risposte sono raramente univoche e definite, ma contestuali e variabili nel tempo.
Quanto allo “studiare come funziona e poi usare” contrapposto allo “imparare come funziona usando”, è curioso il fatto che io risponderei di preferire il secondo perché, anch’io credo di essere di indole, riflessiva, razionale! Secondo me c’è dell’altro sotto, che ho difficoltà a mettere a fuoco. La questione è interessante. Provo ad esporre la mia sensazione. Se tu mi parli di (insegni) un cosa, io ho bisogno di tenere la cosa in mano, di toccarla (come gli uomini preistorici di 2001 Odissea nello spazio), di girarmela fra le mani, confrontando subito il detto sulla cosa con la cosa. È l’attitudine riflessiva che mi impone questo. Devo subito verificare se è vero. Ed è l’attitudine razionale che mi induce a fare subito delle prove: la cosa sembra avere un meccanismo? A che servirà? Provo a rispondere, verifico.
Forse ci sono molte differenze fra le persone. Potrei pensare di avere più difficoltà di altri a seguire una lunga descrizione testuale perché se non la riempio presto con significato spremuto dall’esperienza personale per me presto si svuota e crolla come un castello di carte. E questo forse perché, potrei immaginare, la mia mente procede molto più per immagini e associazioni fra immagini anziché per descrizioni verbali. Forse …
Non ho molta esperienza in questo campo e si vede; è da circa un paio d’anni che smanetto con internet, per ricerche scolastiche, personali, di studio, arrancando da un sito all’altro e trovando anche notizie o materiali che magari non mi servono al momento, ma che comunque trovo interessanti e che decido di tenere o di continuare a seguire aprendo altri link.
Mai e poi mai avrei pensato di essere io stessa a produrre qualcosa di utile o inutile da condividere con altri in questo immenso mondo reticolare. In questo momento mi sento un pesciolino piccolissimo (quasi plancton) in un mare immenso di ambienti inesplorati e codici diversi, di cui, caro prof, ho solo letto il nome, … per adesso.
Nel post sull’ambiguo, quando pone la distinzione tra “studiare come funziona e poi usare” e “imparare come funziona usando” io sono senza dubbio per la prima, in quanto sono per indole, riflessiva, razionale, in cerca di certezza e sicurezza che lo studio mi può offrire. In pratica guardo e riguardo prima di decidermi ad eseguire. Ma, in questo corso e con il suo modo di porlo, sto sperimentando il secondo modo di comportarsi. Forse perché ci ha più volte consigliato di fare così o forse per mancanza di tempo: non posso leggere tutte le guide o i manuali o trovare tutti i termini per capire come funziona. Ma posso osare per poter uscire anch’io “vittoriosa”.
Ma mi chiedo a cosa mi servirà tutto questo con i miei alunni (scuola primaria) visto che quello che sto imparando io oggi, domani non sarà più?
La competenza che dovrò trasmettergli, allora, è quella dell’azione, della mentalità aperta e flessibile, dell’ accettazione del nuovo, del metodo di porsi di fronte a qualcosa di diverso ed in continuo movimento. Dovrò insegnare a loro a saper trovare giusto equilibrio tra studio e intraprendenza nell’usare/osare. Dovrò insegnargli ad essere autonomi ed offrirgli strumenti per esserlo.
patrizia.
Didatticamente parlando, la competenza è traguardo sostanziale di una didattica in grado d’ideare attività capaci di suscitare interesse e di favorire l’incontro produttivo tra ciò che si vuol far apprendere e i modi d’apprendimento dei soggetti in formazione. Attraverso quest’incontro, le conoscenze e le abilità diventano competenze perché utilizzate per risolvere problemi tipici del mondo reale. Dunque, valutare non solo la capacità dell’allievo di riprodurre le conoscenze che gli sono state trasmesse, ma stimare le capacità di riflessione e di applicazione di quanto appreso in situazioni reali per garantire l’acquisizione di competenze aventi un carattere fondante e generativo rispetto alla possibilità di continuare ad apprendere per tutta la vita in una prospettiva di lifelong learning. Ora, detto questo:
Che vuol dire quindi oggi “possedere le competenze”?
Che vuol dire oggi insegnare a “avere le competenze”?
In virtù di quanto sopra, direi che “possedere le competenze” possa significare, di fatto, essere in grado di “organizzare” per la conquista di finalità di breve periodo con precisi orizzonti di riferimento all’interno di una prospettiva evolutiva di formazione permanente.
Insegnare a “avere le competenze” significa, allora, percorrere una strada che conduce alla capacità di gestire i domini di conoscenze fronteggiando la complessità e salvaguardando l’equilibrio tra questa e il suo opposto, in altre parole la semplicità.
Mi viene in mente Confucio: La vita è veramente molto semplice, ma noi insistiamo nel renderla complicata. Allora, l’istruzione operativa nodale mi sembra la n.10 delle laws of simplicity di John Maeda: THE ONE – Semplicità significa sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo. Potrebbe essere un punto di partenza per avanzare al ritmo frenetico del codice mutante?
Che vuol dire quindi oggi “possedere le competenze”?
Che vuol dire oggi insegnare ad “avere le competenze”?
Possedere competenze secondo me significa aver compreso come funziona una un oggetto strumento, riflessione, calcolo, etc., dopo svariati tentativi e o tudio di supporti testuali o in rete e cosi via, come diceva Andreas:”… lo osservo, provo a farlo rifunzionare cambiando qualcosa, inizio a fare i cambiamenti che mi interessano, poi costruisco su su, dando un’occhiata ai manuali…”. La competenza è aver acquisito delle nozioni che ci permettono di acquisirne delle altre.
Insegnare ad avere competenze, significa fornire ai ragazzi tutti i tool in nostro possesso conditi dalle nostre competenze ed esperienze, insegnare come si utlizzano per poi dar modo loro nella vita, di saper trovare le soluzioni ai più svariati problemi.
Vi fornisco delle indicazioni date da un Ente Pronvinciale di coordinamento dell’istruzione durante un convegno:
La competenza presenta una struttura a tre componenti:
-essa prevede indicatori ovvero eveidenze concrete-sotto forma di compiti reali- che sono considerate necessarie e sifficienti al fine di poter procedere alla valutazione della competenza stessa;
-inoltre prevede livelli di padronanza specificati lungo un gradiente positivo di fattori quali la comprensione del compito, l’autonomia, la responsabilità, l’affidabilità, l’apporto personale,
-infine prevede un elenco di conoscenze e abilità che sono necessariamente mobilitate nell’esecuzione del compito e che quindi risultano connesse alla competenza stessa.
Che bello il concetto WYSIWYM. Ma non è anche presente negli stili degli editori di testo normali? Uso soltanto gli stili di paragrafo in Writer di OpenOffice (salvo se devo mettere il titolo di un libro in corsivo), e mi pare che si possa anche fare con MS Word.