Wikipedia

Rispondo con un post al commento di Donatella alla mia traccia sull’etica hacker

Dice Donatella:

Se ho capito bene, le voci di Wikipedia non vengono “adottate”, ma è possibile intervenire liberamente e senza “censura”.
Non credi che questo possa favorire una prassi del tipo “Cicero pro domo sua”?

Certamente rispettiamo le enciclopedie illuministiche ma capire l’utilità di quelle attuali è difficile. In questi nostri tempi lo scibile è sterminato e in continua tumultuosa espansione. Davvero pensiamo che una enciclopedia redatta in modo convenzionale possa tenere il passo con tutto questo?

Le enciclopedie sono molto costose. Quello che riescono ad offrire vale il costo? Nella mia esperienza personale, se capita di cercare un’informazione in modo “leggero”, giusto per un orientamento o per passeggera curiosità, potrei andare a cercare in una enciclopedia ma questo tipo di necessità non ha mai giustificato un acquisto così oneroso. Quando invece ho necessità di reperire un’informazione in modo “serio” so già che molto probabilmente troverei la voce enciclopedica troppo superficiale. In tal caso preferisco cercare le fonti, quasi sempre libri.

Le enciclopedie contengono errori, sempre. Accade come nella produzione del software: la riduzione degli errori è un processo molto lungo e costoso. Il metodo di redazione convenzionale rende molto difficile e lento questo processo.

Su certi argomenti le voci possono essere scritte in modo non neutrale? La neutralità è una vera ossessione in Wikipedia e i suoi redattori più accaniti, cioè gli utenti più attivi, sono attentissimi a questo aspetto. È proprio in Wikipedia che si è sviluppato una sorta di codice etico della scrittura. Chi non si comporta adeguatamente viene emarginato dalla massa che è estremamente motivata sulla qualità. E poi gli autori coinvolti nelle enciclopedia tradizionali danno sempre garanzia di neutralità? Quante diatribe poco edificanti vi sono state in passato fra studiosi anche di grande livello? L’uomo è imperfetto, anche quando riesce a conquistare posizioni rilevanti nella società.

Allora, per un impiego “leggero”, preferisco di gran lunga Wikipedia: più ampia, più dinamica nel seguire lo scibile e quindi più aggiornata, revisionata in continuazione da una moltitudine di persone, a costo zero.

Le fonti solide si cercano comunque altrove.

Etica hacker al liceo …

Domani andrò a fare una conferenza sull’Etica hacker ad un liceo scientifico. La traccia l’ho sperimentata in tanti contesti diversi, mutatis mutandis, ma mai in un liceo. Mi piace l’idea anche se sto leggendo Deschooling Society

Dibattito sull’Economist

Nelle pagine Web dell’Economist si sta svolgendo un dibattito online sulla seguente proposizione

Social networking technologies will bring large [positive] changes to educational methods, in and out of the classroom.

Per partecipare è necessario fare un account free.

Ho avuto questa informazione da un messaggio di Sharon Peters in twitter. È interessante anche il post della medesima autrice dove compare la segnalazione.

Due parole su twitter

Grazie alla diavolessina di Potenza, catepol, mi ritrovo in Twitter. Una vera e propria diavolessina del WEB 2.0. Ogni pochino è lì a tesser le lodi di qualche nuova diavoleria e ci riesce bene … i curiosi come il sottoscritto vengono inesorabilmente accalappiati 🙂

E pensare che detesto ogni tipo di chat perché le trovo insopportabilmente intrusive. Ok, Twitter è diverso ma a prima vista sembra orribilmente intrusivo, una montagna di ciance che ti sommerge. Ci ho comunque provato dopo avere letto un recente post di catepol. Ci sono cascato subito. Complimenti!

La cosa più interessante che mi sta offrendo Twitter è la possibilità di seguire da vicino alcuni dei compagni di classe del corso OpenEd. Questo è molto piacevole perché durante i tre o quattro mesi del corso si era creata una notevole atmosfera della quale poi ho sofferto la mancanza. Tramite Twitter ho la sensazione di averla in parte recuperata. Non solo, succede che si raggiungono altre persone che non hanno partecipato al corso OpenEd ma che sono interessate all’argomento.

È notevole la quantità di notizie utili che si ricevono. Per esempio è da questa comunità che ho saputo dell’esistenza di un dibattito intorno al social networking sull’Economist oppure della disponibilità dei primi XO, i computer sviluppati nel progetto One Laptop Per Children, in Canada.

La questione cruciale è: come si fa ad aumentare la quantità di notizie utili affinché il costo di dover seguire un’ennesima fonte valga la pena d’esser speso? Incrementando il numero di persone da seguire, ovviamente, almeno fino al limite oltre il quale uno non ce la fa più. Numero che può essere diverso per ognuno di noi ma che dipende anche dalle persone che si seguono.

Qui ho una perplessità, quando Twitter viene usato come conversazione continua, come dice catepol alla fine del decalogo nel suo post. Se una persona pone molti messaggi su fatterelli spiccioli succede che la massa si diluisce e il rapporto beneficio-costo summenzionato cala. Parlare della vita spicciola può essere simpatico ma dipende dalle persone a cui ci si rivolge.
Secondo me si può usare per due tipi di comunicazione diversi:

  1. Affettivo: cicaleccio che ha senso entro una cerchia ristretta di amici più o meno intimi, un modo per sentirsi vicini
  2. Generalista: diffusione di notizie che hanno probabilità di essere di interesse generale, un modo per informare

Credo che il primo tipo di comunicazione andrebbe svolto in forma privata perché sennò può succedere di abbuiare qualcuno che dà ogni tanto delle notizie interessanti ma che, generando troppo flusso privato, rischia di offuscare gli altri. Mi pare però di avere capito che in Twitter si può lavorare o in modo pubblico oppure privato. Quindi bisogna decidersi … o magari fare due account … o mi sta sfuggendo qualcosa?

Felicità privata e felicità pubblica

Questo è il titolo del libro di Albert Hirschman che ho appena finito di leggere. Un genere di libri a me poco conosciuto, sono stato stuzzicato a provarci dai post stimolanti di Maria Grazia. Non sto rispondendo direttamente a tali post, per ora, ma faccio solo un commento che mi viene spontaneo dopo questa lettura.

La tesi fondamentale del libro concerne l’esistenza nelle nostre società di un’alternanza relativamente regolare fra periodi di preoccupazione intensa per i temi pubblici e periodi di concentrazione prevalente su obiettivi di benessere privato. Per intendersi, Hirschman prende a riferimento il periodo degli anni Cinquanta, caratterizzati da una prevalente dedizione agli interessi privati, seguito dal periodo degli anni Sessanta dove si sono visti cospicui fenomeni di coinvolgimento pubblico in Europa occidentale, nelle Americhe ed in Giappone, per finire con il ritorno agli interessi privati negli anni Settanta. L’autore, onestamente, ammette subito all’inizio, che non sarà in grado di dimostrare la natura endogena di una ciclicità del genere. In effetti è vero, non la dimostra né posso immaginare che la si possa dimostrare in un panorama così tremendamente complesso e così poco stabile ma questa sensazione vale assai poco tanta è la mia ignoranza dei metodi delle scienze sociali. Mi pare tuttavia molto interessante l’enfasi che Hirschman pone su fattori molto umani che sono assolutamente determinanti nelle scelte degli individui quanto sono invece trascurati nelle assunzioni estremamente semplicistiche che gli economisti classici fanno per descrivere i fatti del mondo.

Il libro è un saggio, tuttavia è scritto come un storia che accompagna il lettore nella percezione delle motivazioni che inducono un consumatore a ritenersi insoddisfatto della fruizione personale dei beni, quindi a rivolgere le proprie attenzioni a temi e attività di tipo pubblico ed infine a ritirarsi nuovamente nella propria vita privata.

Tutto questo percorso è preceduto da un’analisi della sensazione di delusione che si accompagna molto facilmente al conseguimento di un obiettivo e che viene descritta come una insopprimibile caratteristica del pensiero dell’uomo. Vari sono i riferimenti di Hirschman alla letteratura su questo tema; cito qui quello al pensiero di Giacomo Leopardi, dove, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia si confronta l’appagamento del gregge dopo il pascolo con la perdurante insoddisfazione che il pastore avverte dopo il proprio pasto, e quello di Bernard Shaw: “Vi sono due tragedie nella vita. Una consiste nel non ottenere ciò che il vostro cuore desidera. L’altra nell’ottenerlo”.

Delusione che affligge la vita dell’uomo ma che è tuttavia necessaria per dar valore a nuove aspettative: se esistesse un modo per bandire ogni sorta di delusioni dalla propria vita questa stessa si svuoterebbe di significato e di attrattiva. Hirschman prende la mosse da questo tipo di analisi per descrivere i fattori che determinano le oscillazioni degli interessi di comunità ampie fra privati e pubblici.

Ora Hirschman ha 93 anni ed io ignoro se ha la forza e la motivazione per tornare su questa tema, magari è in tutt’altre faccende affaccendato. Verrebbe tuttavia voglia di rivisitare le sue argomentazioni alla luce di ciò che è successo l’indomani della pubblicazioni di questo saggio, mi pare nel 1983.

Mi interessa qui soffermarmi su quanto scritto nel capitolo Dagli interessi privati all’arena pubblica dove, fra i fattori determinanti per tale passaggio si cita il fatto che, quando ci si trova a lavorare per una causa di interesse pubblico, è l’attività stessa ad essere di per se appagante. Questo è in contrasto con la maggior parte delle attività di natura privata dove si distinguono nettamente una fase di lavoro che viene sopportata per ottenere le risorse che consentono, successivamente, l’acquisizione del bene desiderato, vuoi che esso sia un bene durevole, non durevole oppure un servizio. Le attività che comportano una qualche forma di dedizione alla collettività, attività di volontariato o attività politiche per esempio, in generale procurano la ricompensa nella gratificazione che deriva dalla partecipazione.

Hirschman identifica molto il coinvolgimento pubblico con la partecipazione ad attività di natura sociale ma soprattutto politica. Questo dipende dall’epoca in cui è stato scritto il saggio, precedente di circa dieci anni la crescita esplosiva di Internet. L’avvento di Internet ha cambiato sostanzialmente lo scenario espandendo enormemente le possibilità di partecipazione ad attività di interesse collettivo. Basti pensare al fenomeno del software open source: chiunque, da qualsiasi parte del mondo, può contribuire alla realizzazione di software che, se effettivamente funzionante, può essere utilizzato immediatamente da comunità di utenti estesissime. Ed è certamente vero che in questo tipo di attività la gratificazione risiede nel lavoro stesso, mancando quasi sempre, salvo casi molto particolari, ogni tipo di remunerazione a posteriori, a parte la remunerazione insita nella crescita delle competenze personali. Ed è un gratificazione di grande entità in termini sociali, se così posso dire, vista la sterminata dimensione della comunità degli autori di software open source.

Questi nuovi eventi influenzano sicuramente molto l’analisi di Hirschman quando commenta, nel capitolo Le frustrazioni della partecipazione alla vita pubblica, l’insorgenza di una rinnovata delusione in coloro che, dopo un periodo di dedizione alla collettività, tendono a concentrarsi nuovamente su obiettivi di natura privata. Fra i motivi adduce la natura quasi sempre utopica degli obiettivi rispetto a quello che si rivela essere realizzabile. In sostanza, dice Hirschman, il periodo durante il quale un individuo riesce ad associare direttamente l’attività che si ritrova a svolgere concretamente con l’obiettivo che l’ha motivata è fatalmente destinato ad avere durata limitata. Per tanti motivi, per esempio perché si tende ad immaginare obiettivi che si rivelano astratti, perché la realtà si rivela sempre molto più complessa di quello che si pensava, per via dei compromessi che si devono accettare, perché può facilmente accadere di trovarsi a compiere azioni che finiscono con l’apparire in aperto contrasto proprio con gli obiettivi nobili per i quali ci si era mossi, perché per ottenere risultati appena apprezzabili le attività finiscono col richiedere troppo tempo, perché alla fine si rischia di non riuscire a vedere più un nesso diretto fra le proprie azioni ed i risultati.

Ora ci si può avventurare verso obiettivi che possono essere a portata di mano e non solo nel mondo del software open source. Non sto qui a enumerare i nuovi fenomeni che popolano la rete ma in tutti gioca un ruolo fondamentale la collaborazione di massa.

La massa non è certo nata ora ma è ora che ha conquistato la parola. È ora che ha iniziato ad esprimersi. All’inizio della storia moderna è comparsa la massa sotto forma di mera collettività, unita spesso nel destino di carne da macello. Sono stato uno studente molto distratto, la storia è una delle cose che a scuola ho solo subito, mi sono laureato felicemente in fisica a 23 anni ma di molte materie non ho imparato niente a scuola. La storia è una di queste, malgrado tre ripetizioni complete. Mi è rimasto quasi un solo ricordo sostanziale al di là della piatta enumerazione di fatti, tutti dimenticati: la stranezza che la storia fosse fatta dai potenti che conquistano, si urtano, vincono, perdono in una sorta di drammatico gioco dove la massa gioca il ruolo di carne da macello.

Nell’era contemporanea, pressapoco quella vissuta dai presenti con i capelli più o meno grigi, la massa è assurta al ruolo di interlocutore, in quanto oggetto di interesse delle multinazionali, dei mercati, della politica. Infatti la massa consuma e, secondariamente, vota; quindi è oggetto di interesse per chiunque gestisca potere, vuoi economico, vuoi politico. Il potere ha preso a comunicare alla massa grazie all’avvento dei media, la televisione in primo luogo. La massa è diventata un interlocutore importante ma un interlocutore quasi muto capace di pochi balbettii espressi mediante il voto, qualche movimento di rivolta, manifestazione di piazza, scioperi, manifestazioni collettive varie. La massa sino ad ora si è potuta esprimere ma con un linguaggio estremamente ridotto e scarse possibilità di azione coerente. Come un bambino piccolo che ha iniziato a formulare le sue prime parole.

Nell’era di Internet la massa ha conquistato la parola, si esprime compiutamente ma soprattutto consegue obiettivi complessi a dir poco sbalorditivi. Chi ha fatto il sistema operativo Linux? Certamente non Linus Torwald il quale ha scritto le prime 10000 righe di codice nel 1991. La massa ha aggiunto il resto: 240000 linee di codice nel 1995, 10 milioni nel 2000, ora non so più; non ha nemmeno senso contarle vista la moltitudine di salse in cui Linux è stato ricucinato, persino come sistema operativo di telefoni cellulari. Linus Torwald non ha conosciuto quasi nessuno di questa moltitudine, sarebbe stato impossibile del resto, e non ha coordinato i lavori nel senso comune del termine. Non ha cioè assegnato compiti bensì ha aspettato che la massa producesse limitandosi a mettere ordine fra i suoi migliori prodotti. Linus Torwald ha capito come funziona la massa allorché le si dà la possibilità di esprimersi e di agire.

Il cosiddetto potere ha capito bene poco invece. Non si è accorto che la massa è diventata un attore attivo del gioco. Qualche industria l’ha capito. Una piccola minoranza ma molto significativa: IBM, Procter & Gamble e un’altra manciata di esempi. L’esempio di IBM è illuminante: ha sviluppato una strategia per collaborare con la massa dei sviluppatori open source. Si può dire che IBM stia facendo affari colossali dopo avere capito di doversi adeguare a regole che sono state imposte di fatto dalla massa. Non le ha decise nessuno: la massa funziona così, punto. Può fare un lavoro titanico ma ti devi adeguare. La P&G si fa fare ricerca dalla massa. Non assegna compiti di ricerca ma getta in pasto alla massa quesiti, la massa rigurgita risultati, la P&G raccoglie ciò che serve e paga in proporzione. Se paga in proporzione la massa continua, sennò no. Chi vuole maggiori dettagli trova vari esempi del genere raccolti in Wikinomics.

Tornando alle tesi di Hirshman, non c’è dubbio che una enorme moltitudine di persone oggi trovi soddisfazione nell’arena pubblica per la facilità di partecipazione, per la varietà delle azioni possibili e per la concretezza degli obiettivi possibili. Non è questione di andare a cercare ciclicità per ora. È in atto una fase talmente cospicua ed esplosiva che i cicli privato-pubblico precedenti sono diventati fatti microscopici. Sarebbe interessante sapere se questa enorme quantità totale di soddisfazione provata dalla massa nel conseguimento degli obiettivi si traduca effettivamente in benessere: maggiore crescita degli individui, minori tensioni ecc. Forse qualcuno ci ha lavorato già.

Molte altre cose rischiano di trovarsi in ombra come forse i teatrini delle parti politiche che sostengono di rappresentare un qualcosa che sta ormai guardando e agendo altrove o i grandi progetti industriali e di ricerca: per ora sta vincendo chi ha riconosciuto alla massa il ruolo di formidabile interlocutore e produttore.

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