Relazioni sufficientemente buone

Trascrivo questo capitolo tratto da “Insegnare al principe di Danimarca” di Carla Melazzini (a cura di Cesare Moreno, Sellerio, 2011), nella speranza di indurre qualcuno ad acquistare e a leggere il libro. Le parole scritte da Carla Melazzini chiariscono bene delle considerazioni che stiamo facendo presso la Scuolina, realtà infinitamente più piccola e diversa da quella dei maestri di strada di Napoli ma con delle affinità importanti, per noi. I nostri contesti sono diversi ma le considerazioni svolte, opportunamente adeguate, inducono riflessioni che ci possono essere utili. I maestri di strada esistono sempre. Chi vuole vedere cosa e come è eventualmente cambiato rispetto all’epoca cui si riferisce il libro – circa i primi dieci anni del millenio – può andare a visitare il sito Maestri di Strada Onlus. C’è da imparare e non è “altro”. Napoli riguarda tutti noi, come ogni altro angolo del paese.

Sarebbe interessante fare un repertorio delle caratteristiche che fanno di una relazione una “buona relazione”. Ne menziono due o tre brevemente. Un primo elemento irrinunciabile mi sembra quello del tempo: per fare una buona relazione ci vuole una quantità di tempo. E qui si presenta già un primo conflitto con la politica, perché al di là delle lungaggini infinite della burocrazia (ma quello è un non-tempo, un tempo vuoto, tempo perso) i tempi politici seguono altre logiche, si confrontano con le elezioni, con le approvazioni dei bilanci, con le scadenze elettorali, purtroppo sempre di più col sondaggio quotidiano, che collidono drammaticamente con i tempi di una buona relazione.

Per costruire buone relazioni ci vuole molto tempo, anche perché bisogna riparare dei danni. E qui emerge un’altra e più grave contraddizione, perché mentre per fare un danno basta un secondo, per fare una guerra basta una settimana (dopodiché hai distrutto un paese, un’intera generazione); ecco, poi a ricostruire e a medicare ci vogliono decenni, se non secoli.

Un altro parametro fondamentale è l’indipendenza: una relazione che crea dipendenza non è una buona relazione. E qui bisogna essere conseguenti: il volontariato, anche le persone con le migliori intenzioni, se creano dipendenza non lavorano bene. Questa è una faccenda difficilissima da gestire perché l’indipendenza è legata a doppio filo con un’altra caratteristica a mio avviso irrinunciabile di una relazione, che è la reciprocità: se non è reciproca, una relazione non è “buona”. Reciproco cosa vuol dire? Che si cresce insieme. Tante volte nel volontariato, ma in tutte le azioni che investono il sociale, c’è la tentazione della relazione unilaterale: “io faccio qualcosa per te”, che è la tentazione del potere. Perché se io faccio qualcosa per te e tu ricevi qualcosa da me, io ho più potere di te e la relazione è asimmetrica. E questa cosa è pericolosa, e si supera a una sola condizione: “io faccio una cosa per te perché tu ne fai una per me”. Però anche qui poi le cose sono molto complicate perché c’è un tipo di reciprocità che è malsana. E allora anche qui cito il volontariato perché è la cosa più clamorosa, però succede in tutti i tipi di intervento. Io ho una sorella che lavora in Perù con gli indios. Il fatto è che lì il problema grosso non sono tanto gli indios (con cui il rischio della dipendenza è evidentemente enorme), bensì i volontari che arrivano dall’Italia certo per “dare”, ma spesso anche per ricevere la soluzione dei loro problemi “personali”; e questo sulla pelle di questi poveri disgraziati, i quali oltre che il oro si devono incaricare di risolvere anche i problemi psicologici e relazionali dei loro volontari. Ecco, questo è malsano.

Bonificare questo tipo di relazioni e faticoso, è difficile e non si può fare senza dei sostegni appropriati, di tipo psicologico, ma di una psicologia sana. Dipendenza, parassitismo, sono patologie molto gravi della relazione. La relazione buona è quella dove tu espliciti che stai ricevono molto, per esempio in termini di conoscenza, perché in una buona relazione si crea pensiero. Noi maestri di strada, nei tanti anni del progetto, abbiamo imparato una quantità di cose sterminata. Allora qualunque relazione insegnante-alunno in cui l’insegnante non sia disposto ad accettare che lui impara dall’alunno quanto e forse più di quanto l’alunno non impari da lui, non è una buona relazione. In una relazione buona si cresce anche in termini di arricchimento emotivo. E tutto questo va esplicitato perché il cosiddetto “ricevente”, l’altro contraente del patto – ecco, forse il termine esatto è patto – deve essere consapevole di questo, deve sapere quanto lui ti sta dando in questa relazione.

A me piace un termine psicanalitico che è quello di “sufficientemente buono”. Che non a caso è stato fatto da un inglese, Donald Winnicott, 1896-1971), che prima di essere uno specialista era un pediatra, un medico.

Cosa vuol dire sufficientemente buono? Che non c’è la perfezione, perché se tu parli e pensi in termini di perfezione sei paranoico, stai delirando. E però la sufficienza ci deve essere, se no sono guai.

Questi mi sembrano tutti parametri per definire se una relazione è sufficientemente buona. Ma tutte queste cose vanno costruite, progettate, preparate, non possono essere affidate a un qualche spontaneismo.

Un altro parametro è quello delle parole: non bisogna usare parole senza significato. In una buona relazione tutte le parole assumono un significato sostanziale.

Per esempio, la critica maggiore che faccio alla sinistra è questo uso e abuso della retorica, di avere tolto significato alle alle parole, cioè di dire parole anche buone ma in maniera retorica. Tutta questa terminologia dell'”altro”, del “diverso”, rischiano di creare dei cortocircuiti perché fanno lustro, fanno immagine, ma non fanno sostanza, non dicono la fatica che c’è dietro l’incontro con un diverso. E guardate che il primo diverso sono i nostri figli, il primo diverso è il nostro vicino di casa…

Questo è un punto importante. Mariana, la ragazza albanese che è intervenuta ieri, è molto più vicina a me, simile a me, del ragazzo con cui io faccio la maestra di strada che casomai abita a trecento metri da casa mai – ma tra noi c’è un abisso. Non prendere atto di questa differenza antropologica (cioè culturale, linguistica) tra l’altro accentua la percezione sbagliata di alcuni fenomeni. Prendiamo l’immigrazione. Ebbene, ricordiamoci che quelli che arrivano coi gommoni, che noi percepiamo come il pericolo, il nemico, sono molto più simili a noi di quelli che rimangono nei loro paesi. Quello che prende il gommone, che riesce a lasciare la nicchia, il paese, la comunità, è molto più simile a me del ragazzo che non riesce a ad attraversare la strada per uscire dal suo quartiere perché ha paura. Perché c’è una lingua e un mondo che lui non conosce. Allora, se io non riesco a prendere atto – e questo è faticoso – della differenza che c’è tra me e lui o lei, primo, non riesco a dargli una mano vera a superare questo abisso invisibile; secondo non riesco a rendermi conto di quanto sia difficile per lui, ma ancor più per lei. Una ragazza di questi quartieri di Napoli, a cui io propongo di fare un percorso di scuola e di lavoro, in alternativa al suo (che è la gravidanza a quindici anni, il matrimonio più o meno coatto con uno che la controlla giorno e notte, eccetera); ecco, se io non mi rendo conto di che cosa le sto chiedendo di fare, io la inguaio. E questa è un’esperienza molto dolorosa, che ci è capitata e ci continua a capitare. Noi ci stiamo rendendo conto solo oggi, dopo diversi anni, che a questi ragazzi spesso chiediamo di scavalcare un ponte su un abisso. Ed è delicatissimo perché poi, se io insisto, c’è di nuovo il rischio di cadere nella dipendenza perché la ragazzina ti dice: “Vabbè, io ci vengo dietro a te, ma tu non mi abbandoni più perché io da sola non ce la faccio”. Invece l’obiettivo di tutte queste attività è arrivare alla separazione, all’autonomia, alla fine della dipendenza. Però per poterci arrivare io devo essere perfettamente di cosa sto chiedendo a queste persone.

Nelle zone dove noi abitiamo e lavoriamo – parliamo di decine di migliaia di famiglie – come campa la gente? Campa con tre tipi di welfare: il welfare della camorra, il welfare dello stato e poi gli usurai; sono tre forme di credito di cui forse, in base ai discorsi fatti qui, la più malsana è il welfare statale: sono briciole, fanno schifo, sono sempre di meno, però nessuno ti chiede niente in cambio. La camorra ti chiede in cambio qualcosa che può significare anche la tua morte. L’usuraio ugualmente chiede in cambio qualcosa che può significare anche la tua morte. Lo stato non ti chiede niente in cambio. Soltanto fa di te un parassita.