Traducendo e collaborando… – #loptis

Clicca qui per scaricare la versione in pdf


Una settimana fa abbiamo proposto di tradurre insieme un articolo scientifico utilizzando lo strumento del wiki. In 16 hanno chiesto di essere iscritti al servizio e in 8 hanno contribuito traducendo circa la metà dell’articolo. Nella sezione di discussione della relativa pagina wiki sono stati scritti 83 commenti i quali sono stati visti 213 volte. I temi discussi spaziano dall’organizzazione dell’editing collaborativo – negoziazione sul metodo di marcatura delle parti tradotte ecc. – a questioni inerenti alla traduzione o anche al contenuto di alcuni passi dell’articolo.

Non immaginavo che la cosa partisse con questa velocità. Ho avuto difficoltà a scrivere questo che pensavo dovesse essere un post-lampo, a causa della velocità con cui state lavorando! Molto probabilmente, i numeri che leggerete saranno comunque obsoleti. Molto bene.

Benché poco incline ad avere il controllo totale degli accadimenti, ma molto più a mettere legna dove pare che il fuoco tiri, nel mio piccolo una minima parvenza d’ordine avevo provato ad immaginarla: prima quelli che sanno l’inglese traducono e poi tutti insieme si discute. Macché! Lo spazio di discussione s’è immediatamente intricato di discorsi sia di metodo che di merito. Ma ci metto un attimo a mollare i propositi di far ordine, che mi paion subito tanto pretenziosi quanto patetici: che avvampi dunque questo bel fuoco, e vediamo d’entrare a festa nell’anno nuovo!

Però provo a fare qualche considerazione sia sulle faccende di metodo che di merito – a dire il vero solo su uno degli spunti proposti. Per quanto attiene al metodo sintetizzo alcuni suggerimenti distillati dalle negoziazioni emerse nelle discussioni, mica tanto per sancire delle regole ferree, quanto per illustrare i modi emersi spontaneamente per collaborare in un wiki.

  • Decidere il passo che si vuole tradurre
  • Copiarlo in un altro luogo, magari creando una nuova pagina nel wiki; in questo momento vedo le seguenti pagine: articolo problema, articolo processo, articolo documentare processo, articolo percorso
  • Segnalare in qualche modo sulla pagina wiki la propria intenzione di tradurre quel passo, come ha fatto per esempio Claude. Questo è interessante perché riproduce la tecnica fondamentale usata dai database per mantenere l’integrità dei dati nel caso di transazioni simultanee: quando parte una transazione – la prenotazione di un posto sul treno – il sistema blocca l’accesso ai dati potenzialmente coinvolti nella transazione, e se arrivano nel frattempo altre richieste, queste dovranno attendere che sia chiusa la precedente. Claude ha impostato qualcosa di simile, che naturalmente funziona se sostenuto dall’autodisciplina dei partecipanti: chi vuole tradurre un brano lo “blocca” e gli altri “rispettano” il blocco.
  • Inserire nella pagina principale Articolo da tradurre e discutere i passi tradotti colorandoli in blu
  • Includere in una coppia di parentesi quadre la versione inglese dei brani tradotti che si vogliono lasciare visibili per facilitare la revisione e la discussione della traduzione – come ha fatto per esempio Martina.

Ora qualche considerazione sul merito, partendo da uno dei numerosi spunti proposti da Martina:

3 – Cosa intendono per Educators world-wide have embraced the notion that engaging in action research can empower teachers as classroom researchers who improve their teaching practices and encrease their students’ learning outcomes?

Lavorano sull’ipotesi di un insegnante ricercatore che lavori progettando proposte educative e attività, ne analizzi i risultati osservando quello che accade in classe durante la loro realizzazione, si confronta con i colleghi e gli esperti per aggiustarne il tiro, per valutarle e modificarle con il fine di migliorare la resa e la competenza dei propri alunni? Se sì … sarebbe bellissimo!

Sì Martina, sarebbe bellissimo, e non solo nel contesto che stiamo commentando. Double-loop learning (dall’action research di Argyris), expansive learning (Engeström), zone of reflective capacity (derivazione forse un po’ leggera da un’idea di Vygotsky), reflective practice (Schön) – banalizzando un po’, thinking outside the box: uscire dalla “scatola” per cercare un’altra prospettiva sotto la quale riconsiderare il problema – sono alcune delle prospettive suggerite da vari studiosi che da almeno una trentina d’anni stanno cercando di comprendere meglio l’apprendimento, il suo ruolo all’interno dell’organizzazione in cui l’individuo opera e come ciò ne influenzi la capacità  di affrontare i marosi della contemporaneità – immaginando la cosiddetta learning organization,  l’organizzazione adattabile al mutevole contesto, l’organizzazione capace di apprendere. Una cosa della quale mi pare ci sia molto bisogno e della quale non ho visto praticamente tracce, in tutte le organizzazioni pubbliche e private con le quali ho avuto a che fare direttamente – a me sono parse tutte inadeguate, ivi incluse le scuole e l’università, dove poi sono rimasto a fare il ricercatore. Ecco, quest’ultime mi sono parse tragicamente inadeguate, in relazione al loro compito istituzionale.

Edgar Morin nel suo Metodo – p. 7, a proposito dell’università, dice che la Scuola della ricerca è una scuola del Lutto, laddove essa si ostina a tenere disgiunti i saperi mentre il mondo ci sta urlando di non poter essere descritto così.

Saperi disgiunti, conservati…

È ben protetta la Scienza, ve lo dico io, la Facoltà, è un armadio ben chiuso. Vasetti in quantità, poca marmellata. [Céline – p. 227]

E giusto ieri sera, leggendo Learning by Expanding [Engeström – p. 50]:

Retreat into the safe world of academic discourse is today almost a guarantee of distorted observation. – Rifugiarsi nel porto sicuro del discorso accademico, significa oggi quasi sicuramente osservazione distorta.

Tutti riferimenti all’Accademia, è vero. Ma poi è l’atmosfera di quell’Accademia quella che viene proiettata sull’intero apparato dei sistemi di istruzione di tutto il mondo, quasi come se il vero obiettivo di tali sistemi fosse solo quello di sfornare professori universitari [Sir Ken Robinson – 9:58]. E il resto, la stragrande maggioranza degli scolari, se ne va affrontando la vita con una preparazione da mini-professore, spesso gravemente carente per affrontare mestieri e arti di ogni sorta. Un sistema rigido, in ogni sua parte, alla deriva in un mondo che richiederebbe invece crescente adattabilità.

Quel lavorare ricercando – come dice Martina, progettando proposte, analizzando risultati, osservando quello che accade, confrontandosi per aggiustarne il tiro, per valutarle e modificarle con il fine di migliorare – significa essere disposti a uscire dallo schema del problem solving convenzionale – dove si deve selezionare una fra un definito numero di possibili soluzioni predisposte – e si è invece disposti a rivedere il set di soluzioni possibili, eventualmente anche a rivedere l’intero contesto in cui si pone il problema, magari finendo col riformularlo nuovamente, magari in una forma completamente diversa.

L’abitudine di considerare il proprio ruolo definito e definitivo, delegando la soluzione dei problemi all’organizzazione, è fallimentare nell’era contemporanea. Le organizzazioni sono ancora oggi quasi sempre prive di strumenti idonei alla percezione del contesto e all’adattamento, anni luce distanti da quella learning organization che gli studiosi vanno immaginando.

La questione fondamentale che deve essere chiarita bene, è che, all’occorrenza, tutti i partecipanti di una learning organization devono essere disposti ad “uscire dalla scatola” dei metodi ordinari, e dal canto loro i dirigenti devono essere predisposti a cogliere e valorizzare gli spunti utili che provengano da qualsiasi altro partecipante, non importa da quale settore o livello dell’organizzazione.

Buon anno nuovo a tutti!


  1. Edgar Morin (2001)
    Il metodo
    La natura della natura
    Raffaello Cortina Editore (Milano)
  2. Céline (1932)
    Viaggio al termine della notte
    La Biblioteca di Repubblica (2002), Roma
  3. Yrjö Engeström (1987)
    Learning by Expanding
    Orienta-Konsultit, Helsinki
    Sto studiando l’opera di questo autore perché sviluppa in modo approfondito e traspone nel contesto attuale del lifelong learning l’idea di Vygotzky di zona di sviluppo prossimale, che il medesimo concepì a proposito dello sviluppo del bambino, ma che lasciò indefinita a causa della prematura morte. Un’idea indefinita ma che ha dato corso ad una ricchissima messe di citazioni, una buona parte delle quali forse troppo superficiali. Ho sempre “sentito” che il concetto di zona di sviluppo prossimale poteva essere di grande utilità per il lavoro che sto cercando di portare avanti ed è indubbio che sia stato fonte importante di ispirazione. Desiderando capire meglio, al di là delle intuizioni, è appunto nel lavoro di Engeström che trovo gli appigli teorici più saldi – consapevole che nell’ambito delle scienze sociali essi siano ancor più mobili di quelli offerti dalle scienze classiche, a me un po’ più famigliari. Purtroppo questo volume non si trova più – almeno io non sono riuscito a trovarlo – ma ho potuto scaricare dalla rete una versione in pdf, senza figure, che sono importanti in quel testo. Ed ecco un fatto interessante: ho scritto ad Annalisa Sannino, una collaboratrice di Yrjö Engeström – non avevo capito se era ancora attivo, pare di sì – chiedendo di questo libro. Dopo pochi giorni mi ha risposto informandomi che nel 2014 uscirà una revisione del libro, ma inviandomi anche un file pdf delle figure, che Yrjö Engeström medesimo si era premurato di passarle per l’occasione, poi da lei annotate affinché le potessi ricollocare nel testo che ho disposizione.
  4. Sir Ken Robinson (2006)
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: