La traduzione in collaborazione è stata completata – #loptis

Il 22 dicembre nel post Servizi di scrittura collaborativa e un primo progetto avevamo proposto l’idea di tradurre in collaborazione un articolo dall’inglese. L’idea consentiva di fare esercizio di editing in un wiki e allo stesso tempo di offrire materia di riflessione sull’aggiornamento professionale degli insegnanti in una modalità particolarmente coinvolgente.

L’articolo si intitola Expanding the zone of reflective capacity: taking separate journeys togetherEspandendo la zona di capacità riflessiva: unendo percorsi diversi. È apparso nel 2009 sulla rivista Networks – An Online Journal for Teacher Research.

Una settimana dopo, con il post Traducendo e collaborando…, abbiamo ripreso l’argomento per darci qualche regola, perché il lavoro era partito come una fiammata. Dopo un’altra settimana anche Claude è intervenuta, dando utili consigli sulle modalità di editing di un testo bilingue.

Poi il lavoro è andato sobbollendo grazie alla collaborazione di varie persone e alla cura continua di Claude. Ora è stato completato, grazie al contributo finale di Simona che ha estratto una versione ripulita dall’intrico di pagine che si era formato cammin facendo.

Intendiamoci, come dice Claude – che di traduzioni e di Lettere se ne intende – una traduzione non finisce mai. E noi lasceremo che chiunque voglia, possa contribuire a migliorarla, ove opportuno. Ma qui non dobbiamo dare qualcosa alle stampe, bensì solo consentire a tutti di accedere al contenuto dell’articolo – è in questo senso che possiamo ritenere completato il lavoro. Per chi volesse controllare la traduzione sulla carta, ecco i file pdf della versione inglese e della versione italiana. Chi volesse poi intervenire sulla versione finale oppure commentarla, può accedere alla versione preparata da Simona nel wiki.

Se non vado errato, al lavoro di traduzione hanno collaborato 13 persone,  che hanno creato 8 pagine revisionate in totale 133 volte, e che hanno comunicato fra loro nel wiki con 191 commenti. Non male! Ringraziamo quindi:

Se ho dimenticato qualcuno o qualcosa segnalatelo, aggiornerò conseguentemente questo post.

Quanto al contenuto, l’articolo narra del lavoro conclusivo di un percorso formativo, nel quale un gruppo di insegnanti, eterogeneo per disciplina e scuola, accetta di confrontarsi filmando alcune lezioni nelle rispettive classi e discutendole criticamente insieme. A me era parso un approccio formidabile e coraggioso, che faccio fatica ad immaginare nel nostro contesto – sto pensando al mio, naturalmente, ma credo che nella scuola non sia molto diverso. Mi piaceva sapere cosa pensavano le persone… ora lo possono leggere tutti.

Traducendo e collaborando… – #loptis

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Una settimana fa abbiamo proposto di tradurre insieme un articolo scientifico utilizzando lo strumento del wiki. In 16 hanno chiesto di essere iscritti al servizio e in 8 hanno contribuito traducendo circa la metà dell’articolo. Nella sezione di discussione della relativa pagina wiki sono stati scritti 83 commenti i quali sono stati visti 213 volte. I temi discussi spaziano dall’organizzazione dell’editing collaborativo – negoziazione sul metodo di marcatura delle parti tradotte ecc. – a questioni inerenti alla traduzione o anche al contenuto di alcuni passi dell’articolo.

Non immaginavo che la cosa partisse con questa velocità. Ho avuto difficoltà a scrivere questo che pensavo dovesse essere un post-lampo, a causa della velocità con cui state lavorando! Molto probabilmente, i numeri che leggerete saranno comunque obsoleti. Molto bene.

Benché poco incline ad avere il controllo totale degli accadimenti, ma molto più a mettere legna dove pare che il fuoco tiri, nel mio piccolo una minima parvenza d’ordine avevo provato ad immaginarla: prima quelli che sanno l’inglese traducono e poi tutti insieme si discute. Macché! Lo spazio di discussione s’è immediatamente intricato di discorsi sia di metodo che di merito. Ma ci metto un attimo a mollare i propositi di far ordine, che mi paion subito tanto pretenziosi quanto patetici: che avvampi dunque questo bel fuoco, e vediamo d’entrare a festa nell’anno nuovo!

Però provo a fare qualche considerazione sia sulle faccende di metodo che di merito – a dire il vero solo su uno degli spunti proposti. Per quanto attiene al metodo sintetizzo alcuni suggerimenti distillati dalle negoziazioni emerse nelle discussioni, mica tanto per sancire delle regole ferree, quanto per illustrare i modi emersi spontaneamente per collaborare in un wiki.

  • Decidere il passo che si vuole tradurre
  • Copiarlo in un altro luogo, magari creando una nuova pagina nel wiki; in questo momento vedo le seguenti pagine: articolo problema, articolo processo, articolo documentare processo, articolo percorso
  • Segnalare in qualche modo sulla pagina wiki la propria intenzione di tradurre quel passo, come ha fatto per esempio Claude. Questo è interessante perché riproduce la tecnica fondamentale usata dai database per mantenere l’integrità dei dati nel caso di transazioni simultanee: quando parte una transazione – la prenotazione di un posto sul treno – il sistema blocca l’accesso ai dati potenzialmente coinvolti nella transazione, e se arrivano nel frattempo altre richieste, queste dovranno attendere che sia chiusa la precedente. Claude ha impostato qualcosa di simile, che naturalmente funziona se sostenuto dall’autodisciplina dei partecipanti: chi vuole tradurre un brano lo “blocca” e gli altri “rispettano” il blocco.
  • Inserire nella pagina principale Articolo da tradurre e discutere i passi tradotti colorandoli in blu
  • Includere in una coppia di parentesi quadre la versione inglese dei brani tradotti che si vogliono lasciare visibili per facilitare la revisione e la discussione della traduzione – come ha fatto per esempio Martina.

Ora qualche considerazione sul merito, partendo da uno dei numerosi spunti proposti da Martina:

3 – Cosa intendono per Educators world-wide have embraced the notion that engaging in action research can empower teachers as classroom researchers who improve their teaching practices and encrease their students’ learning outcomes?

Lavorano sull’ipotesi di un insegnante ricercatore che lavori progettando proposte educative e attività, ne analizzi i risultati osservando quello che accade in classe durante la loro realizzazione, si confronta con i colleghi e gli esperti per aggiustarne il tiro, per valutarle e modificarle con il fine di migliorare la resa e la competenza dei propri alunni? Se sì … sarebbe bellissimo!

Sì Martina, sarebbe bellissimo, e non solo nel contesto che stiamo commentando. Double-loop learning (dall’action research di Argyris), expansive learning (Engeström), zone of reflective capacity (derivazione forse un po’ leggera da un’idea di Vygotsky), reflective practice (Schön) – banalizzando un po’, thinking outside the box: uscire dalla “scatola” per cercare un’altra prospettiva sotto la quale riconsiderare il problema – sono alcune delle prospettive suggerite da vari studiosi che da almeno una trentina d’anni stanno cercando di comprendere meglio l’apprendimento, il suo ruolo all’interno dell’organizzazione in cui l’individuo opera e come ciò ne influenzi la capacità  di affrontare i marosi della contemporaneità – immaginando la cosiddetta learning organization,  l’organizzazione adattabile al mutevole contesto, l’organizzazione capace di apprendere. Una cosa della quale mi pare ci sia molto bisogno e della quale non ho visto praticamente tracce, in tutte le organizzazioni pubbliche e private con le quali ho avuto a che fare direttamente – a me sono parse tutte inadeguate, ivi incluse le scuole e l’università, dove poi sono rimasto a fare il ricercatore. Ecco, quest’ultime mi sono parse tragicamente inadeguate, in relazione al loro compito istituzionale.

Edgar Morin nel suo Metodo – p. 7, a proposito dell’università, dice che la Scuola della ricerca è una scuola del Lutto, laddove essa si ostina a tenere disgiunti i saperi mentre il mondo ci sta urlando di non poter essere descritto così.

Saperi disgiunti, conservati…

È ben protetta la Scienza, ve lo dico io, la Facoltà, è un armadio ben chiuso. Vasetti in quantità, poca marmellata. [Céline – p. 227]

E giusto ieri sera, leggendo Learning by Expanding [Engeström – p. 50]:

Retreat into the safe world of academic discourse is today almost a guarantee of distorted observation. – Rifugiarsi nel porto sicuro del discorso accademico, significa oggi quasi sicuramente osservazione distorta.

Tutti riferimenti all’Accademia, è vero. Ma poi è l’atmosfera di quell’Accademia quella che viene proiettata sull’intero apparato dei sistemi di istruzione di tutto il mondo, quasi come se il vero obiettivo di tali sistemi fosse solo quello di sfornare professori universitari [Sir Ken Robinson – 9:58]. E il resto, la stragrande maggioranza degli scolari, se ne va affrontando la vita con una preparazione da mini-professore, spesso gravemente carente per affrontare mestieri e arti di ogni sorta. Un sistema rigido, in ogni sua parte, alla deriva in un mondo che richiederebbe invece crescente adattabilità.

Quel lavorare ricercando – come dice Martina, progettando proposte, analizzando risultati, osservando quello che accade, confrontandosi per aggiustarne il tiro, per valutarle e modificarle con il fine di migliorare – significa essere disposti a uscire dallo schema del problem solving convenzionale – dove si deve selezionare una fra un definito numero di possibili soluzioni predisposte – e si è invece disposti a rivedere il set di soluzioni possibili, eventualmente anche a rivedere l’intero contesto in cui si pone il problema, magari finendo col riformularlo nuovamente, magari in una forma completamente diversa.

L’abitudine di considerare il proprio ruolo definito e definitivo, delegando la soluzione dei problemi all’organizzazione, è fallimentare nell’era contemporanea. Le organizzazioni sono ancora oggi quasi sempre prive di strumenti idonei alla percezione del contesto e all’adattamento, anni luce distanti da quella learning organization che gli studiosi vanno immaginando.

La questione fondamentale che deve essere chiarita bene, è che, all’occorrenza, tutti i partecipanti di una learning organization devono essere disposti ad “uscire dalla scatola” dei metodi ordinari, e dal canto loro i dirigenti devono essere predisposti a cogliere e valorizzare gli spunti utili che provengano da qualsiasi altro partecipante, non importa da quale settore o livello dell’organizzazione.

Buon anno nuovo a tutti!


  1. Edgar Morin (2001)
    Il metodo
    La natura della natura
    Raffaello Cortina Editore (Milano)
  2. Céline (1932)
    Viaggio al termine della notte
    La Biblioteca di Repubblica (2002), Roma
  3. Yrjö Engeström (1987)
    Learning by Expanding
    Orienta-Konsultit, Helsinki
    Sto studiando l’opera di questo autore perché sviluppa in modo approfondito e traspone nel contesto attuale del lifelong learning l’idea di Vygotzky di zona di sviluppo prossimale, che il medesimo concepì a proposito dello sviluppo del bambino, ma che lasciò indefinita a causa della prematura morte. Un’idea indefinita ma che ha dato corso ad una ricchissima messe di citazioni, una buona parte delle quali forse troppo superficiali. Ho sempre “sentito” che il concetto di zona di sviluppo prossimale poteva essere di grande utilità per il lavoro che sto cercando di portare avanti ed è indubbio che sia stato fonte importante di ispirazione. Desiderando capire meglio, al di là delle intuizioni, è appunto nel lavoro di Engeström che trovo gli appigli teorici più saldi – consapevole che nell’ambito delle scienze sociali essi siano ancor più mobili di quelli offerti dalle scienze classiche, a me un po’ più famigliari. Purtroppo questo volume non si trova più – almeno io non sono riuscito a trovarlo – ma ho potuto scaricare dalla rete una versione in pdf, senza figure, che sono importanti in quel testo. Ed ecco un fatto interessante: ho scritto ad Annalisa Sannino, una collaboratrice di Yrjö Engeström – non avevo capito se era ancora attivo, pare di sì – chiedendo di questo libro. Dopo pochi giorni mi ha risposto informandomi che nel 2014 uscirà una revisione del libro, ma inviandomi anche un file pdf delle figure, che Yrjö Engeström medesimo si era premurato di passarle per l’occasione, poi da lei annotate affinché le potessi ricollocare nel testo che ho disposizione.
  4. Sir Ken Robinson (2006)

Servizi di scrittura collaborativa e un primo progetto – #loptis

Aggiornamento 26 dicembre. Ogni tanto mi perdo qualcosa, ma cerco di rimediare. A proposito di scrittura collaborativa è necessario aggiungere qui il riferimento al post Perché è più utile correggere i compiti online… di Fabrizio. In questo post trovate anche un elenco di risorse che complementa quelle citate qui.


Clicca qui per scaricare una versione in pdf.


In questo post:

  1. una breve ricognizione degli strumenti di collaborazione che vanno per la maggiore – suddivisi in categorie che riflettono obiettivi ben distinti, anche se per certi impieghi in parte coincidono
  2. una prima proposta di collaborazione utilizzando un wiki – poi ne verranno delle altre
  3. qualche precisazione aggiuntiva su editori collaborativi e pad

Strumenti di collaborazione

  • Wiki. È un servizio web che ti consente di fare un sito, con tutti i contenuti che vuoi e sul quale si può lavorare molto facilmente in gruppo. Si possono fare siti molto articolati e dinamici, grazie anche alla possibilità di inserire una varietà di oggetti. Per esempio nel servizio Wikispace si possono inserire: lista dei contenuti del wiki, web feed (potete fare una pagina da usare come aggregatore di web feed [1]), video, quiz per gli studenti, esercizi GeoGebra, calendari, fogli di lavoro, finestre di chat, sondaggi, presentazioni di slide, mappe geografiche, frammenti codificati in HTML eccetera…
    Tocca fare un account per partecipare. Proporremo alcune attività di collaborazione in un wiki, a partire da questa.
  • Drive e similari. I documenti stile Office portati nella NuvolaCloud – dove ci si può anche collaborare. A dire il vero i confini stanno sfumando. Office di Microsoft è andato anche lui nella nuvola, e anche iWork di Apple. E poi ce ne sono altri simili, Zoho e tanti altri – il link non so quanto sia aggiornato ma a maggior ragione è impressionante… Comunque qui si tratta di “oggetti” stile office (testi, fogli di lavoro, presentazioni, magari database) tenuti e gestiti là fuori, nella nuvola, su cui si può collaborare. Tutti servizi tesi alla fidelizzazione: necessario fare l’account.
  • Dropbox e similari. Il mio hard disk portato nella Nuvola. Lo vedo come una cartella del computer o del touch-coso. I file che metti nella sottocartella Public sono dotati di un URL che puoi dare a chiunque per condividere – cliccare con il tasto destro del mouse poi Dropbox->Copy Public Link – i vostri amici possono così scaricare quei file sulle loro macchine. Dropbox dice di tenere i vostri documenti nella Nuvola in forma cifrata, però le chiavi le ha lui… Anche qui ci vuole l’account.
  • Blog. Tutti i blog possono essere gestiti da più autori, che possono così collaborare nell’offerta di informazione o formazione. Ci vuole l’account.
  • Pad. Taccuino nella nuvola con semplici possibilità di editing, fatto per scrivere testi in modo condiviso. Molto usato nelle comunità di sviluppatori software, hacker, attivisti più o meno geek (hacktivist). Immediato, comodissimo, non richiede account. Ma nessuna possibilità di controllo della visibilità, minore garanzia di persistenza dei documenti. I servizi di pad sono di solito mantenuti da gruppi motivati da principi etici. Abbiamo gia usato un pad in questo laboratorio, nel post il laboratorio nel computer e seguenti; ce ne siamo serviti per scambiarci qualche informazione sugli esperimenti con il codice. Era questo. Nell’ultima parte altri dettagli sui pad.
  • Editore collaborativo Questo me l’ha twittato ieri Paolo (blog), non lo conoscevo: si chiama Gobby. Funziona in modo simile ad un pad ma in modo privato e attraverso un canale criptato, se ci riesce. Non c’è bisogno di account ma occorre un server a cui riferirsi. È interessante il fatto di poterlo facilmente installare su un proprio server perché poi si può lavorare in gruppo ma in maniera non pubblica – appropriato per vari usi scolastici. Altra particolarità è quella di offrire il syntax highlighting, vale a dire la capacità di utilizzare i colori per evidenziare gli elementi sintattici di molti tipi di codice. Qualche altra considerazione su Gobby nell’ultima parte.
  • ULTIM’ORA: La nuvola che controlli te E questo viene da un commento scritto da Marco pochi minuti fa. Il riferimento è a WebODF: se hai un tuo sito allora puoi inserirci un pezzetto di HTML, un pezzetto di codice Javascript e poi scarichi sul medesimo server i documenti che vuoi offrire per lavorare collaborativamente. Nella pagina Getting started spiegano esattamente come. Naturalmente, la cosa è possibile se hai un sito che controlli abbastanza da poterci mettere pezzi di HTML e di Javascript – per esempio in un blog WordPress.com come questo non si può fare. In uno WordPress.org ospitato da qualche parte penso di sì. Molto bellino. Osservazione: forse avere fatto un po’ di fatica con HTML e Javascript ci serve a farsi un’idea di cosa ci sia scritto in una pagina come Getting started.

Una proposta di lavoro

Qualche tempo fa lessi un articolo che mi piacque: Expanding the zone of reflective capacity: taking separate journeys together – Espandendo la zona di capacità riflessiva: unendo percorsi diversi – correggetemi se si può tradure meglio. È apparso nel 2009 sulla rivista Networks – An Online Journal for Teacher Research.

Parla dell’esperienza di un gruppo di insegnanti, molto diversi per età, scuola e disciplina, che alla fine di un corso di aggiornamento si lasciano coinvolgere in un esperimento di pratica riflessiva. Quando l’ho letto, la prima cosa che ho pensato è che a me avrebbe fatto molto bene una cosa del genere. Ma sarei curioso di sapere cosa ne pensate voi.

È vero, c’è il problema che è in inglese, ma vediamo di creare valore dal problema. Ovviamente, chi insegna inglese l’articolo se lo può godere subito. Compensiamo quindi questo vantaggio con un contributo: perché non fare una traduzione in collaborazione? Magari usando un wiki e così imparando anche a editare in un wiki? Non è lunghissimo, se ci aiutiamo forse ce la facciamo.

Ci sarebbero altre attività da proporre – le rimandiamo ai prossimi post.

A questo punto vi rimando al materiale preparato nel wiki, con questi due link: la home page di http://loptis.wikispaces.com, dove ho inserito un po’ di istruzioni e riferimenti per l’editing, e la pagina dell’articolo da tradurre e discutere.

Mi rendo conto che la traduzione potrà andare un po’ per le lunghe, non importa, basta che progredisca. Richiameremo l’attenzione di tutti quando sarà completata, per vedere che effetto fa il contenuto dell’articolo.

In generale questo e i prossimi esperimenti con il wiki sono interessanti perché allargano gli orizzonti delle pratiche di editing.

Ero incerto su come procedere per come gestire le iscrizioni al wiki e alla fine mi sono risolto a questo:

chiunque voglia partecipare in questa o nelle prossime attività, oppure voglia farne partire una, oppure voglia solo provare ad entrare nel wiki e creare delle pagine per esercizio, lo chieda con un commento qui oppure scrivendomi un’email, ed io farò partire l’invito da Wikispace

Qualcuno noterà una sorta di contraddizione con quanto avevo scritto a proposito di fare gli account nel post Non solo luci – sì, la faccenda attiene all’opportunità di doversi sporcare le mani, pronti a trovar di meglio appena possibile…

Editori collaborativi: I “pad” e il caso di Gobby

Due parole sui pad.

Si tratta di uno strumento usato primariamente da comunità di hacker e gruppi di attivisti (per esempio del Partito Pirata) perché l’hanno trovato congeniale allo sviluppo dei loro progetti, in forme collaborative leggere, dinamiche, online, e se lo sono forgiato così perchè fa comodo loro cosi.

Non va assolutamente bene per tenerci documenti, non c’è nessuna garanzia di persistenza, anche se fino ad ora non ho mai perso niente, quando mi è capitato di usarlo. Ma sarebbe sciocco pretenderlo. Quando si usa va sempre esportato il contenuto – ma questo è vero anche con tutto il cloud. Non c’è nemmeno nessuna garanzia che qualcuno vi ciacci indebitamente: godetevi l’assenza di account ma siate consapevoli di essere all’aperto; basta salvare localmente e eventualmente ripristinare una versione precedente nella timeline – sistema che i pad offrono per controllare l’evoluzione di un documento.

Una vostra collega mi scrisse una sera disperata perché aveva coinvolto i suoi piccoli bambini in un lavoro con Piratepad, pensando che poi finisse lì. La sera tardi si accorse che i “piccoli” eran tutti a chattarci dentro. Le prese il terrore di averli sguinzagliati nel cyberspazio, terrore delle reazioni dei genitori…

Esplorai alla svelta ma senza trovar rimedi pronti: i pad non possono essere limitati. Dopo rapida consultazione m’improvvisai sabotatore, inondando il pad di messaggi deludenti – System failure… – suggerendo di comunicare il giorno dopo ai bambini che quello era sì un balocco divertente, ma che spesso si rompeva. La soluzione a questo tipo di problemi potrebbe essere quella di utilizzare il Gobby segnalato da Paolo. Dopo vediamo un attimo.

Invece i pad sono ottimi per collaborazioni focalizzate su temi specifici. Ci sono vari servizi a giro, eccone alcuni:

Nel cMOOC #ltis13 abbiamo usato molto http://piratepad.net/:

Se aprite un documento in PiratePad, prendete nota (copia-incollate) del suo indirizzo URL, è con questo che poi lo ritroverete là fuori. Potete anche crearlo “imponendo” un URL che vi piace, tipo http://pirate.pad/ e poi aggiungendo quello che volete, pippo, ilmiopad, ilpadpiuganzodelmondo ecc. Non vi affezionate troppo ai colori, riaccedendo da macchine diverse possono cambiare, servono lì per lì.

I pad non vanno confusi con i wiki, che sono strumenti adatti alla collaborazione di comunità che possono essere assai vaste, strutturabili come veri e propri siti articolati in gerarchie di pagine e ammennicoli vari. Come questo per esempio, che ho usato molto in passato – ora ci lascio qualche dispensa che talvolta suggerisco a qualche studente.

Vanno invece benissimo invece per buttarci dentro delle note su cui lavorare in piccoli gruppi, con una chat che consente la discussione estemporanea. Costano veramente zero: né $ né identità. Disponibilità ubiquitaria, puro strumento di rete: chiaro che soffrono le connessioni ballerine e i sovraccarichi di rete. Da non usare con iPad – tablet fantastico ma un po’ troppo chiuso: le grandi aziende perdono facilmente la testa e vogliono imporre i loro standard tentando di decretare la morte di altri: Apple, Microsoft, Google, Facebook… Noi qui ci esercitiamo a popolare gli interstizi, più saremo e più questi si gonfieranno. Ci piace più la libertà della comodità.

Riciclo qui due tutorial sull’impiego di Piratepad.

E infine Gobby. L’apparenza è simile ai pad ma è archittetato per essere gestito in proprio, all’interno di una rete locale per esempio. Ha una finestra per connettersi ai server che offrono i documenti, una per editare il file, una per la chat, consente di usare la sintassi del codice con i colori, consente di esportare i documenti in formato HTML – quel gradevole misto di semplicità e di roba che funziona che solo coloro che lavorano per davvero sono in grado di concepire.

Ho appena provato. Mi limito a raccontare cosa ho fatto. Non sono vere istruzioni, perché voglio solo dare l’idea che si può fare: non è terribilmente difficile ma richiede un pochino di impegno. Se poi a qualcuno interessa approfondiamo, magari anche con l’aiuto di altri che abbiano già sperimentato la stessa cosa.

Dalla pagina Download di Gobby mi sono scaricato l’editore vero e proprio, Gobby, e il software che funge da server e che si chiama infinited. Ho scelto le versioni per Linux Ubuntu, che è il sistema su cui lavoro tutto il tempo in questo periodo, e ho installato seguendo le istruzioni. L’installazione prevede che ad un certo punto si debba memorizzare una password: servirà a garantire l’accesso al server infinited solo a chi è autorizzato

Poi, su un altro computer, questo con Windows 7, ho scaricato la versione per Windows di Gobby. I due computer sono collegati alla stessa rete locale.

Quindi prima ho lanciato il server infinited sulla macchina Linux. Più precisamente si dovrebbe dire il demone infinited – demoni si chiamano quei programmi che girano in silenzio su una macchina offrendo una varietà di servizi, per esempio quello di fungere da server per certi determinati compiti. Poi ho lanciato Gobby, l’ho connesso al server, locale in questo caso (dopo mostro in un video come si fa), ho creato un documento e ci ho scritto qualcosa dentro.

Sono poi andato sul computer Windows, dove ho lanciato il suo Gobby, dicendoli di connettersi al server, che nel mio caso stava sulla macchina Linux (per chi è pratico: è bastato dare l’IP del computer. Ha funzionato subito: potevo così editare lo stesso file un po’ di qua e un po’ di la.

A me ora piacerebbe provare piazzando il server infinited su un computer esposto a internet, ma non posso fare la prova alla svelta, non ne ho uno a disposizione in questo momento. Proverò quando mi capiterà.

Invece ho potuto provare un’altra cosa, e questa la mostro con un video perché potete metterci le mani anche voi. Si tratta di installare semplicemente Gobby (c’è per Linux, Windows, Mac). Poi, dopo averlo fatto partire, farlo connettere al server gobby.0x539.de, che è offerto dagli sviluppatori di Gobby. Nella finestra di sinistra appaiono una quantità di cartelle e di file. Ci ho messo una cartella di nome loptis, e dentro un file di nome prova-editing. Apritelo e pasticciateci liberamente.

Ecco il video sull’installazione e l’impiego minimo di Gobby:


Note

  1. Molto interessante il caso di Claude che avvalendosi della possibilità di inserire web feed, ha realizzato il suo aggregatore in una pagina di Wikispace.