Perché la scuola deve usare esclusivamente software libero

Condivido parola per parola questo articolo di Richard Matthew Stallman e invito tutti a leggerlo con grande attenzione.

Prima però di affidarvi alle parole di Stallman, ricordo che non si tratta di un opinionista qualsiasi ma di un facitore. I più importanti componenti di base di ciò che conosciamo come Linux furono scritti da Stallman negli anni 80 – per questo è giusto anche ricordare il nome originale: GNU-Linux perché GNU è il progetto originale di Stallman.

Stallman non ha prodotto solo codice ma ha anche dato la stura a una rivoluzione culturale e tecnologica: è lui infatti l’ideatore del concetto di software libero e di Licenza Copyleft, che è quella con cui viene distribuito il software libero.

Ma a molti anche la parola Linux può parere lontana. Per costoro mi limito a ricordare che il codice Linux costituisce la parte fondamentale di Android, il sistema che anima tutti o alcuni cellulari Samsung, LG, HTC, ZTE, Coolpad, Kyocera, Sony e Google. Si stima che circolino oltre 1 miliardo e mezzo di cellulari Android e che ne vengano attivati 350000 al giorno. Attenzione, non sto dicendo che Android è software libero ma che Android è un software commerciale costruito sul software libero GNU-Linux – rivoluzione tecnologica appunto. Linux probabilmente sta dentro anche al router che avete comprato per casa ma ce l’avete abbastanza facilmente anche dentro la lavatrice, e in una miriade di altri congegni.

Questa premessa per ricordare gli aspetti rilevanti a cui, oggigiorno, i più sono sensibili, ovvero quelli di natura economica e tecnologica. Invece qui sono gli aspetti etici, in relazione alla formazione, che ci interessano. Infatti, il progetto a cui ho accennato nel post precedente, Torno a scuola, rappresenta la concretizzazione precisa delle idee esposte da Stallman in questo articolo, del quale mi sono fortunosamente e felicemente accorto oggi.

Eccolo.

Il testo sottostante riproduce esattamente la versione in italiano, pubblicata nel sito GNU. Chi lo preferisce, può leggere l’originale in inglese.


Perché la scuola deve usare esclusivamente software libero

Le istituzioni didattiche in genere, dalla scuola materna all’università, hanno il dovere morale di insegnare solo il software libero.

Tutti gli utenti informatici devono insistere con il software libero: esso offre agli utenti la libertà di poter controllare il proprio computer; con il software proprietario il programma fa quanto stabilito dal suo proprietario o sviluppatore, non quel che vuole l’utente. Il software libero offre inoltre agli utenti la libertà di poter collaborare tra loro. Queste caratteristiche si applicano alla scuola come a qualsiasi altro soggetto. Lo scopo di questo articolo è di evidenziare le caratteristiche che si applicano in modo specifico al settore dell’istruzione.

Il software libero consente alle scuole di risparmiare, anche se questo è un beneficio secondario: il risparmio è dovuto al fatto che il software libero offre agli istituti scolastici, come ad ogni altro utente, la libertà di copiare e ridistribuire il software; di conseguenza il sistema didattico può farne copie per tutte le scuole, e ogni scuola può installare il programma in tutti i suoi computer, senza obbligo di pagare per farlo.

Questo beneficio è importante, ma assolutamente non prioritario, perché le questioni etiche sono molto più importanti. Convertire le scuole al software libero è più che un semplice “miglioramento” della didattica: è la differenza tra una didattica buona e una didattica sbagliata. Quindi occupiamoci delle questioni più profonde.

La scuola ha una missione sociale: insegnare a chi studia a diventare cittadino di una società forte, capace, indipendente, collaborativa e libera. Dovrebbe promuovere l’uso del software libero così come promuove la protezione dell’ambiente, o il diritto di voto. Se la scuola insegna l’uso del software libero, potrà sfornare cittadini pronti a vivere in una società digitale libera. Ciò aiuterà la società nel suo insieme ad evitare di essere dominata dalle multinazionali.

Al contrario, insegnare un programma non libero crea dipendenza, e questo va contro la missione sociale delle scuole: le scuole non dovrebbero mai farlo.

Perché alcuni produttori di software proprietario offrono copie gratuite(1) alle scuole? Perché vogliono usare le scuole per creare dipendenza nei confronti dei loro prodotti, come i produttori di tabacco che distribuiscono sigarette gratis ai ragazzini(2). Una volta che gli studenti saranno diventati adulti, queste aziende non offriranno più alcuna copia gratuita a loro o ai loro datori di lavoro. Chi sviluppa dipendenza dovrà pagare.

Il software libero consente a chi studia di poter imparare il funzionamento di un programma. Alcuni studenti, che hanno un talento innato per la programmazione, quando diventano adolescenti vogliono imparare tutto quanto c’è da sapere riguardo al computer e al software. Sono animati dalla fervida curiosità di leggere il codice sorgente dei programmi che usano ogni giorno.

Il software proprietario respinge la loro sete di conoscenza; dice loro: “La conoscenza che stai cercando è un segreto: vietato imparare!”. Il software proprietario è nemico dello spirito didattico, quindi non lo si può tollerare nelle scuole, se non utilizzato al solo scopo di studiarne il funzionamento interno.

Il software libero incoraggia tutti ad imparare. La comunità del software libero rifiuta “il sacerdozio della tecnologia”, secondo cui il grande pubblico va tenuto nell’ignoranza sul funzionamento della tecnologia; noi incoraggiamo gli studenti di ogni età e situazione a leggere il codice sorgente e ad imparare tutto quello che vogliono sapere.

La scuole che usano software libero devono permettere ai bravi studenti di programmazione di progredire. Per imparare a scrivere del buon software, gli studenti devono potere leggere e scrivere una grande quantità di programmi reali, di uso concreto. Si impara a scrivere codice buono e chiaro solo leggendo e scrivendo molto codice. Solo il software libero permette questo.

Come si impara a scrivere codice per programmi complessi? Scrivendo tante piccole modifiche per programmi complessi esistenti. Il software libero lo permette, il software proprietario lo vieta. Qualsiasi scuola può dare ai propri studenti la possibilità di diventare esperti di programmazione, purché usi software libero.

La più profonda motivazione in sostegno all’utilizzo del software libero nella scuola è per la formazione morale. Dalla scuola ci si aspetta l’insegnamento di fatti fondamentali e di capacità utili, ma ciò non ne esaurisce il compito. Missione fondamentale della scuola è quella di insegnare a essere cittadini coscienziosi e buoni vicini, e quindi anche ad aiutare gli altri. In campo informatico ciò significa insegnare la condivisione del software. Le scuole, a cominciare dalle elementari, dovrebbero dire agli studenti: “Se porti a scuola del software devi dividerlo con gli altri bambini. Devi mostrare il codice sorgente ai compagni, se qualcuno vuole imparare. Quindi è vietato portare a scuola software proprietario se non per studiare come funziona ai fini di poterlo riprodurre”.

Naturalmente la scuola deve praticare quanto predica: deve utilizzare in aula solo software libero (tranne file binari usati per studiarne il funzionamento interno) e condividere copie, incluso il codice sorgente, con gli studenti in modo che questi possano copiare, portare a casa e ridistribuire ulteriormente tale software.

Insegnare a chi studia l’uso del software libero, e a far parte della comunità del software libero, è una lezione di educazione civica sul campo. Ciò insegna inoltre il modello del servizio pubblico anziché quello dei potentati. Il software libero dovrebbe essere usato in scuole di ogni ordine e grado.

Chi ha una relazione con una scuola (studente, insegnante, impiegato, dirigente, donatore, genitore) deve fare pressione affinché la scuola passi al software libero. Se le richieste personali non funzionano, occorre dare pubblicità alla cosa nelle varie comunità, per riuscire in questo modo a sensibilizzare più persone e trovare alleati.

  1. Attenzione: le scuole che accettano questa offerta potrebbero poi essere messe di fronte a costi elevati per i successivi aggiornamenti.
  2. Nel 2002 l’azienda di tabacco RJ Reynolds venne multata di 15 milioni di dollari per aver passato campioni gratuiti di sigarette nel corso di eventi frequentati da bambini. Si veda: http://www.bbc.co.uk/worldservice/sci_tech/features/health/tobaccotrial/usa.htm.

Il Manifesto degli insegnanti

La Scuola Che Funziona ha il fine di sviluppare un network fra insegnanti che immaginano e sperimentano nuove pratiche di insegnamento, mossi dalla preoccupazione per la crescente distanza fra scuola e società.

Il Manifesto degli insegnanti è una delle iniziative emerse spontaneamente nel network per esprimere le motivazioni generali e fondamentali che accomunano i membri del network.

In questo post racconto come ho vissuto la vicenda del manifesto rispondendo anche implicitamente ad alcune osservazioni che ho letto qua e là nella rete.
Continua a leggere …

Tu non sei qualcosa, tu sei. È una questione di rispetto

veneziabarcamp (1)Il mio caro amico maialinporcello in un commento al post precedente mi chiedeva com’era andata al BarCamp di VeneziaCamp. Rispondo brevemente, poi però colgo l’occasione per approfondire un pochino una questione che mi ha sempre turbato parecchio.

È andata molto meglio della maggior parte dei tanti convegni ed eventi ai quali ho partecipato in passato. Ho conosciuto persone che fanno cose interessanti e mi è piaciuta l’atmosfera informale.

veneziabarcamp2

C’è tuttavia una cosa che non mi è piaciuta: il cartellino (badge) che ci si deve appuntare da qualche parte per essere riconosciuti, come accade in tutti gli altri convegni. Questa volta sul cartellino c’era scritto BLOGGER. Si tratta certamente di un dettaglio marginale rispetto al valore dell’evento in sé e non mi sono certo irretito solo perché mi hanno dato questo cartellino ma la riflessione che ne emerge non è affatto marginale.

Io non sono un blogger, anche se in certi periodi scrivo molto sul blog, commento molto quelli degli altri, ne seguo svariate centinaia, talvolta esorto le persone a trarre vantaggi dall’impiego di un blog e scrivo articoli su “come stare online”.

Semplicemente, impiego il blog in alcuni aspetti della mia attività quando questo si rivela utile per gli obiettivi che mi sono prefissato.

Io non sono un professore, anche se insegno all’università.

Semplicemente, svolgo le funzioni di professore nei precisi momenti nei quali faccio cose utili (forse) per gli studenti che mi vengono affidati in alcune precise circostanze. Quando esco da un istituto e passeggio per la città oppure a casa, dopo avere risposto alle email degli studenti, giro in Internet per i fatti miei, allora non sono un professore ma sono uno dei tanti.

Io non sono un fisico, anche se ho conseguito una laurea in fisica, ho insegnato fisica per un po’ e ho scritto degli articoli di fisica.

Semplicemente, sono uno che in alcune circostanze tende a vedere il mondo in modo conforme ad un paradigma di conoscenza che nella nostra epoca è unanimemente condiviso per costruire quella conoscenza del mondo che chiamiamo fisica.

Io non sono un matematico, io non sono un informatico e via e via …

Io non sono intelligente, anche se mi sono laureato, ho ricoperto un ruolo di ricercatore e poi di professore, ho accumulato un curriculum, ho risolto alcuni problemi o capisco qualche lingua o altro ancora.

Semplicemente, sembro intelligente ad alcune precise persone e in alcune precise circostanze. Ad altre persone ed in altre circostanze sembro del tutto stupido. Per esempio, quando non capisco le questioni di politica universitaria e magari mi chiamano per votare in una certa adunanza e per un certo fine e poi voto all’incontrario perché non ho capito la questione, ebbene allora sembro decisamente stupido.

Io non sono buono, non sono cattivo, non sono pigro, non sono attivo e via e via …

santoro (1)
Don Santoro ascolta la testimonianza dell'unico prete presente ...

Domenica scorsa sono stato all’ultima messa celebrata da Don Alessandro Santoro, l’ultima prima di essere confinato nel limbo affinché si ravveda e impari a non dare più scandalo, per ordine del vescovo Betori. Una delle tante storie – queste sì effettivamente scandalose – di piccoli grandi uomini che si scontrano con il potere.

Don Santoro, fra tante altre cose, ha richiamato l’attenzione sull’abuso frequente dell’aggettivazione [o predicato nominale] – buono, cattivo, intelligente, stupido, volenteroso, pigro, sincero, bugiardo, nero, bianco, ateo, credente, dotto, ignorante … – e ha ricordato che invece ci dovremmo sempre riferire alle persone con il loro nome e basta.  Ogni persona ha la sua storia, unica al mondo, la sua particolare combinazione di sensibilità e di attitudini, le sue particolari ed uniche potenzialità. L’attribuzione di un’etichetta ad una persona equivale all’imposizione di un limite che impedisce di conoscerla, equivale a ridurre le possibilità di comunicarle e di comprenderla.

Lo stesso concetto è stato evidenziato molto chiaramente da Massimo Papini, professore di neuropsichiatria infantile, nella discussione che è seguita alla proiezione de “Il grande cocomero” nell’ambito di CIN@MED, dove ci si riferiva in particolare alla relazione fra il medico ed i suoi piccoli pazienti e i loro genitori.

La questione che si pone, quando in una relazione di cura si ignorano le etichette e ci si avvicina alla persona, è quella del pericolo di un eccessivo coinvolgimento emotivo che può per esempio minare l’azione professionale e dar luogo a fraintendimenti.

In questa strana e ipocritamente ovattata società la parola pericolo fa paura. Sembra che tutto debba esser fatto senza correre rischi. Eppure ci sono tante attività nelle quali il rischio è evidente e inevitabile. Volare, navigare, abbattere un albero, montare un ponteggio, costruire un tetto sono tutte attività pericolose. Si possono prendere cautele ed evitare di fare sciocchezze ma non si può eliminare il pericolo. Ci si assume un rischio inerente ad un’azione perché ci si aspetta che questa rechi un beneficio, ci si aspetta che ne valga la pena.

E in mestieri come quello del medico o dell’educatore, non vale forse la pena di correre qualche rischio per conoscere meglio la persona da curare o da educare al fine di compiere azioni utili anziché dannose?

Fra le migliaia di studenti che ho conosciuto ce ne sono tanti che hanno fatto esperienze di studio all’estero oppure che sono stranieri e sono venuti a studiare in Italia. Io amo parlare con i miei studenti e in questi casi, se le circostanze lo consentono, chiedo loro di raccontarmi le loro impressioni sul confronto fra i diversi sistemi di istruzione. Fra le tante considerazioni particolari vi è un elemento ricorrente: la mancanza di rispetto che in Italia si ha per l’allievo.

Altrove, in generale, gli studenti vengono ascoltati e le loro impressioni contano nella valutazione della qualità degli insegnamenti, con conseguenze concrete. Il fatto che, per esempio, un professore non si presenti ad una lezione è un fatto grave e va giustificato. I rapporti sono molto più informali e esorbitano facilmente dall’ambito rigido della lezione frontale. Si fa tanta più pratica e tanta meno teoria e questo facilita ulteriormente la personalizzazione delle relazioni.

Qui uno studente è un membro dell’insieme degli studenti e basta. Raramente diventa una persona. Il professore è difficilmente accessibile, non ama essere messo in discussione, tende a sottovalutare le valutazioni degli studenti.

Studenti e professori son ben schermati dietro alle rispettive etichette.

La formalità delle relazioni inter-categoria e l’informalità di quelle intra-categoria creano un banale e ipocrita concetto di rispetto che congela le relazioni personali importanti e crea mostruosità sociali. Tante scuole e università italiane, se pensate come soggetti in un mondo dove

  • le organizzazioni operano in un contesto estremamente competitivo e dinamico
  • l’utente è universalmente posto al centro
  • la conoscenza è perseguibile in una grande varietà di modi anche nuovi e diversi
  • l’autorevolezza non è più solo amministrata ma è anche e forse soprattutto continuamente rinegoziata,

ebbene, tante delle nostre scuole e università sono delle mostruosità burocratiche, scarsamente produttive e gestite in modi arcaici.

More about CittadinanzadigitaleGli studiosi di tecnologie per l’insegnamento sostengono che affinché queste possano essere adoperate con successo è necessario valorizzare la centralità dell’utente. Un buon esempio per esempio è questa relazione di Mario Rotta, recentemente apparsa anche nella pubblicazione Cittadinanzadigitale (Edizioni Junior, 2009) curata da Luisanna Fiorini.

È vero purché non si pensi che la centralità dell’utente sia una questione che concerne solo l’impiego di nuove tecnologie e in particolare che sia un effetto magico di quest’ultime. Le nuove tecnologie applicate alla formazione, così come la scuola e l’università nelle loro forme più convenzionali possono funzionare in modo adeguato rispetto alle necessità della società se si rimette lo studente al centro, sì, ma partendo dal rispetto per la sua persona, al di là di ogni sua apparenza e appartenenza.

È prima di tutto una questione di rispetto.

P.S.

Può essere interessante vedere questo video di Ken Robinson


Al margine di alcune vicende elettorali

11 giugno: per errore ieri avevo pubblicato una bozza non definitiva di questo post, mi scuso.

Qualche tempo fa mi trovai a discutere con alcuni colleghi sulla valutazione dei crediti da attribuire alle attività di studio online in un corso universitario. Uno di quei temi dove inevitabilmente ci si trova a fare delle disquisizioni minuziose e puntuali su entità che hanno scarso riscontro pratico con la realtà. Una discussione accademica appunto.

Controllo e valutazione sono elementi fondamentali in ogni tipo di organizzazione.  Per esempio, rimanendo solo per un istante nel campo dell’istruzione, quella della quantificazione è una vera e propria ossessione, iniziando con i voti inflitti ai bambini sin dalla più tenera età sino ai voti universitari che pesano le valutazioni positive con ben 14 valori possibili (da 18 a 30 e lode), per poi giungere alla quantificazione dello studio in crediti che dovrebbe servire a garantire un certo livello di apprendimento e di competenza per poi ridursi ad una mera misura delle ore di lezione.

Eppure, il pensiero che si è dipanato negli ultimi 50 anni nelle scienze attinenti alla formazione ed al suo ruolo nella società che evolve così rapidamente, ha percorso e sta percorrendo vie molto  diverse.

Le valutazioni servono per esercitare il controllo e il controllo è quasi universalmente considerato lo strumento principale per navigare nel mondo. C’è però un equivoco su questo. Ormai nell’immaginario collettivo il mondo è un mondo economico ed ogni attività umana è valutata e immaginata in esso. Invece il mondo nel quale viviamo è molto più grande, comprende il mondo economico ma è molto più grande.

Non è più grande nel solo senso del teatro, dell’ecosistema naturale, che va preservato e mantenuto affinché vi possano avere luogo le gesta dell’umanità. Il mondo vero nel quale viviamo è pervasivamente grande. L’ecosistema non è solo ecosistema di piante e animali, o, in accordo con la teoria Gaia, un ecosistema dove anche il mondo minerale inanimato svolge un ruolo attivo, bensì è un ecosistema che include la comunità umana come comunità sociale e come comunità economica, un ecosistema che include anche il dominio delle idee, il dominio delle culture in altre parole. Un mondo vertiginosamente complesso nel quale non si può escludere che un’idea apparentemente del tutto astratta possa avere influenza sulla popolazione di qualche specie animale e anche il viceversa.

Non si tratta solo di un’immagine, magari giusto suggestiva, ma di una visione che comporta implicazioni molto pratiche e concrete. Gli ecosistemi si distinguono dagli altri sistemi immaginati prima nelle scienze per una nozione precisa e molto importante: la rete. È attraverso l’opera degli studiosi di ecologia che la nozione di rete ha trovato cittadinanza nella scienza intorno agli anni 20 del secolo scorso.

La rete è un sistema particolare, diverso da tutti gli altri. Non è un qualcosa che si possa ridurre ad un meccanismo, cioè qualcosa che possa essere descritto come un incastro ordinato di elementi collegati da relazioni causa-effetto. Qualcosa che si possa descrivere a partire dalla conoscenza dei sottosistemi che lo compongono.

La rete non si progetta e non si costruisce. La rete sorge spontanea e cresce autonomamente. Non si può manovrare. Se ne può avere cura. La rete non si può dividere e smontare. Se si smonta cessa di esistere, se si rimonta non risorge. La rete può avvizzire e può fiorire. La rete è viva.

Sino alla fine del secondo millenio il paradigma dominante di ogni azione organizzata è stato quello del controllo ma l’esercizio del controllo presuppone la logica del meccanismo. La rete non è un meccanismo e non si può controllare. La rete reagisce agli stimoli esterni. Se è sana reagisce bene. Al controllo diretto reagisce eludendolo e se non può eluderlo muore. Si può solo tentare di lavorare a monte sui presupposti che la rendono sana.

È ormai un fatto accertato che vi siano domini strategici per affrontare i quali gli strumenti usuali dell’organizzazione e delle competenze settoriali si stanno rivelando palesemente insufficienti. C’è crescente insoddisfazione sui risultati della formazione; in molti si stanno ponendo la domanda se fra dieci anni le università esisteranno ancora nella forma attuale e taluni sono pronti a scommettere di no. C’è preoccupazione per le quote di successo molto basse di progetti industriali ad alta tecnologia; i progetti costano molto a causa dell’elevata probabilità di insuccesso in termini di obiettivi conseguiti solo parzialmente, di scadenze disattese e di costi corretti al rialzo. C’è disorientamento per l’incapacità delle organizzazioni politiche di raccogliere e rappresentare istanze e aneliti che vadano oltre le banali convenienze del vivere quotidiano; l’incapacità cioè di entrare in contatto con un’anima popolare volta alla cooperazione civile e alla costruzione di un mondo migliore, un’anima che palesemente esiste, considerata la vitalità di fenomeni quale il volontariato o le aggregazioni online, come può essere quella del software open source, solo per fare un esempio.

La complessità del mondo ci sta presentando il conto. Non possiamo più pensare di affrontare le sfide che esso ci pone con le armi spuntate del controllo diretto, della manipolazione, della misurazione di cose non misurabili. Dobbiamo imparare, e per certi versi reimparare, ad ascoltare anziché solo comandare, a coltivare e allevare anziché solo progettare e costruire o istruire, ad addomesticare anziché solo addestrare.

Dobbiamo dare maggiore enfasi all’agire femminile e meno a quello maschile. Questo non significa dare maggiore potere alle donne e misurare quante di esse siano entrate nei parlamenti o nei consigli comunali o nei consigli di amministrazione. Le quote rose sono un tipico parto della mentalità maschile.

La soluzione non è nel trasformare le donne in uomini in un mondo dominato dalla logica maschile, fra l’altro al prezzo di un disagio personale della componente femminile dalle conseguenze difficilmente valutabili ma certo non molto promettenti. La soluzione semmai passa dall’adozione del pensiero e del sentire femminile a livello di istituzioni e organizzazioni.

Non è un discorso teorico bensì è molto concreto. In pratica questo significa esercitare attenzione per le reti, quando esse esistono, e intraprendere azioni rispettose della loro natura viva.

Queste considerazioni si attagliano perfettamente ai recenti accadimenti elettorali. Non si può pensare di coagulare l’interesse popolare mediante la mera manovra delle leve del potere convenzionale e la comunicazione basata sullo svilimento della parola se non l’esercizio spudorato della menzogna.

Questi metodi possono funzionare con coloro che sono sensibili solo alle istanze più banali: più soldi, meno tasse, meno immigrati, meno delinquenza; certo non con quell’amplissima parte di popolazione che percepisce la complessità del mondo e che è animata da aneliti di maggior respiro.

Oggi la tecnologia consente di dare corpo a sentimenti e aspirazioni comuni che difficilmente possono essere colti e interpretati da coloro che il sistema del potere politico seleziona. Le tecnologie necessarie sono oggi ubiquitarie, le abbiamo semplicemente in casa. Le competenze richieste sono minime e alla portata di chiunque. Lo testimoniano gli eventi di social networking che stanno coinvolgendo centinaia di milioni persone in tutto il mondo.

La tesi finale di questo breve scritto è che il potere politico esercitato in modo convenzionale può solo funzionare per raccogliere un consenso assimilabile a quello che, in modo molto sommario, indichiamo con destra.

Il potere politico convenzionale non ha gli strumenti adeguati per coagulare una forma di opposizione. Questa opposizione può invece crescere dalla base, con le modalità della rete, in modo spontaneo.

Come nel mondo dell’attuale istruzione si sta ipotizzando che il luogo della formazione si stia spostando fuori dalle aule scolastiche così forse il luogo dell’esercizio della democrazia si sta spostando fuori dai luoghi e dai momenti cosiddetti istituzionali. Almeno in qualche misura.

Certamente molti si sentono disorientati da una visione del genere e si sentono come mancare il terreno sotto i piedi ma questo è normale. Le novità vere hanno sempre creato sconcerto e, soprattutto, sono emerse spontaneamente senza che nessuno sia mai riuscito a progettarle a tavolino.

Clown in corsia

Di tanto in tanto mi capita di parlare un po’ con giovani i quali si occupano, a vario titolo, di attività di clown in corsia. Sono cose che entusiasmano. Tuttavia, molto spesso emerge un fatto deprimente: pare che fra le varie organizzazioni che promuovono queste attività vi sia scarsa collaborazione e forte tendenza all’accentramento. Non posso essere certo di questo ma è un fatto che emerge regolarmente quando mi capita di approfondire con qualcuno di questi ragazzi.

Io ho paura delle organizzazioni. Ho paura dei corsi, dei titoli, dei crediti che si comprano frequentando corsi a pagamento. Ho paura degli esami; ne ho avuta come esaminato e ne ho di più ora come esaminatore. Mi terrorizzano. Ho paura dei numeri chiusi, dei test per esservi ammessi, assurdi, privi di senso. Ho paura dei voti, delle micrometriche discettazioni docimologiche sulla costruzione del voto di laurea. Ho paura degli ordini professionali, delle abilitazioni formali. Ho paura dei progetti. Ho paura delle formalizzazioni. Ho paura della didattica formale. Ho paura dei professori; sì, ho paura di me stesso.

Ho paura che qualcuno possa brevemente decidere se quel ragazzo sia adatto o meno ad alleviare la sofferenza col sorriso. Ho paura che si impieghi un metro di misura disastrosamente rozzo, come succede nella stragrande maggioranza dei casi. Magari quel ragazzo che non ha passato il test possiede doti umane imperscrutabili che lo renderebbero straordinario per fare il clown in corsia. O qualcuno ha scoperto nel frattempo il modo di misurare l’attitudine all’empatia? L’amore si misura?

Lo so che al mondo ci vuole struttura, ci vuole organizzazione ma perché succede così spesso che l’uomo finisce per scomparire in questi meccanismi? Così spesso che a me è venuta paura.

So che non è semplice inserire giovani aspiranti clown in un ospedale. Provo a ragionarci un po’.

L’aspirante manovale

Consideriamo un aspirante manovale, cioè colui che dovrà aiutare il muratore nelle attività più faticose caricare e scaricare materiali, impastare la calcina ecc. Nella pratica, l’avviamento al lavoro del manovale è sempre stato ed è ancora molto semplice, avendo luogo sul campo: “La pala è quella la, il camioncino da scaricare è questo, butta la sabbia la dietro …” e via e via.

Oggi sentiamo parlare quotidianamente di un numero impressionante di morti bianche. Una cosa incredibile: siamo in grado di porre domande complesse ad un database dall’altra parte del mondo ottenendo le risposte entro un battito di ciglia e non ci riesce di evitare che gente che lavora si ammazzi cadendo da un ponteggio o facendosi stritolare da una pressa! Evidente che se ad un manovale, che magari sa anche poche parole di italiano, si mette una pala in mano e si manda tout court in cantiere nei pressi di macchine che non conosce bene, il rischio che si faccia male o che faccia male a qualcun altro c’è e forse non è trascurabile. In questa situazione è ovvio che si debba prevedere una fase di formazione al fine di far conoscere le norme elementari di sicurezza. Questo è un tipo di formazione che può essere formale: qualche scheda da leggere, qualche spiegazione, qualche domanda per sincerarsi che si sia capito.

Va da se che ci sarà anche una parte di apprendimento importante che avverrà in modo informale: se il nostro manovale non ha mai usato la pala imparerà guardando gli altri. Figuriamoci poi se il ragazzo è vispo: seguirà il maestro muratore e finirà col diventarlo lui stesso.

Non vi è però dubbio che, in una società civile, attività del genere dovrebbero essere precedute da una fase formativa formalizzata, seppur limitata.

L’aspirante poeta

Vediamo ora il caso di un aspirante poeta. Può sembrare un esempio balordo ma in fin dei conti esistono i corsi di scrittura creativa. Ebbene, quanto possiamo pensare che possa incidere un insegnamento formale sulle future capacità espressive del nostro aspirante poeta? Sì, la conoscenza degli strumenti, metrica, ritmo, stile, potrà avere qualche utilità ma sarà sicuramente secondaria rispetto allo stupore, alla profondità, all’ispirazione e altre cose umane che possono portare una persona ad esprimersi toccando l’anima dell’altro. L’erudizione può costruirsela chiunque ma il resto no. Ognuno di noi ha in se una fiamma che è unica, irripetibile; compito della formazione e far sì che ognuno possa evolvere fino a far ardere appieno la propria unica fiamma. Si può far poco con l’ insegnamento formale su questo. Lo so che è economicamente e organizzativamente scomodo ma non ci sono scorciatoie. Non è possibile incasellare lo sviluppo di una mente creativa in qualche comodo diagramma, stiamo parlando della cosa più complessa e misteriosa che noi conosciamo in questo universo, non dimentichiamolo.

L’aspirante clown in corsia

E che possiamo dire per gli aspiranti clown in corsia? La cosa è complessa perché comprende ambedue gli aspetti esemplificati nei due casi limite che abbiamo appena visto. Per un operatore all’interno di un ospedale il rischio di fare danni è elevato. Chi va ad operare in un ospedale deve essere informato su ciò che si può fare e su ciò che non si può fare. Questo vale a maggior ragione per un clown che per sua natura si avvale di rumori, parole, oggetti e comportamenti inusuali mentre in ospedale vi possono essere attrezzature complesse e delicate, stati fisici e psichici anomali, contesti etnici particolari. Sembra del tutto naturale inquadrare questo tipo di formazione in modo formale.

Tuttavia per fare il clown nelle corsie ci vuole anche ben altro. Qualche capacità circense e artistica ovviamente non guasta ma è fondamentale una buona dose di empatia, cioè di capacità di mettersi nei panni dell’altro. Inutile conoscere tutti i possibili pericoli, tutti i possibili disagi, tutte le possibili patologie del mondo, saper fare tutti i possibili esercizi di giocoleria e suonare tutti gli strumenti del mondo, se manca l’empatia.

L’empatia è un’attitudine e come tale non si può insegnare, certamente non nel senso scolastico. La predisposizione personale dovrebbe essere al centro dell’attenzione di qualsiasi formatore. La predisposizione è un dono inestimabile per la comunità, un dono che è stolto dissipare. In qualsiasi tipo di formazione, la sensibilità del formatore deve essere orientata a comprendere quale sia la fiamma che c’è in ciascun allievo. Lo so, è un modo di pensare utopico; tutti dobbiamo fare i conti con i vincoli imposti dalla realtà ma l’utopia dà un timone all’azione.

Nella didattica non formale il ruolo del formatore non è marginale rispetto alla didattica convenzionale di tipo formale, anzi è cruciale, è meno appariscente ma può incidere moltissimo sul percorso degli allievi. È proprio qui che il formatore ha la possibilità di percepire la predisposizione di ciascuno.

Ho seguito le vicende dei protagonisti del progetto M’illumino d’immenso, un gruppo di studenti guidati da due clown in visite periodiche ad alcuni reparti di un ospedale fiorentino. Trovo che sia un’esperienza di grande interesse anche per il modo nel quale è impostata:

1)ogni uscita in ospedale avviene in coppia, un giovane ed un maestro

2) una volta al mese ha luogo una riunione di un giorno intero dove tutti i giovani ed i maestri lavorano sulle abilità e sulle capacità di espressione.

Non c’è da spendere molte parole, davvero un bell’esempio di didattica informale con un grande impegno da parte di coloro che svolgono il ruolo di docente. E i risultati si vedono: il gruppo è animato da grandissimo entusiasmo, basta leggere qualche post del blog M’illumino d’immenso per rendersene conto. C’è anche un altro risultato che non si può non notare: questa è un’attività che coinvolge più facilmente le ragazze dei ragazzi. Attenzione, ci sono anche alcuni ragazzi e sono bravissimi. Tuttavia sta di fatto che nel corso dei mesi si è consolidata una netta maggioranza di contributi femminili.

L’esperienza di questi ragazzi è un bellissimo esempio che insegna molte cose. Non c’è dubbio che per trarne un modello valido per altre realtà, questo dovrebbe essere arricchito da una fase di istruzione sulle modalità di funzionamento di un reparto ospedaliero, sulle cautele da adottare e sui possibili rischi ma senza deturpare la magia che si realizza quando ad un giovane entusiasta si dà la possibilità di cimentarsi.

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