Sì, è interessante la presentazione trovata e proposta da Luisella nel suo post Evoluzione dei media ai tempi di Twitter.
In quella presentazione l’autore conclude (condivido abbastanza, non proprio tutto) che:
- La crisi dei media tradizionali non deriva dagli andamenti del mercato, ma da ragioni più profonde, innescate dalle nuove tecnologie
- Perdono audience i media a “forma lunga” (il libro, il cinema…), e prevalgono i media a “forma breve”
- … immediatamente accessibili in mobilità, aggiornati in tempo reale, e contestualizzati
- L’overload informativo rende impossibile un approccio strutturato alla nostra [in]formazione -> serendipità, multitasking
- Abbiamo ottenuto una totale libertà di esprimerci e di raccontarci pubblicamente, in cambio di una perdita complessiva di controllo sull’attendibilità dell’infosfera
- Gli storici del futuro non avranno vita facile…
e propone due pensieri:
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Eppure i libri sono ancora lì, a migliaia, e continuano a declinare una civiltà di piaceri pazienti, che in modo piuttosto silenzioso collabora a ridisegnare l’intelligenza e la fantasia collettive
Alessandro Baricco, Una certa idea di mondo (prologo)
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Dobbiamo difendere la lettura come esperienza che non coltiva l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata. Una lettura concentrata, amante degli indugi, dei ritorni su di sé, aperta più che alle scorciatoie, ai cambiamenti di andatura che assecondano i ritmi alterni della mente
Giuseppe Pontiggia, Leggere
Si domanda poi:
… MA È POSSIBILE?
Rispondo.
Dipende da noi. Dipende in maniera cruciale dall’impegno forte e pervasivo degli educatori. È una vecchia storia: l’uomo popola ambienti complessi e pericolosi, fabbricandovi i suoi mondi. Poi l’ambiente muta e ne deve fabbricare di nuovi. Fabbricare è impegnativo e faticoso, e per insegnarlo bisogna prima saperlo fare.
È esattamente quello che proponiamo in questi percorsi: imparare a fabbricare mondi nel cyberspazio, il villaggio ad esempio. In particolare, stiamo cercando di imparare a tessere e mantenere relazioni, per dar luogo nel cyberspazio ad esperienze ricche, profonde e durature, di apprendimento e aiuto reciproco, che non escludono affatto i media a “forma lunga”, quali il libro. Qualcosa che potrebbe divenire anche uno strumento di aggiornamento professionale interessante.
Non è roba che possa esser imposta dall’alto, né che possa essere configurata negli organigrammi istituzionali. Occorre l’impegno personale di molti, impegno in una paziente ricerca dell’ago nel pagliaio, o meglio, di qualcosa di non raro ma rado, delicato e prezioso. Per figurarsi meglio potremmo indugiare un poco in Raissa, una delle città immaginate da Calvino:
Le città nascoste. 2.
Non è felice, la vita a Raissa. Per le strade la gente cammina torcendosi le mani, impreca ai bambini che piangono, s’appoggia ai parapetti del fiume con le tempie tra i pugni, alla mattina si sveglia da un brutto sogno e ne comincia un altro. Tra i banconi dove ci si schiacchia tutti momenti le dita con il martello o ci si punge con l’ago, o sulle colonne di numeri tutti storti nei registri dei negozianti e dei banchieri, o davanti alle file di bicchieri vuoti sullo zinco delle bettole, meno male che le teste chine ti risparmiano degli sguardi torvi. Dentro le case è peggio, e non occorre entrarci per saperlo: d’estate le finestre rintronano di litigi e pianti rotti.
Eppure, a Raissa, a ogni momento c’è un bambino che da una finestra ride a un cane che è saltato su una tettoia per mordere un pezzo di polenta caduto a un muratore che dall’alto dell’impalcatura ha esclamato: – Gioia mia, lasciami intingere! – a una giovane ostessa che solleva un piatto di ragù sotto la pergola, contenta di servirlo all’ombrellaio che festeggia un buon affare, un parasole di pizzo bianco comprato da una gran dama per pavoneggiarsi alle corse, innamorata d’un ufficiale che le ha sorriso nel saltare l’ultima siepe, felice lui ma ancora più felice il suo cavallo che volava sugli ostacoli vedendo volare in cielo un francolino, felice uccello liberato dalla gabbia di un pittore felice di averlo dipinto piuma per piuma picchiettato di rosso e di giallo, nella miniatura di quella pagina del libro in cui il filosofo dice: – Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere.
È su quelle connessioni effimere che si deve imparare a lavorare, tanto nello spazio fisico che in quello virtuale. Quest’ultimo schiaccia le menti con le sue quantità ma offre anche una sterminata tela mobile di fili invisibili che se scoperti, evidenziati e rinforzati, possono formare mirabili trame di valore.
È perfetta qui la conclusione delle città invisibili di Calvino:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Bello il villaggio… Qual è la strada per trovare tutti i vostri blog?
Ciao Orlanda, fino ad ora i blog sono stati seguiti principalmente mediante un aggregatore di feed. Non so se conosci e sui questo strumento; faceva e farà parte dei temi del laboratorio. Tuttavia sto preparando una lista dei blog più attivi nei tempi recenti, per facilitare i nuovi arrivati e consentire loro di frugare con maggior profitto. Fra poco arrivo…
Basta che clicchi sui nomi blu….. 😄
Fantastico, Marina ! e complimenti per il tuo fuori registro 😉
Sto leggendo “Perché la rete ci rende intelligenti” di Howard Rheingold, noto guru della Rete fin dai primordi, autore di “Comunità Virtuali” del 1994. Il titolo fa il verso a “Intenet ci rende stupidi” di Nicolas Carr del 2011, quest’ultimo era un pessimistico resoconto di come la Rete con le sue caratteristiche intrinseche ci ha reso irrimediabilmente distratti e frammentati, “stupidi” nel senso che presto non saremo più in grado di concentrarci e di conseguenza pensare riflettere in maniera approfondita così come facevamo con un libro a stampa.
Seconda Rehingold la rete può renderci più intelligenti ma a patto che si rispettino alcune regole. Questa nuova intelligenza non è un risultato automatico generato dalle proprietà intrinseche della Rete, in questo accoglie alcune delle preoccupazione di Carr.
Perché la Rete sia un ambiente vantaggioso e proficuo occorre un educazione al suo uso, occorre acquisire alcune competenze ben precise in mancanza delle quali l’esperienza dei nuovi media si rileverà un caos ingestibile, un mare d’informazione di cui saremo travolti.
Tra queste competenze al primo posto e’ la capacità di gestire la propia attenzione (infotention).
Un punto su cui Rheingold insiste e’ che comunque dobbiamo comunque avere delle mete, delle passioni, degli interessi da seguire e a partire da questi organizzare il nostro cruscotto ( dashboard) informativo…fatto di blog, rss reader, social network ecc..
E’ forse questo il futuro della scuola: suscitare interessi e insegnare a perseguirli anche nell’apparente caos informatico della Rete?
Perfetto, è ciò che cerchiamo di imparare a fare noi, in primis.
Grazia, quello che dice il libro che citi è veramente il centro del problema. Sto lavorando in questi giorni ad un evento formativo dove si discuterà anche del ruolo della scuola per cui sto ragionando molto sull’argomento. Il ruolo della scuola, oggi più che mai, deve essere quello che inquadra la tua citazione. Non più fonte di informazioni, perché giustamente le informazioni si trovano altrove, ma luogo dove imparare ad avere un pensiero critico, un altro punto di vista. Luogo dove diventare cittadini della società civile e non sudditi che subiscono informazioni e logica del pensiero dominante e dominato dall’economia di mercato.
Mi viene in mente una frase di Pietro Calamandrei
“trasformare i sudditi in cittadini è un miracolo che solo la scuola può compiere”
Ok oltre al libro di Calvino compro anche quello di Casati oggi in libreria.
Sono perfettamente d’accordo con te.
Aggiungerei alla lista dei libri quello consigliato da vincenzo_bitti; molto interessante e utile.
Il testo di Calvino, se vuoi, puoi trovarlo in rete, versione PDF; lo condivido in Diigo.
su questi temi e altri collegati (l’insegnamento e i “presunti” nativi digitali) ho appena letto un libro molto interessante di Roberto Casati, intitolato Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere (ed. Laterza). Mi riprometto di riparlarne nel mio blog, intanto metto qui una citazione:
“La discussione sulle nuove tecnologie mette allora in nuce un potente equivoco sulla scuola e sui suoi fini. La scuola non è (più, non principalmente) un luogo in cui acquisire informazioni. Le informazioni sono disponibili in misura assai maggiore fuori dalla scuola, nella rete: da questo punto di vista la scuola non può competere con la Rete. Il vantaggio cognitivo della scuola è di fornire qualcosa che la rete non potrà mai dare, ovvero un punto di vista diverso sulle informazioni, dato che i sistemi di raccomandazioni che lavorono nella rete (chi ha comprato x ha comprato anche y) fanno di tutto per inchiodare una persona al suo profilo. O forse addirittura la scuola può semplicemente fornire l’idea che un punto di vista sia possibile, dato che le informazioni sono oggi soltanto prevalentemente subite. In questo senso la scuola ha un valore esemplare, serve come esempio. Per il semplice fatto di esistere, mostra che possono esistere cose che non sono sottoposte alle logiche dominanti in una società, e mantiene quindi aperta la possibilità di una società diversa”.
Purtroppo la mia esperienza va in senso contrario rispetto a quanto scritto nel testo di Roberto Casati e i vantaggi cognitivi della scuola, nel suo complesso, fatico a vederli. Quando ci sono è grazie alla presenza di qualche insegnante illuminato disposto ad impegnarsi e, il più delle volte, a pagare le conseguenze del suo modo di operare o semplicemente di “essere”.
Più spesso ho visto soffocare immaginazione e creatività, piuttosto che coltivare il famoso pensiero differente o spirito critico.
La possibilità di una società diversa e non uniformata l’ho invece riscontrata nella Rete, forse perché è più facile incontrare persone che hanno già fatto serie riflessioni sull’ utilizzo consapevole delle tecnologie e sono disposte a condividere la loro esperienza.
Intendo per consapevolezza la capacità di pensare a cosa si sta facendo e perché lo si fa al posto di seguire tutto meccanicamente e acriticamente; sapere come utilizzare gli strumenti online, (ma esiste ancora una distinzione vera tra on e offline?), senza essere schiacciati dalle informazioni è essenziale nella nostra epoca ma le istituzioni educative dimostrano lentezza e incapacità a includere, nei loro percorsi, queste competenze digitali.
Si, anche io ho la stessa tua percezione della scuola oggi, incapace di coltivare negli studenti lo spirito critico ed il pensiero differente, pronta invece a soffocare ed uniformare. Ma secondo me è proprio questa la sfida: ridare alla scuola la sua centralità, il suo ruolo nella società. E se questo accade nella rete la scuola dovrà farsi rete. Come facciamo? non lo so di preciso ma credo che quello che stiamo facendo qui, creare e coltivare connessioni, agganciare fili tra noi, sia un passo in questa direzione.
Sono d’accordo sul fatto che la scuola non sia capace di formare spiriti critici, ma rimane il fatto che questo è il suo compito.
Quanto alla rete, ti offre lo scorcio di una scietà diversa solo se questo è quello che cerchi. Ognuno di noi si costruisce una mappa all’interno della rete e questa da l’illusione di essere in tanti a condividere certi modi di pensare. In realtà la stragrande maggioranza delle persone frequenta in rete le stesse testate, ormai “multimediali” qualunque sia stata la loro origine, “disinformanti” e “uniformanti” che frequentava prima di frequentare la rete.
Reblogged this on Il Blog di Tino Soudaz 2.0 ( un pochino).
Non posso che essere d’accordo con quanto trovo scritto in questo post.
“… di una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.
Non una città ma un villaggio che, secondo me, ha raggiunto due grandi obiettivi: dare risposte alle domande e alle aspettative di formazione e di relazione degli abitanti e unire rendendo visibili tutte queste voci, tutte queste esperienze. Ora tocca a noi dare loro spazio, saperle fare sopravvivere, unendo fili invisibili.
Per quanto riguarda i libri, sotto qualunque forma li intendiamo, sono e saranno ancora qui perché, come dice Morin: “i grandi libri ci aiutano a dar forma ad una verità” che già ci appartiene. Quali siano i grandi libri poi, ognuno lo stabilisce da sé, secondo la propria sensibilità o vicinanza con gli autori a cui fare riferimento.
Eccomi di nuovo. Come dice Nadia, sono stata presa nell’ultimo periodo dal “naturale moto dell’animo umano che tende a deprimersi e chiudersi in se stesso quando si confronta per lungo tempo con situazioni “corrotte”. Le “orrende nefandezze” che hanno accompagnato la formulazione dell’offerta formativa di UNIFI 2013-2014 mi hanno a tal punto prostrata che non ho voluto sentir parlare di didattica per un bel po’. E così, stupidamente, avevo chiuso tutte le finestre su questo villaggio che invece nell’ultimo periodo era stato fonte di aria pura e fresca, di emozioni, di scoperte. Soltanto ieri ho preso il coraggio di riaprire le finestre e….sono letteralmente rinata! Trovo bellissimo questo post di Andreas che commenta le interessanti argomentazioni proposte da Luisella. Per prima cosa comprerò e leggerò il libro di Calvino che. confesso, non ho ancora letto. E poi ritrovo qui tanti dei miei pensieri su come il nuovo linguaggio, proprio della rete, breve e multimediale, possa modificare radicalmente le nostre modalità comunicative e soprattutto quelle dei giovani. Possa allontanarli dalla modalità lunga e che scende in profondità per abbracciare una modalità breve che rimane in superficie.
Devo dire però che non mi sento affatto pessimista nei riguardi di questa rivoluzione. Anzi ne sono estremamente attratta. Comunicando spesso con i giovani, per lavoro e come mamma, sono stata colpita dalla profondità degli SMS di mia figlia, dalla efficacia di brevi e-mail di studenti, dalla quantità di multiple sensazioni che mi provoca un’immagine senza parole postata su facebook al momento giusto con un semplice tag. Forse lo sbaglio che facciamo è proprio quello di associare Lungo a profondo e approfondito e Corto a superficiale e incompleto. Non è così. Qualche tempo, leggendo in rete sull’argomento, ho trovato su questo blog http://messainscena.blogosfere.it
questo breve commento:
Con gli sms ci si lascia e ci si innamora. Ci si conosce e ci si allontana. Si litiga e si fa la pace. Ci si esprime. Ci si ascolta.
Dicono che abbiamo perso il gusto di scrivere e di leggere per colpa di questi dannati sms, e anche di parlare. Che siamo diventati superficiali e approssimativi. Persino che offendiamo la ricchezza della nostra lingua madre.
Ma in fondo.
Non è una capacità incredibile far innamorare qualcuno in 160 caratteri? Non ci vuole un’intensità grandiosa per concentrare tutto in una manciata di parole? Non è una conquista tagliare i rami secchi, le frasi di troppo, i “ma” e i “se”, e saper andare al dunque, al “ti amo”, al “non cercarmi mai più”, al “ho bisogno di vederti”?
Non è poetico riuscire a esprimere in così poco spazio quello che si prova?
MI ILLUMINO DI IMMENSO
Giuseppe Ungaretti nella nostra epoca si sarebbe trovato benissimo.
Quindi non bisogna diffidare ed avere paura, ma avere il coraggio di
“cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
In qualunque modo egli abbia intenzione di esprimersi, aggiungerei.
Tempo fa, in un bar, ho sentito due ragazze sui vent’anni che parlavano del fatto che una di loro era stata lasciata con un sms. Il commento più usato era “vigliacco”.
Nn c si +.
Boh…
il problema non è l’sms-ese in sé. Scriver sintetico ed escogitare abbreviazioni efficaci può essere un esercizio tanto creativo quanto obbligarsi a scrivere un endecasillabo.
Mi è capitato di divertirmi molto a scambiarmi tweet con gli studenti giocando all’abbreviazione sempre più ardita, ha un ché che sfocia nello scriver codice.
Il problema c’è se lo scrivere abbreviato tracima laddove non ce n’è bisogno e dove sintassi e ortografia è bene che vengano rispettate. Allora sì.
“Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Direi non solo rischioso, ma implica anche fatica, perché costringe a rigettare il naturale moto dell’animo umano che tende a deprimersi e chiudersi in se stesso quando si confronta per lungo tempo con situazioni “corrotte”.
Credo, però, che la fatica valga la candela, anche perché la ricerca di propri simili all’interno dell’inferno che ci circonda è l’unica via di fuga percorribile.
Quindi, un grazie sentito a questo villaggio che mi dà l’occasione di cercare/trovare stimoli nuovi per guardare con occhi diversi le brutture di ciò che ci circonda.