Ancora su università e tecnologie

In uno scritto di qualche tempo fa sul tema delle tecnologie nell’insegnamento universitario raccontavo come io veda due diverse università: quella della routine quotidiana e quella criticata o immaginata da coloro che si pongono il problema del suo ruolo nella società presente e soprattutto futura.

Per non contare solamente sulle mie impressioni personali avevo citato le opinioni di alcuni personaggi di fama internazionale, selezionandone tre fra tanti: Sir Ken Robinson, professore emerito alla università di Warwick, Don Tapscott, esperto di strategie di business e di IT di fama internazionale, giornalista, autore di vari bestseller e Daniel Lemire, professore di computer science alla università di Quebec e Montreal.

Le opinioni di personalità di questo calibro, due professori e un “osservatore” esterno all’università, dovrebbero essere sufficienti a sollevare l’attenzione sul ruolo delle università nella società della conoscenza.

Mi rimane tuttavia la sensazione che occorra chiarire ulteriormente le motivazioni della cogenza del problema. I tre personaggi che ho citato fanno parte di coloro che guardano avanti, di coloro che vengono usualmente definiti progressisti.

Sono persone che dicono: il contesto sociale, economico e tecnologico sta mutando rapidamente, l’accademia sta mostrando di non farcela ad adattarsi, bisogna quindi darsi da fare per inventare qualcosa di nuovo, anche di radicalmente nuovo, se necessario.

È inevitabile – è sempre successo – che a questa visione se ne contrapponga un’altra: è vero, il contesto sta mutando e occorre tenerne conto ma ha avuto anche luogo una degenerazione dei costumi – giovani superficiali, distratti e impreparati – e una decadenza di una qualità che invece un tempo l’accademia esprimeva.

Per chiarire la questione, formulo la seguente tesi che cercherò di sostenere con alcuni riferimenti raccolti in un passato insospettabile:

  • il sistema di istruzione è sempre stato ampiamente subottimale, non è vero che l’università di una volta era un’altra cosa, semplicemente si collocava in una società un po’ meno complessa e interconnessa di ora e, soprattutto, doveva affrontare una massa molto più ridotta;
  • la risposta alle crescenti necessità di una società sempre più articolata e dinamica da parte dell’università è stata sostanzialmente di natura burocratica e solo marginalmente culturale.

Con risposta di natura burocratica intendo dire che, per esempio,

  • il problema dell’esplosione delle conoscenze è stato affrontato semplicemente ingrassando le facoltà di lauree, le lauree di insegnamenti e gli insegnamenti di argomenti;
  • il problema della massa è stato affrontato preoccupandosi dell’efficienza ma non dell’efficacia, preoccupandosi cioè di affrontare le masse crescenti di studenti con il modello convenzionale, semplicemente organizzando classi sempre più numerose, sino ad arrivare alla norma del centinaio o più di studenti per classe, senza molta attenzione al risultato effettivo in termini di apprendimento;
  • l’università si è occupata quasi esclusivamente di conoscenza esplicita, facilmente codificabile e gestibile, ma non di conoscenza tacita.

More about L'uomo artigiano Richard Sennet (P. 81) scrive a proposito della trasmissione del sapere nelle botteghe artigiane dal rinascimento in poi:

… in un laboratorio dove domina l’individualità e l’originalità del maestro, tenderà a essere predominante anche il sapere tacito. Morto il maestro, non è più possibile ricostruire gli indizi, i gesti e le intuizioni che egli aveva raccolto e coordinato in  quel tutto unico che è l’opera; non possiamo più chiedergli di rendere esplicito quel sapere tacito.

In teoria, in un laboratorio ben diretto dovrebbe esserci equilibrio tra sapere tacito ed esplicito. Si dovrebbe insistere con forza perché i maestri si spieghino meglio, perché ripeschino quel mosaico di indizi e di gesti che hannno assorbito dentro di sé in silenzio … ammesso che ne siano capaci, e ammesso che lo vogliano. La loro stessa autorità deriva in gran parte dal fatto di vedere ciò che altri non vedono, di sapere ciò che altri non sanno; la loro autorità si rende manifesta nel loro silenzio.

Può sembrare limitativo citare le botteghe artigiane riferendosi alla trasmissione delle conoscenze nell’accademia. Certamente i due tipi di saperi sono diversi ma tale diversità anziché distinguere positivamente la conoscenza accademica rappresenta un qualcosa che invece è stato perso.

Con la migrazione delle prime macchine dai laboratori artigiani alle industrie si attua il movimento dal sapere pratico all’autorità dominante del sapere esplicito. Il sapere esplicito è quello che forma la conoscenza teorica, espressa in modo proposizionale, che è quella che con larghissima prevalenza trasmette l’università.

La trasmissione della conoscenza è così divenuta una questione di trasmissione dei “contenuti”, tutti teorici. Tale forma monca di conoscenza è, sì, molto adatta alla costruzione di un sistema di controllo basato sull’autorità di chi è accreditato alla generazione, detenzione e trasmissione della conoscenza ma fallisce sostanzialmente nell’obiettivo di preparare effettivamente gli studenti.

Mi sto qui riferendo all’università ma il male è comune a tutta la scuola, specialmente quella secondaria. È fin troppo facile citare il fallimento dell’insegnamento dell’inglese e della matematica, due ambiti nei quali i risultati si manifestano in modo immediato e impietoso.

Questa grave carenza, che deriva da un malinteso concetto di conoscenza, non ha niente a che vedere con un processo di degenerazione recente della scuola. Personaggi avveduti e di prestigio hanno espresso disagio ben prima di tali presunti fenomeni di degenerazione.

Carlo Columba nel suo blog pone una questione che riprende da uno straordinario articolo (pdf) del prof. Enrico Persico, collaboratore di Enrico Fermi, apparso sul Giornale di Fisica del 1956. Il prof. Persico racconta di come una brava studentessa all’esame “corra come una locomotiva” nella trattazione formale delle equazioni di Maxwell ma riveli un totale disorientamento in qualsiasi aspetto pratico della materia, sino ad avere imbarazzo addirittura a descrivere uno strumento o una situazione sperimentale con un disegno:

Vi è poi una inesplicabile difficoltà a descrivere anche il più semplice oggetto o fenomeno, sia con la parola, sia, ancor più, col disegno. Il disegno (schematico beninteso) che sembrerebbe in molti casi un mezzo spontaneo, quasi quanto il gesto, per aiutare la parola ad esprimere ciò che si ha in mente, non viene per lo più nemmeno preso in considerazione dall’esaminando, e ogni invito a servirsene viene considerato come un crudele aggravamento di pena. Si ha l’impressione che il candidato non abbia un’immagine mentale da tradurre in parole o in linee, ma piuttosto da ripetere un discorso quanto più fedelmente è possibile. E ciò che è più strano è che la maggior parte degli studenti considera facile la parte descrittiva del corso, e difficile invece la parte matematica.

Mi sovviene in proposito il mio esame di Fisica Generale I, considerato a quei tempi (1974) lo scoglio fondamentale del corso di laurea in Fisica a Firenze, Arcetri per la precisione. La prima domanda che il professore Manlio Mandò mi fece fu: “Disegna un cannone …” E su quel cannone e i proiettili che questo sparava ragionammo per più di due ore, le mie mani, e forse anche il cervello, completamente impastate di gesso e sudore.

Le leggende su quell’esame si sprecavano. Si narrava di ottimi studenti che l’avevano dovuto ripetere cinque o sei volte. Di interrogazioni durate ore che continuavano il giorno dopo. Io stesso ho udito un professore più giovane, a sua volta dei più severi, che raccontava di avere tribolato molti mesi sull’esame del prof. Mandò. Noi calcolavamo di dovergli dedicare almeno sei mesi, al di là delle lezioni, se tutto andava bene.

Ma in quell’esame, iniziato col disegno di un cannone, non dovetti recitare niente bensì mi furono posti solo problemi e per rispondere potevo solo pensare, c’era ben poco da ricordare. Quell’insegnamento era infatti basato sull’esercizio del pensiero. Per superare l’esame era perfettamente inutile imparare il libro a memoria, cosa che sarebbe stata anche relativamente facile perché conteneva pochi argomenti; era invece necessario fare centinaia di esercizi e veniva infine spontaneo ritrovarsi con i compagni di corso per aiutarsi a vicenda nella soluzione degli esercizi più difficili.

Ecco di cosa si lamentava il prof. Mandò nella “Premessa per lo studente”  delle sue “Lezioni di Fisica Generale” (Libreria Universitaria di Bologna, quarta edizione del 1968)”

  1. la scarsa preparazione matematica posseduta dalla generalità degli studenti;
  2. l’eterogeneità della stessa preparazione generale, che va dall’astratto filosofeggiare dei provenienti dal Liceo Classico al particolarismo tecnico dei provenienti dall’Istituto Tecnico;
  3. l’eccessivo affollamento delle classi, che si avvicinano sempre più al fatidico numero di 250 studenti, oltre il quale anche le vigenti disposizioni riconoscono impossibile lo impippiamento di una disciplina universitaria da parte di un solo professore.

Continuava poi:

Date queste premesse, il meglio che si possa fare è quello di basare il corso sulla limitazione del numero degli argomenti e sull’appronfondimento di ognuno di essi, dando ovviamente la preminenza ai principi generali rispetto ai fenomeni particolari, la cui conoscenza è pur sempre necessaria ma potrà essere più facilmente acquisita dallo studente direttamente, anche senza l’ausilio di apposite lezioni.

Successivamente (pag. 8 punto d), poneva l’enfasi sul ruolo fondamentale

dell’iniziativa individuale nello studio, perché le lezioni stesse non bastano, tanto che Oppenheimer parlò addirittura del mostruoso anacronismo di cercare di istruire facendo lezione (“to educate by lecturing”).

Ancora successivamente (pag. 9) ci spiega come

la Fisica non la si insegna, ma si può solo aiutare ad apprenderla, così come non si insegna ad andare in bicicletta. L’insegnante, per così dire, potrà solo, tenendovi per il sellino, evitare i primi, più grossi, capitomboli, potrà indicarvi la progressione più ragionevole nei vostri tentativi di equilibrio, segnarvi la meta, consigliarvi la via: il resto dovete farlo voi.

Ricapitoliamo. L’esame del prof. Mandò rappresentava un ostacolo micidiale in uno dei corsi di laurea ritenuti più difficili e selettivi. Le parole che abbiamo letto sono state scritte nella quarta edizione del 1968, quindi le lamentazioni del prof. Mandò si riferiscono ad un’epoca precedente al ’68, a scanso di equivoci.

Orbene, da quei remoti tempi la voce di un severo professore “all’antica” ci ammonisce sulla inutilità di addensare argomenti in un insegnamento e sull’opportunità di concentrarsi nell’esercizio del pensiero sui principi, ritenendo così che lo studente volenteroso potrà successivamente volare con le proprie ali sulle altre regioni della materia, e non solo aggiungo io.

Ci ammonisce sull’inutilità di fare solo lezioni, richiamandosi ad un’assai drastica affermazione di un grande scienziato; in particolare sull’inutilità di lezioni fatte con rapporto studenti docenti troppo alto. Nel libro di esercizi che accompagna le “Lezioni di Fisica Generale” raccomanda addirittura lezioni in gruppi di non più di 30 alla volta, sotto la guida di un adeguato numero di insegnanti! Inoltre esprime con le parole di allora un ruolo dell’insegnante che oggi viene designato come facilitatore: non colui che insegna ma colui che aiuta ad apprendere.

Io credo che il corso del prof. Mandò sia uno dei pochi nei quali ho imparato qualcosa di importante: non tanto la fisica quanto il pensiero fisico. Questo è l’equivoco fondamentale dell’insegnamento di quasi tutte le discipline in quasi tutte le scuole (università compresa). Si può prendere una laurea in fisica o in matematica, come in qualsiasi altra disciplina, senza in realtà avere interiorizzato il pensiero fisico, il pensiero matematico ecc. Quello che rende un fisico (o un matematico o altro) tale è il modo di vedere il mondo, la prospettiva sotto la quale vede le cose, non il fatto che sappia un certo numero di fatti, è ovvio che finisca col saperli ma è conseguente. Se poi un fisico che è tale in questo senso (o matematico o altro) riesce a percepire anche le altre prospettive e a metterle in relazione con la propria, diciamo con la “prospettiva madre” come la lingua madre, allora si può iniziare a parlare di cultura. Prima no.

Il prof. Persico si rammaricava di non vedere nascere pensiero fisico nei suoi studenti e il prof. Mandò si preoccupava di vedere nascere il pensiero fisico nei propri. Faceva questo con lunghe appassionate lezioni che integrava come poteva, con domande, stimoli, esercizi a non finire, disponibilità a rispondere e commentare qualsiasi domanda, esami che non finivano mai …

L’intento del professore si traduceva anche in un passaggio di conoscenza tacita, malgrado l’eccessiva numerosità della classe – eravamo già oltre cento. Il suo desiderio, espresso esplicitamente, di poter lavorare con non più di trenta studenti per volta, riconduce all’atmosfera descritta da Sennet nel laboratorio artigiano del passato dove il giovane apprendista-artista veniva in contatto sia con la conoscenza esplicita che con quella implicita, emanata dall’agire del maestro, d’entrambe nutrendo la sua propria crescita.

Sennet con la sua analisi dell’uomo aritigiano evidenzia magnificamente quanto sia stata controproducente la separazione della testa dalla mano. E non si deve pensare che il ragionare di fisica, come di qualsiasi altra disciplina, anche di filosofia, sia tanto diverso dal lavoro dell’artigiano. Fare fisica vuol dire cimentarsi con le idee, giocare con le idee, e non solo riceverle. Apprendere non è prendere atto ma rivivere. Fare l’artigiano con una teoria fisica vuol dire domandarsi che succede se si cambia un’ipotesi, che succede se cambia una condizione al contorno, perché un fatto ci sembra parente di un altro anche se non ce l’ha detto nessuno e così via. Maestro e discepolo giocano insieme su queste domande.

I have a DreamNell’aprile del 2008 abbiamo respirato la medesima atmosfera in un bellissimo intervento (pdf) fatto nella classe di medicina dal prof. Benedetto De Bernard, figura di spicco della biochimica italiana.

Il prof. De Bernard si poneva la domanda:

Chi deve dunque insegnare?

La mia risposta è: chi “ha la testa ben fatta” (Morin). Questa si differenzia dalla “testa ben piena”, nella quale come dice Morin, il sapere è accumulato, ammucchiato, e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione.

“Una testa ben fatta significa che invece di accumulare il sapere è molto più importante disporre allo stesso tempo di:

  • un’attitudine generale a porre e a trattare problemi;
  • principi organizzativi che permettano di collegare le cognizioni e dare loro senso”

Successivamente, il prof. De Bernard approfondiva il tema sostenendo:

Il risultato dell’apprendimento dipende, secondo me, dalla intensità emozionale dell’incontro docente-discente.
Costui deve sentirsi affascinato dal docente, che deve essere quindi capace di trascinare i suoi allievi: costoro, subendone il fascino, ameranno i concetti scientifici trasmessi e li ricorderanno per tutta la vita.
Il modo di essere del docente, il calore delle sue convinzioni, persino la sua gestualità sono più utili di ogni modello di insegnamento, che gli studi della didattica medica vannno proponendo. Cioè il docente è libero di scegliere il modello che preferisce e che gli è più congegnale, persino la lezione ex-cathedra, accanto a lezione-discussione del tipo seminariale o tutoriale, il tutto basato sia su “active-learning” che su “problem base learning”.

Ecco, “persino la lezione ex-cathedra” e non sempre e solo lezione ex-cathedra.

Nella discussione finale, De Bernard, stimolato dalle domande precisò che in generale nella pratica didattica, il numero di lezioni frontali è esagerato e che andrebbe drasticamente ridotto a favore di ogni tipo di attività e di discussione possibile, seminariale, di laboratorio o altro.

Ritorna così l’idea di Sennet, dove un vero rapporto di insegnamento non può prescindere da una sorta di osmosi fra l’insegnante e i suoi studenti che garantisca non solo la trasmissione di sapere esplicito ma anche di sapere tacito.

Orbene, i riferimenti che ho portato in queste righe sono tutti riconducibili a uomini molto anziani o del passato, che hanno vissuto e operato all’interno dell’accademia, scienziati e insegnanti severi. Tuttavia sono uomini che hanno volto lo sguardo in una direzione che il sistema universitario non ha neanche lontanamente provato a seguire. Piuttosto, la strada che tale sistema ha seguito è quella di un amministratore poco avveduto e direi, quasi, poco esperto.

Ora, che i problemi di volume, sia in termini di popolazione studentesca che di conoscenze, e di dinamicità, sia in termini di richieste del mondo del lavoro che di sviluppo delle conoscenze, fanno scricchiolare pericolosamente il sistema universitario, gli accademici e gli osservatori esterni “progressisti” ne paventano la fine, almeno in questa forma.

È qui che ha senso ricorrere alle tecnologie ma non per vestire con abiti giovanili un corpo ormai vecchio bensì per ricondurre i maestri e gli allievi nel laboratorio artigiano.

Narrando un seminario

Ho infine aggiunto a questo post, inizialmente pubblicato il 2 febbraio scorso, qualche traccia di questo evento.


Mi capita di dover discutere in una classe di liceo su qualcosa che potrebbe essere “come stare in Internet” o “come abitare la rete” o, tout court, “come abitare questo mondo”.

Operazione rischiosa. Come evitare le estese sabbie mobili dei luoghi comuni su Internet? Come evitare la mortifera atmosfera della relazione dell’esperto (si fa per dire nel mio caso)? Come tirare fuori dalla classe i ragazzi?

Con questo post provo a narrare il dipanarsi di tale esperienza, sovvertendo per una volta la regola dei post che una volta scritti non si toccano più, salvo eccezionali correzioni dichiarate. Un post che incollo (sticky post) in cima al blog e che evolverà (forse) nel tempo. Un post tuttavia che chiunque può commentare, come tutti gli altri.

Per ora iniziamo così …


Cari studenti, ci vedremo allora fra qualche giorno per discutere insieme sui temi che avete letto sopra. Direi che niente ci impedisce di iniziare subito, o meglio, la rete ci consente di iniziare subito.

Non verrò con un pacco di slide powerpoint da mostrarvi. Non verrò nemmeno con una scaletta delle cose da dire o traccia, come la volete chiamare. Insomma, non ci sarà una sequenza preordinata cose dette o mostrate.Iio vengo a trovarvi semplicemente, con una cartella di libri e una visione. La mia visione sulla rete che non è la verità sulla rete ma è solo la visione di una persona che si è trovata a dedicare un certo tempo all’utilizzazione della rete per fare delle cose possibilmente utili per delle persone, spesso studenti di vario tipo ma non solo.

Vengo da voi con i libri che mi sono serviti e che vedete nella foto gettati sul pavimento.

Ognuno di questi libri mi ha aperto una nuova prospettiva, a volte ampia a volte piccola, e tutte queste prospettive hanno illuminato una parte di questo mondo così vasto.

Con una sorta di metafora inversa, provate ad immaginare che questa foto sia il desktop, quello del computer, e che ogni libro sia un’icona da cliccare. Quando saremo insieme io non inizierò a fare un discorso ma aspetterò. Sarete voi ad iniziare cliccando sugli oggetti che vedete. Tipo: perché hai messo sul tavolo questo libro? Ognuno di voi sarà incuriosito da qualcosa di diverso e tutte le curiosità sono benvenute.

Ad ogni vostro clic io racconterò qualcosa, a volte brevemente e altre più estesamente, a volte collegherò io stesso un oggetto ad un altro, altre lo potrete fare voi.

In ognuno di questi libri c’è qualcosa che mi ha ispirato e questo non significa che io sappia tutto quello ci è stato scritto, un paio li sto giusto leggendo, alcuni li ho letti e in parte riletti, di altri ho letto delle parti. Quindi non è detto che sappia soddisfare tutte le curiosità ma questo non è importante. Proveremo invece a discutere insieme di come si potrebbe fare a rispondere, oppure qualcuno di voi la potrebbe sapere più lunga di me e certamente altri vostri insegnanti che fossero presenti. E poi ci saranno l’energia e la fantasia di Luisanna che per fortuna veglierà su di noi.

Per ora tutto qua. A presto.


Sarebbe possibile e interessante documentare quello che è successo nei seminari fatti alla scuola di Bressanone ma, come concludeva Leopardi nel suo Scherzo, questo post hassi a rifar, ma il tempo manca.

E allora affastello una manciata di frammenti. Per esempio qualche foto, la mappa mentale che Luisanna costruiva al volo proiettandola durante il seminario e qualche altra considerazione.

Insomma, con quello strattagemma della narrazione stimolata dai clic degli studenti, io rinunciavo sì al dipanarsi lineare di un racconto ma desideravo tuttavia  che emergessero dei concetti ben precisi. Eccoli:

Io credo di indovinare cosa tu vorresti ora, carissimo, visitatore. Quasi sicuramente ti piacerebbe cliccare sugli oggetti che ti solleticano di più e io ti dico che sarebbe possibilissimo architettare una cosa del genere ma sfortunatamente ora non ne ho proprio il tempo.

Facciamo allora così: se la cosa ti interessa, in primo luogo guarda bene la figura e rifletti sui possibili nessi fra gli oggetti che ti incuriosiscono e i concetti generali, poi fai i tuoi commenti nei luoghi e nei modi che preferisci (ricordati comunque di avvertirmi se non scegli di commentare qui) ed allora io cercherò di attivarmi.

Aggiungo solo un paio di cose. In queste due foto si vede come avevamo realizzato il “desktop inverso”.

Gli oggetti disposti sui tavoli erano di varia natura, libri, qualche balocco, la valigetta un po’ di roba tecnologica, quest’ultima costituita da un netbook da meno di 200 euro collegato ad una chiavetta internet. Successivamente ho aggiunto anche il mio cellulare.

Le persone potevano cliccare qualsiasi oggetto fra quelli disposti sui tavoli, anche quelli più strani, come la valigetta vuota, le palle da giocoliere, la conchiglia o il computer.

È evidente che gli oggetti sono presenti in proporzioni molto diverse. Ci sono molti libri e un solo computer per esempio. Per di più il computer è uno dei più economici. Anzi un netbook equipaggiato con un sistema operativo che si chiama Jolicloud (una delle tante distribuzioni di Linux) e che è ottimizzato per utilizzare software di rete.

Nient’altro di installato dunque, niente word, niente excel e niente di qualsiasi altro applicativo. Una semplice finestra su internet.

La situazione si potrebbe riassumere così: tanti libri, pochissima tecnologia ma di quella “giusta” e qualche balocco. Ecco, questi sono i miei strumenti.

In altre parole, oggi, per trarre vantaggio dalle straordinarie potenzialità offerte da internet occorrono molte letture, molto pensiero, molta riflessione sulle reali necessità delle persone e pochissime competenze tecnologiche.

Mi sono espresso in modo sintetico e questa affermazione può essere svolta in innumerevoli varianti.

Faccio un esempio che è rilevante nel contesto scolastico in cui si sono svolti gli incontri.

Molto frequentemente insegnanti e genitori vogliono conoscere tecniche e metodi per far sì che i giovani trovino solo fonti “vere” e “sicure”. Ebbene, questo problema non è tecnico e non lo sarà mai. Internet è già e sarà sempre più il luogo dove si trova, si sviluppa e si negozia la conoscenza.

I concetti di verità e sicurezza devono essere contestualizzati affinché abbiano significato. L’educatore può fare una cosa sola: stare a fianco dei suoi giovani e mostrare loro con l’esempio come sviluppare i filtri per selezionare le fonti. È evidente che l’educatore deve sapere come fare e questo oggi è spesso il problema ma è una faccenda che non voglio discutere qui ora.

Voglio invece scorrere brevemente alcuni criteri di massima nessuno dei quali però ha valore assoluto. Solo un accorto bilanciamento fra questi ed altri eventuali criteri possono aiutare nel discernere il fieno dalla paglia.

  • Una ricerca non si esaurisce con i primi risultati trovati. Da ciascuna voce devono nascere altre ricerche tese a verificarne la credibilità. Per esempio una ricerca sul nome dell’autore dell’articolo. Se questo è un noto esperto dell’argomento o se emerge che ha scritto numerosi contributi su di esso allora forse ci si può fidare di più.
  • La presenza di citazioni di fonti, nel testo o in una bibliografia, è un buon segno.
  • Un articolo di tipo scientifico, vale dire pubblicato su di una nota rivista specializzata che accetta solo articoli sottoposti a revisione da parte di esperti del settore (processo di peer-review), ha probabilmente più valore di un altro. Non bisogna però avere una fiducia cieca nella letteratura scientifica tradizionale che è afflitta oggi da numerosi problemi: ridondanza degli articoli, sbilanciamento verso i risultati positivi, conflitti di interesse economici, lentezza di pubblicazione rispetto ai ritmi di sviluppo delle conoscenze.
  • La lingua. Se cerco gatto oggi trovo 5,980,000 voci, se cerco cat trovo 569,000,000 voci. Un sistema come Google che si basa sul numero di collegamenti ad  una pagina per stabilirne la popolarità avrà molta più scelta nel secondo caso rispetto al primo. Come contrapporre il campione regionale di uno sport con il campione mondiale: molto probabilmente non c’è storia.
  • Sobrietà, semplicità e sinteticità caratterizzano tendenzialmente la comunicazione delle persone di valore.
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