Come ho scritto nel post precedente, recupero delle considerazioni che avevo fatto in un vecchio post sul tema del rispetto. Lo riporto pari pari qui, perché la susseguente discussione aveva poi preso un altro filone, che non è quello che mi interessa ora.
Il mio caro amico maialinporcello [mio ex studente] in un commento al post precedente mi chiedeva com’era andata al BarCamp di VeneziaCamp. Rispondo brevemente, poi però colgo l’occasione per approfondire un pochino una questione che mi ha sempre turbato parecchio.
È andata molto meglio della maggior parte dei tanti convegni ed eventi ai quali ho partecipato in passato. Ho conosciuto persone che fanno cose interessanti e mi è piaciuta l’atmosfera informale.
C’è tuttavia una cosa che non mi è piaciuta: il cartellino (badge) che ci si deve appuntare da qualche parte per essere riconosciuti, come accade in tutti gli altri convegni. Questa volta sul cartellino c’era scritto BLOGGER. Si tratta certamente di un dettaglio marginale rispetto al valore dell’evento in sé e non mi sono certo irretito solo perché mi hanno dato questo cartellino ma la riflessione che ne emerge non è affatto marginale.
Il mio caro amico maialinporcello in un commento al post precedente mi chiedeva com’era andata al BarCamp di VeneziaCamp. Rispondo brevemente, poi però colgo l’occasione per approfondire un pochino una questione che mi ha sempre turbato parecchio.
È andata molto meglio della maggior parte dei tanti convegni ed eventi ai quali ho partecipato in passato. Ho conosciuto persone che fanno cose interessanti e mi è piaciuta l’atmosfera informale.
C’è tuttavia una cosa che non mi è piaciuta: il cartellino (badge) che ci si deve appuntare da qualche parte per essere riconosciuti, come accade in tutti gli altri convegni. Questa volta sul cartellino c’era scritto BLOGGER. Si tratta certamente di un dettaglio marginale rispetto al valore dell’evento in sé e non mi sono certo irretito solo perché mi hanno dato questo cartellino ma la riflessione che ne emerge non è affatto marginale.
Io non sono un blogger, anche se in certi periodi scrivo molto sul blog, commento molto quelli degli altri, ne seguo svariate centinaia, talvolta esorto le persone a trarre vantaggi dall’impiego di un blog e scrivo articoli su “come stare online”.
Semplicemente, impiego il blog in alcuni aspetti della mia attività quando questo si rivela utile per gli obiettivi che mi sono prefissato.
Io non sono un professore, anche se insegno all’università.
Semplicemente, svolgo le funzioni di professore nei precisi momenti nei quali faccio cose utili (forse) per gli studenti che mi vengono affidati in alcune precise circostanze. Quando esco da un istituto e passeggio per la città oppure a casa, dopo avere risposto alle email degli studenti, giro in Internet per i fatti miei, allora non sono un professore ma sono uno dei tanti.
Io non sono un fisico, anche se ho conseguito una laurea in fisica, ho insegnato fisica per un po’ e ho scritto degli articoli di fisica.
Semplicemente, sono uno che in alcune circostanze tende a vedere il mondo in modo conforme ad un paradigma di conoscenza che nella nostra epoca è unanimemente condiviso per costruire quella conoscenza del mondo che chiamiamo fisica.
Io non sono un matematico, io non sono un informatico e via e via …
Io non sono intelligente, anche se mi sono laureato, ho ricoperto un ruolo di ricercatore e poi di professore, ho accumulato un curriculum, ho risolto alcuni problemi o capisco qualche lingua o altro ancora.
Semplicemente, sembro intelligente ad alcune precise persone e in alcune precise circostanze. Ad altre persone ed in altre circostanze sembro del tutto stupido. Per esempio, quando non capisco le questioni di politica universitaria e magari mi chiamano per votare in una certa adunanza e per un certo fine e poi voto all’incontrario perché non ho capito la questione, ebbene allora sembro decisamente stupido.
Io non sono buono, non sono cattivo, non sono pigro, non sono attivo e via e via …
Don Santoro ascolta la testimonianza dell'unico prete presente ...
Domenica scorsa sono stato all’ultima messa celebrata da Don Alessandro Santoro, l’ultima prima di essere confinato nel limbo affinché si ravveda e impari a non dare più scandalo, per ordine del vescovo Betori. Una delle tante storie – queste sì effettivamente scandalose – di piccoli grandi uomini che si scontrano con il potere.
Don Santoro, fra tante altre cose, ha richiamato l’attenzione sull’abuso frequente dell’aggettivazione [o predicato nominale] – buono, cattivo, intelligente, stupido, volenteroso, pigro, sincero, bugiardo, nero, bianco, ateo, credente, dotto, ignorante … – e ha ricordato che invece ci dovremmo sempre riferire alle persone con il loro nome e basta. Ogni persona ha la sua storia, unica al mondo, la sua particolare combinazione di sensibilità e di attitudini, le sue particolari ed uniche potenzialità. L’attribuzione di un’etichetta ad una persona equivale all’imposizione di un limite che impedisce di conoscerla, equivale a ridurre le possibilità di comunicarle e di comprenderla.
Lo stesso concetto è stato evidenziato molto chiaramente da Massimo Papini, professore di neuropsichiatria infantile, nella discussione che è seguita alla proiezione de “Il grande cocomero” nell’ambito di CIN@MED, dove ci si riferiva in particolare alla relazione fra il medico ed i suoi piccoli pazienti e i loro genitori.
La questione che si pone, quando in una relazione di cura si ignorano le etichette e ci si avvicina alla persona, è quella del pericolo di un eccessivo coinvolgimento emotivo che può per esempio minare l’azione professionale e dar luogo a fraintendimenti.
In questa strana e ipocritamente ovattata società la parola pericolo fa paura. Sembra che tutto debba esser fatto senza correre rischi. Eppure ci sono tante attività nelle quali il rischio è evidente e inevitabile. Volare, navigare, abbattere un albero, montare un ponteggio, costruire un tetto sono tutte attività pericolose. Si possono prendere cautele ed evitare di fare sciocchezze ma non si può eliminare il pericolo. Ci si assume un rischio inerente ad un’azione perché ci si aspetta che questa rechi un beneficio, ci si aspetta che ne valga la pena.
E in mestieri come quello del medico o dell’educatore, non vale forse la pena di correre qualche rischio per conoscere meglio la persona da curare o da educare al fine di compiere azioni utili anziché dannose?
Fra le migliaia di studenti che ho conosciuto ce ne sono tanti che hanno fatto esperienze di studio all’estero oppure che sono stranieri e sono venuti a studiare in Italia. Io amo parlare con i miei studenti e in questi casi, se le circostanze lo consentono, chiedo loro di raccontarmi le loro impressioni sul confronto fra i diversi sistemi di istruzione. Fra le tante considerazioni particolari vi è un elemento ricorrente: la mancanza di rispetto che in Italia si ha per l’allievo.
Altrove, in generale, gli studenti vengono ascoltati e le loro impressioni contano nella valutazione della qualità degli insegnamenti, con conseguenze concrete. Il fatto che, per esempio, un professore non si presenti ad una lezione è un fatto grave e va giustificato. I rapporti sono molto più informali e esorbitano facilmente dall’ambito rigido della lezione frontale. Si fa tanta più pratica e tanta meno teoria e questo facilita ulteriormente la personalizzazione delle relazioni.
Qui uno studente è un membro dell’insieme degli studenti e basta. Raramente diventa una persona. Il professore è difficilmente accessibile, non ama essere messo in discussione, tende a sottovalutare le valutazioni degli studenti.
Studenti e professori son ben schermati dietro alle rispettive etichette.
La formalità delle relazioni inter-categoria e l’informalità di quelle intra-categoria creano un banale e ipocrita concetto di rispetto che congela le relazioni personali importanti e crea mostruosità sociali. Tante scuole e università italiane, se pensate come soggetti in un mondo dove
le organizzazioni operano in un contesto estremamente competitivo e dinamico
l’utente è universalmente posto al centro
la conoscenza è perseguibile in una grande varietà di modi anche nuovi e diversi
l’autorevolezza non è più solo amministrata ma è anche e forse soprattutto continuamente rinegoziata,
ebbene, tante delle nostre scuole e università sono delle mostruosità burocratiche, scarsamente produttive e gestite in modi arcaici.
Gli studiosi di tecnologie per l’insegnamento sostengono che affinché queste possano essere adoperate con successo è necessario valorizzare la centralità dell’utente. Un buon esempio per esempio è questa relazione di Mario Rotta, recentemente apparsa anche nella pubblicazione Cittadinanzadigitale (Edizioni Junior, 2009) curata da Luisanna Fiorini.
È vero purché non si pensi che la centralità dell’utente sia una questione che concerne solo l’impiego di nuove tecnologie e in particolare che sia un effetto magico di quest’ultime. Le nuove tecnologie applicate alla formazione, così come la scuola e l’università nelle loro forme più convenzionali possono funzionare in modo adeguato rispetto alle necessità della società se si rimette lo studente al centro, sì, ma partendo dal rispetto per la sua persona, al di là di ogni sua apparenza e appartenenza.
È prima di tutto una questione di rispetto.
P.S.
Può essere interessante vedere questo video di Ken Robinson …