Mi ritrovo sempre più, mi sembra, nei panni di Benjamin Malaussène, immerso in una comunità viva che ignoravo, ospitata nel senso di tollerata, se non osteggiata, dalla comunità mia, sempre più morta. Disse uno dei miei più astiosi compaesani: “Portali a casa tua…!” – È esattamente quello che sto facendo, caro mio. Anzi, di più, frequento, insieme alla mia famiglia e ad alcuni amici più cari, le loro comunità, che popolano la mia città e che non conoscevo. Una città che da decenni mi pare sempre più un colossale monumento percorso da orde di selfie-fotografi rintronati, tanto ignari quanto compulsivi, città colonizzata da freddi marchi multinazionali che mi sono estranei. Il Centro di Accoglienza Straordinaria che hanno installato nel mio paese è lontano da Firenze per coloro che ospita, perché il paese non è servito dai mezzi. Quindi mi capita di riportarne qualcuno a casa, dopo il lavoro. Ieri ne ho portati quattro. Gli stessi che oggi cucinano piatti della loro cultura a casa mia, che consumeremo insieme. Stamani ne ho portati due a prendere il treno per un posto lontano, aiutandoli a orientarsi e a fare il biglietto. Oppure vado nel loro quartiere a mangiare a pranzo, dove mi reco anche a cercare di risolvere i loro problemi di comunicazione con quei telefoni di fascia bassa che scopro funzionare benissimo. Mi piace stare in quella parte della città, finalmente viva. È come riposizionare il baricentro dell’esistenza nel reale, giù dalle altezze apparenti delle chiacchiere vane nei social, dal veleno diffuso dagli opinionisti seriali, dai finti bisogni che rendono i più sudditi di Apple o Microsoft. Riscopro che con uno (smart)phone da 50 euro faccio tutto quello che avrei potuto fare con l’ultimo modello da 700 euro, che mi guarderò dal comprare; e riscopro che la mia vita da superprofessionista di tecnologie scorre leggera con computer che altri hanno riposto in cantina cinque anni fa; lo riscopro aiutando questi ragazzi, aiutandoli e godendo, da educatore, della loro fresca voglia di imparare. Trovo giovani dall’intelligenza vivissima, a volte con sorprendenti competenze, come il matematico che purtroppo (per me, non per lui) è partito per un altro paese.
Allora mi rendo conto che la mia missione è un’altra: aiutare questi ragazzi a integrarsi, sì, ma cercando di non far perdere loro quel sano senso del reale che da queste parti sembra scomparso. Cercando di insegnare loro a non farsi abbindolare dagli specchietti per le allodole che hanno fiaccato la mia comunità. È come un viaggio, in luoghi molto più remoti e profondi di quelli che mi potrebbe offrire un’agenzia turistica. Un vero viaggio, come si intendeva una volta. E sempre più mi pare che per viaggiare veramente ci si possa semplicemente immergere nel nuovo che appare a casa tua. A casa tua ma lontano dal rassicurante che ti addormenta.
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