Cronaca di una caccia all’errore – #loptis

La cronaca seguente potrà essere utile per coloro che vogliono cimentarsi con l’impiego dei quiz Hot Potatoes, ma il messaggio importante è un altro: l’impiego di strumenti aperti e standard consente di risolvere i problemi con i soli limiti della propria perseveranza, intelligenza e attitudine a collaborare: siamo liberi. Quando invece si usano strumenti basati su codici proprietari, ci troviamo in una condizione di impotenza, nella quale siamo dipendenti dalle condizioni imposte da terzi, di solito governate da ragioni di natura economica: non siamo liberi. Questa è la situazione che si verifica con l’ubriacatura planetaria delle applet, che di per se non avrebbero nulla di male, se non che queste vengono quasi universalmente distribuite con un modello di business strettamente proprietario. Con questo tipo di prodotti gli esercizi di intelligenza che stiamo esplorando sono negati.


Nel post precedente abbiamo affrontato il problema dell’inserimento di un quiz fatto con Hot Potatoes per risolvere il problema del cruciverba di Antonella. Nel post ho mostrato il procedimento con un semplice quiz.

Antonella è andata subito a provare inserendo un quiz analogo, che però non funziona regolarmente: il mouse è sensibile ai comandi ma questi non si attivano.

Considerato che il quiz di Antonella era pressocché identico al mio, avevo pensato ad altri fattori che rendessero ragione del diverso comportamento, per esempio il tema grafico. Poi mi è venuto in mente che potevo carpire il codice dell’Hot Potatoes usato da Antonella, andando nel suo post e usando la combinazione di tasti Ctrl-u, poi estraendo la parte pertinente al quiz.

confronto fra il codice di due quiz generati con il sistema hot potatoes
Clicca l’immagine per vederla bene

Fatto questo l’ho confrontato, riga per riga con il codice del mio quiz.

Con un po’ di pazienza è abbastanza facile individuare le differenze e riconoscere quelle giustificabili – per esempio quelle dovute al fatto che io ho usato la versione Java e Antonella quella Windows. Scendendo nel codice, alla fine è emerso il problema…

confronto fra il codice di due quiz generati con il sistema hot potatoes
Clicca l’immagine per vederla bene

Nell’istruzione 1440 del quiz di Antonella c’è un’anomalia:

una riga di codice sbagliata in un quiz fatto con hot potatoes
La parte di codice errata è evidenziata in rosso

Non mi chiedete come possa essere successo questo. Posso solo dire che quando si manipola il codice si deve agire con lentezza e accortezza, come quando si si lavano a mano i cocci preziosi della nonna. Ecco la versione corretta:

una riga di codice corretta in un quiz fatto con hot potatoes
Qui il codice è stato corretto

Bene, allora ho provato a scrivere un post usando il codice di Antonella originale e uno con il codice corretto.

Ok, pare tutto chiaro. Ma devo aggiungere ancora una cosa. Se guardate il blog nel suo insieme – non un post alla volta come nei due link precedenti – vedete che ho scelto di non mostrare i post interi, esattamente come faccio in questo blog con i post più vecchi e più lunghi, in modo che uno possa scorrere agevolmente la pagina vedendo di primo acchito solo gli incipit dei post. Questa cosa la si realizza inserendo – in modo HTML! – il codice <!–more–> <br /> dove si vuole che il post venga interrotto.

Ebbene, ho usato questo accorgimento perché mi sono reso conto che avendo più quiz attivi nella stessa pagina questi interferivano fra loro in maniera scorretta, allora ho trovato questa soluzione.

Una risposta lampo sull’embedding di quiz Hot Potatoes – #loptis

Ho ricevuto una domanda da Antonella che sta cercando di inserire degli esercizi fatti con il sistema Hot Potatoes in un post del suo blog, questo il tentativo che mi diceva:

Dopo mille tentativi non sono riuscita ad inserire un crossword creato con Hotpotatoes nel mio blog e nella piattaforma eTwinning. Sono riuscita ad inserirlo solo in modo statico,cioè ogni scuola partner se lo può scaricare, stampare e risolvere…. ma in questo modo è poco appetibile per i ragazzi. Che cosa sto sbagliando? Non riesco a trovare un embed code ed usando la sorgente della pagina,mi porta all’accesso personale di Hotpotatoes.

Sapevo dell’esistenza di questo software ma non l’avevo mai provato. Ecco l’occasione quindi! Torna anche bene come esercizio di editing – per “quelli di editing multimediale” …

Sono andato nella pagina di Hot Potatoes e ho scelto di scaricare la versione in Java (che di solito gira su tutti i sistemi). Ho unzippato il file e sono entrato nella cartella javahotpot che si è così creata. Lì ho fatto partire l’applicazione – io l’ho fatto alla mia maniera con i comandi manuali in Linux, ma qualsiasi sistema usiate, aprite la cartella – Finder in Mac, Explorer in Windows e quello che avete in Linux (tipo Nautilus) – e cliccate sull’icona di Hot Potatoes. Chi ha Windows può anche scaricare il programma per Windows anziché la versione in Java.

Vi appaiono delle patate etichettate. Io ho scelto quella JQuiz. Viene fuori una finestra che consente di fabbricare il quiz. Ne ho fatto uno banale poi ho scelto dal menu il comando File->Export->Create Standard V6 Page. Potete scegliere il nome di quello che sarà un file HTML da piazzare dove volete voi nel vostro disco.

Andate nel browser e aprite questo file come avete già fatto in alcuni esercizi passati: Ecco il vostro quiz!

Poi sono andato nel mio blog in Blogger che uso per fare prove del genere, ho creato un post, mi sono messo in modo HTML (occhio, non dimenticare!) e ci ho schiaffato il codice così com’è. Poi l’ho un po’ editato per personalizzarlo. Così avete un esempio per fare esercizi: ecco come viene. Non lo fate in WordPress.com: non funzionerebbe perché strappa tutto il codice che funziona, per i motivi di sicurezza che abbiamo già discusso.

Buon divertimento!

È – #loptis

Post iniziato ma poi perso ascoltando storie di Olocausto alla radio. Rinnovato orrore e sgomento – impossibile continuare. Lo lascio così, ridotto ai minimi termini – quel che può servire.


Antonella ha scritto

Mi piacerebbe ora capire come si fanno le “e” con l’accento maiuscole: non sopporto vedere l’apostrofo in sostituzione dell’accento

È dura, ma dobbiamo fare tutto il possibile affinché i nuovi media siano occasione di crescita anziché di regresso. E siamo convinti che la Qualità inizi dai dettagli.

Quindi grazie per la domanda, Antonella. Grazie anche per avere dato un’altra botta all’articolo da tradurre e discutere, come ricordato nel medesimo commento.

Avevo citato qualche tempo fa la questione delle vocali maiuscole accentate, ma non ho più voluto imporre la cosa, preferendo affrontarla quando qualcuno l’avesse richiesto esplicitamente. Naturalmente il caso di gran lunga più rilevante in italiano è quello della lettera È, che può facilmente apparire all’inizio di una frase.

Purtroppo non c’è una risposta semplice egualmente valida per tutti i sistemi.

Linux

foto del tasto di blocco delle maiuscole È il caso migliore: prima premere il tasto Caps Lock, poi premere la lettera accentata corrispondente. Caps Lock sta per Capitals Lock: blocco delle maiuscole. Talvolta è rappresentato da una freccia in su.

Non so se questa caratteristica è presente su tutte le distribuzioni di Linux. Sicuramente su Debian, Ubuntu e WiildOs che sono quelle che ho sottomano. Mi pare anche su Slackware, ma sono diversi anni che non l’ho più usata.

Windows e Mac

Per non farsi venire il mal di testa, e considerato che i più utilizzano correntemente programmi di Word processing come Writer di Libreoffice o Openoffice, o Word di Microsoft, la cosa più semplice è di utilizzare questi per fare le maiuscole.  Infatti questi programmi, quando si scrive una lettera accentata dopo un accapo o dopo un punto e uno spazio – … bla bla. È vero che bla bla … – trasformano automaticamente le minuscole accentate nel corrispondente maiuscolo corretto.

Altri modi con Windows…

Codici con il tasto Alt

Si possono rappresentare una varietà di simboli inusuali con combinazioni del tipo Alt+0200 – questa è la combinazione che dà luogo alla lettera È,  la si ottiene tenendo premuto con un dito il tasto Alt, e con un altro dito premendo in successione i codici 0, 2, 0 e 0; la lettera È appare quando il primo dito lascia il tasto Alt.

Un po’ macchinoso, specialmente con le tastiere compresse dei portatili, che non hanno il tastierino numerico separato, sulla sinistra. In questi casi, il tastierino numerico si può realizzare con l’attivazione del tasto speciale (di solito blu) che si chiama NumLock – o qualcosa del genere; con questo tipo di blocco premendo i tasti m, j, k, l, u, i, o, 7, 8, 9, si ottengono i numeri 0, 1 , 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 rispettivamente.

Applicazione mappa dei caratteri

In Windows c’è un’applicazione che si chiama Mappa Caratteri (CharacterMap). Si trova in Start e poi digitando Mappa Caratteri. In questa applicazione è facile copiare i singoli caratteri per poi incollarli dove si vuole.

Altri modi con Mac OSX

Codici con il tasto Alt

Ha già risposto Claude per quanto riguarda la lettera È:

Per la “È”, dipende dalla tastiera che usi: sulle tastiere “Italiano” e “Italiano PRO” (che cavolo sarà?) dei Mac, si fa con Majuscola+Alt+E. Sugli altri computer non lo so.

Altro trucco: copi quella È da questo commento, te la incolli in un file che salvi sulla scrivania, poi quando scrivi batti quella E’ che non ti piace. Alla fine del testo vai a ripescare quella È nel file salvato, poi fai “Cerca E’ e cambia in È”, poi: “Cambia dapertutto”

Applicazione mappa dei caratteri

Anche nel Mac c’è un’applicazione analoga. La si può attivare dal menu Modifica->Caratteri Speciali di molte applicazioni, oppure con la combinazione di tasti Opzione+Comando+t – il tasto Comando è quello con la mela, o una sorta di quadrifoglio, il tasto Opzione è il tasto Alt.

La rivoluzione digitale e il sogno di Adriano Olivetti – #loptis

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Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione
la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero,
materialmente più fascinoso, e spiritualmente più elevato.
Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi,
vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza,
il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza,
il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo,
la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione,
la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.
Adriano Olivetti


Nel 1969 l’uomo ha messo piede sulla luna grazie al computer digitale. I supercomputer della NASA erano gestiti da 3500 specialisti dell’IBM. E solo la presenza di un innovativo piccolo computer (Apollo Guidance Computer) a bordo della navicella poteva garantire aggancio e sgancio dell’orbita lunare:

“Se la terra fosse un pallone da basket e la luna una palla da tennis a 4 o 5 metri di distanza, il corridoio disponibile per tornare sulla terra avrebbe lo spessore di un foglio di carta”

spiegò l’astronauta Scott in una conferenza. Non sarebbe mai stato possibile tornare guidando la navicella a mano. Se da un lato la navicella era guidata da un computer, gli astronauti, quando dovevano fare conti a bordo, usavano ancora il regolo calcolatore – congegno squisitamente analogico. Insomma il digitale era lì che colonizzava territorio, un pezzo qua uno là.

Se, negli anni 1974-1978, studiavi fisica in Italia, lo facevi ancora in un mondo analogico, del bit nemmeno una traccia in 18 esami. Poi magari, il lavoro di tesi lo facevi tutto sul computer. Studiavi analogico, ti laureavi digitale. Un periodo schizofrenico: i professori nel 1974 ti facevano comprare il regolo calcolatore, ma quando li andavi a trovare nei laboratori, loro erano tutti già chini sulle tastiere – il regolo nel taschino della giacca – a far software o scrivere email ai colleghi in America. Strano periodo quello. Poi già nel 1977, tu che ti volevi laureare, il regolo calcolatore ormai nel cassetto, andavi a rovistare nei manuali dei computer, perché, che tu ti occupassi di sperimentale o di teorico, passava già tutto dal computer. Chi metteva le mani su un manuale trovato per caso, chi aveva il babbo con i libri giusti o che sapeva dire dove andare a trovarli, poteva fare miracoli in confronto agli altri. Troppo repentini i mutamenti, il sistema non riusciva a seguirli. Ti dovevi arrangiare.

Intanto le case erano teatro di frenetici susseguirsi di traslochi: i vinili – regalmente analogici – che nel corso del boom economico avevano riempito le stanze, in quattro e quattr’otto se ne andarono in soffitta per far posto ai CD – già digitali – e alle videocassette VHS – queste analogiche, perché per l’informazione bulimica dei video il digitale non era ancora pronto. Ma lo fu presto: arrivarono i DVD che in un battibaleno mandarono anche i nastri VHS in soffitta.

Guarda Andrea, non male questa foto digitale, vero? – mi fece un amico una quindicina d’anni fa, anche lui affezionato alla sua vecchia Pentax MX. In effetti a prima vista non era affatto male, ma se la guardavi da vicino vedevi i pixel [1]. Oggi vai a trovarla una macchina fotografica analogica…

E così, il digitale avanza inesorabile, percola, tracima, inonda ogni possibile supporto. Perfonde istantaneamente internet, la rete delle reti, fatte di rame, fibre ottiche e radio frequenze, portando di tutto – musica, immagini video, TV – generando dialogo, discussione, invenzione, salvazione – progetti straordinari, creati nel Sud per alleviare le sofferenze del Sud e poi usati anche nelle emergenze del Nord, come Ushahidi[2].

Ma cos’è veramente il digitale? Digitale, discreto, analogico, continuo, proviamo a chiarirci un po’ le idee. Rispondendo a bruciapelo alla domanda su cosa siano digitale e analogico, di solito si risponde citando l’orologio: se vedi numeri è digitale, se vedi lancette è analogico – ma è una risposta troppo superficiale e non sarebbe male approfondire. Proviamoci, senza esagerare, chiedendo venia ad eventuali matematici di passaggio, cercando soprattutto di concludere su qualcosa di concreto.

Per fare un ragionamento minimamente solido occorre partire dalle nozioni di discreto e continuo, e la clemenza ai matematici la chiediamo per la leggerezza alla quale non vorremmo rinunciare.

Tutti siamo abituati ad usare i numeri con la virgola, e sappiamo che aggiungendo ulteriori cifre dopo di essa si possono esprimere valori con maggior precisione: la differenza fra 2.00 e 2.01 è più piccola di quella che c’è fra 2.0 e 2.1. Non si fatica poi a immaginare differenze piccole quanto vogliamo, utilizzando un adeguato numero di cifre dopo la virgola. Qui l’uomo pratico si accontenta, il matematico invece no, e si domanda – ma questo processo ha una fine? O possiamo continuare all’infinito? Parrebbe una domanda oziosa, ma è la capacità di rispondere a domande del genere che rende saldo tutto l’edificio matematico e, conseguentemente, tutto il complesso delle scienze che esso sostiene. La matematica è l’unica vera magia di cui dispone l’uomo. In particolare è l’analisi matematica che consente di baloccarsi con assoluti come l’infinito e l’infinitesimo – quella dei numeri reali, delle derivate e degli integrali, per intendersi. È la matematica nata per descrivere quella natura che non facit saltus. È costata molta fatica, tant’è che è relativamente recente. Ne gettarono le basi Newton e Leibniz 350 anni fa. Il primo per il “semplice” motivo che aveva bisogno dello strumento matematico per risolvere le equazioni della gravitazione – siccome mancava se lo fabbricò – il secondo dal canto suo si faceva mancare poco in fatto di curiosità matematiche, infatti oltre che delle basi del “continuo” si occupò anche di quelle del “discreto”, discutendo vari aspetti collegati al calcolo binario.

Il continuo è ciò che non ha lacune o interruzioni di sorta. Lo strumento matematico per descrivere compiutamente il continuo è costituito dall’insieme dei numeri reali. Ci basti questo per descriverli: per vicini che io scelga due numeri reali, fra di essi ve ne saranno sempre infiniti altri. In tutta la trattazione della fisica classica le grandezze fisiche sono descritte da numeri reali. Quando per esempio scriviamo la legge di Kirkhoff per un semplice circuito elettrico con una sola resistenza:

V=Ri

si intende che le grandezze coinvolte, la tensione V, la resistenza R e la corrente i, siano espresse come numeri reali. Quando i circuiti si complicano e si arricchiscono di altri elementi, le equazioni che ne descrivono i comportamenti possono essere risolti grazie ai solidi fondamenti dell’analisi matematica che sostengono tutto l’edificio teorico.

Una gran parte di mondo è stato descritto con questi metodi, a partire dai giorni di Newton e Leibniz, ma non tutto – tanto dal nostro punto di vista, assai poco dal punto di vista della Natura. Il passo compiuto da Newton, che consentì di descrivere i movimenti dei corpi celesti, fu un passo enorme per l’umanità, ma quel passo consentiva di risolvere un problema di meccanica celeste solo se i corpi coinvolti sono due! Per risolvere il problema dei tre corpi sono occorsi i tre secoli successivi…

In realtà, per quanto mirabili e potenti, gli strumenti dell’analisi matematica consentono di risolvere solo una parte dei problemi possibili, e spesso tutto quello che si può fare è impostare compiutamente il problema – e questo è già molto utile – ma non risolverlo. Che vuol dire di preciso? Impostare il problema vuol dire arrivare a scrivere qualcosa del tipo y=ax, e risolverlo vuol dire essere in grado di ricavare x, che in questo banale caso vuol dire scrivere x=y/a. Ecco, questo non si può fare sempre e, in questi casi, prima dell’avvento delle macchine digitali il discorso finiva qui. Magari, si trovava una soluzione qualche secolo dopo.

Qui può soccorrere un’altra potente magia, l’analisi numerica, con il suo vasto armamentario di metodi per la soluzione approssimata dei problemi. In certi casi e in certe condizioni può anche trovare soluzioni esatte, in particolare per la vastissima categoria di problemi che possono essere espressi dai sistemi di equazioni lineari. Vi ricordate i sistemi di equazioni? Ecco il più semplice possibile:

\begin{cases} y_1 = ax_1+bx_2 \\ y_2 = cx_1+dx_2 \end{cases}

Probabile che qualcuno si ricordi qualche metodo di soluzione. Non è difficile ma le cose si complicano a dismisura quando il numero delle incognite x1, x2,… cresce, magari verso milioni o miliardi, quando i dati sperimentali y1, y2,… sono insufficienti oppure sono gravati da errori di misura, allora i metodi diventano nuovamente approssimati.

L’analisi numerica, andava così sobbollendo lentamente da una decina e più di secoli, faticosamente tentando di trasformare l’impossibile in possibile, grazie all’opera tenace di uomini geniali, che si sacrificarono gli occhi alla tenue luce dei moccoli, pazientemente fabbricando tavole numeriche e approssimazioni. Poi arrivarono le macchine digitali. Oggi l’attributo digitale sembra pleonastico, ma negli anni 50 non era ancora per nulla chiaro quale fosse la via da intraprendere, quella del digitale o dell’analogico. Furono alcuni grandi matematici ad intuire le potenzialità delle tecnologie digitali: Alan Mathison Turing fu colui che riconobbe prima e più di ogni altro le potenzialità delle nuove macchine, John von Neumann ne tracciò l’architettura, Claude Elwood Shannon scrisse i fondamenti della teoria dell’informazione, che spiega quanta informazione può passare attraverso un qualsiasi canale trasmissivo.

I contributi fondamentali di questi uomini sono apparsi fra gli anni 40 e 50. Da lì è stata tutta un’esplosione. Appena l’analisi numerica e le macchine digitali sono entrate in contatto, una frustata violenta ha proiettato l’uomo sulla luna, creato macchine che disegnano anatomia e funzione degli organi umani, collegato l’umanità in una rete di comunicazioni quasi istantanee, estesa questa fino alle mere cose – l’Internet delle cose. Nessuno può prevedere cosa possa succedere nei prossimi anni, specialmente gli esperti…

“Questo è un prodotto educativo, non un gioco. Non è adatto per bambini sotto gli 8 anni di età.” Otto anni! Ho comprato un microcontrollore – 20 volte più potente dell‘Apollo Guidance Computer – che si può usare da 8 anni in poi. Precoci questi ragazzi…

Eccolo, ce ne starebbero due nel palmo della mano. C’è una sorta di bugiardino, con varie informazioni in inglese, fra cui:

“Questa scheda è stata prodotta, assemblata e testata in Italia. Il circuito stampato è italiano e tutte le fasi di fabbricazione, assemblaggio, test e confezionamento hanno avuto luogo interamente in Italia. Mettiamo in evidenza la fabbricazione italiana perché in questo mondo globalizzato, la ricerca del minimo prezzo possibile implica condizioni di lavoro degradate e salari bassi per i lavoratori che producono questi oggetti. Almeno così siete a conoscenza del fatto che coloro che hanno fabbricato la vostra scheda sono stati pagati ragionevolmente e che hanno lavorato in un ambiente sicuro.”

Troppo spesso la realizzazione e l’offerta a “prezzi competitivi” delle macchine meravigliose che tutti usiamo nasconde lo sfruttamento disumano delle persone che le fabbricano, delle risorse naturali che occorrono, e dei popoli cui queste vengono scorrettamente sottratte. Il link che ho proposto conduce a un articolo in inglese. In estrema sintesi, l’articolo denuncia condizioni di lavoro inaccettabili non solo nella ormai nota Foxconn, ma anche e forse anche più nel vasto indotto che concorre alla produzione delle macchine Apple. Fra i fatti emersi: in Cina la legge prevede un massimo di 36 ore di straordinario al mese, la norma di fatto è 100-130, nei periodi di punta si arriva a 180 ore al mese. Spesso si lavora in ambienti saturi di polveri metalliche, e privi di adeguati impianti di ventilazione. Il più delle volte le soste per recarsi alla toilette sono severamente limitate – ci sono storie di gente la fa nei sacchetti. I salari sono sempre congelati ai minimi: circa $200 al mese. Di solito la gente con questi salari non ce la fa a vivere nelle aree urbane dove si trovano gli impianti di produzione; ciò impone loro di sottoporsi ad un pesante pendolarismo. Si lavora 11 ore al giorno, inclusi i weekend e le ferie, nei periodi di punta della produzione – per esempio prima di uno di quei lanci che ci solleticano tanto; un giorno libero al mese, ma non nei periodi di punta; alle linee di montaggio si sta in piedi tutto il giorno, la pausa pranzo è di 30 minuti. Alcune fabbriche non contribuiscono all’assicurazione sociale dei lavoratori e non pagano interamente gli straordinari, anche per nasconderne l’abuso.

Il mondo è andato da un’altra parte rispetto al sogno di Adriano Olivetti.

arduino-fronteil microcontrollore arduino - retro

Ma continuiamo a esplorare. Sul retro della scheda c’è scritto “open-source electronics” – ma che significa un manufatto open source? Abbiamo visto che esiste il software libero, che è etico usarlo, ridistribuirlo e, volendo e potendo, modificarlo. Abbiamo visto che anche gli strumenti per scriverlo sono liberamente disponibili, e tutta la documentazione che si vuole e un’infinità di esempi. E anche che c’è un mondo di gente disposta ad aiutare, la rete è piena di forum dove si domanda e si risponde – su questioni tecniche, anche se accessibili a chiunque sia dotato di buona volontà, non sto parlando di Facebook o simili. Insomma, un intero mondo disponibile. Il mondo del software libero. Ma tutto questo si comprende bene perché i bit viaggiano in rete, ma questa scheda? Non ne ho scaricato gli atomi ma sono andato a comprarla, al massimo l’avrei potuta ordinare online ma poi ci sarebbe comunque voluto un corriere per portarmela a casa.

L’hardware open-source nel caso di Arduino (pagina in italiano) funziona così: Massimo Banzi e i suoi collaboratori hanno subito messo in rete gli schemi di tutte le versioni di Arduino che hanno creato – solo il nome Arduino è protetto da diritto d’autore, il resto viene distribuito con varie licenze di tipo open. Poi, chi vuole entrare in possesso della scheda, la può comprare, magari ordinandola online, e non necessariamente attraverso Amazon, per esempio anche qui. Il modello più diffuso, Arduino UNO, costa € 24.50. Lo Starter Kit, con il quale mi sto giusto baloccando, € 95.00.

Una bellissima storia italiana. Ma fatevela raccontare da Massimo Banzi stesso – intanto io continuo a giocare…

… son qui che frugo nella scatolina dei componenti che sono tutto quello che serve per realizzare uno dei 15 progetti proposti nel libro incluso nella confezione. Un po’ frugo fra i pezzi, un po’ scartabello questo intelligente libretto – questa cosa ha un valore educativo straordinario. Me la immagino a Barbiana, in mano a Don Milani, mi vengono le vertigini… torniamo con i piedi per terra. Questo per esempio, così piccolo da parere insignificante, eppure è un sensore di temperatura, tre piedini dice il libro: uno lo metti al meno, uno al più, e sul terzo leggi la tensione, che sarà, garantisce, proporzionale alla temperatura dell’ambiente. Propone di andare a vedere a vedere il datasheet, si chiama TMP36GS: mi ci fiondo – roba professionale, componenti veri per un gioco educativo da 8 anni in su, fantastico…

un componente elettronico sensore di temperatura

Strano, un passato che credevo ormai perso s’intreccia con un presente che credevo di tutt’altro genere. Affascinante. Leggo le specifiche e leggo il librino – anche se quest’ultimo basterebbe – il terzo piedino del sensore dà una tensione proporzionale alla temperatura. Cioè, è uno strumento analogico. Ok, la maggior parte degli strumenti di misura sono analogici – non tutti, non un contatore Geyger per esempio; sarebbe interessante appronfondire, ma non ci disperdiamo troppo ora – vale a dire che mostrano una quantità visibile che si muove in analogia con quella che vogliamo misurare: l’altezza della colonnina di alcol nel termometro, quella della colonna di mercurio nel barometro di Torricelli, la lancetta della bilancia a molla e via e via fino alla tensione che si può leggere (con un apposito strumento) sul terzo piedino di questo sensore di temperatura. Fin qui, del digitale non v’è traccia, ma tranquilli, ora arriva Arduino!

Arduino è un microcontrollore, vale a dire una sorta di computer, e come tale capisce solo la lingua digitale. Somministrargli una tensione che possa assumere un qualsiasi valore, seppur compreso fra un minimo e un massimo, è come dare una bistecca a una mucca, non sa che farsene. Eppure, qualcuno avrà notato che sulla scheda, in basso, ci sono 6 ingressi, A0, A1, A2, A3, A4, A5, denominati “ANALOG IN”. Allora tutto questo fa pensare che in quegli ingressi si possano inserire segnali analogici. Effettivamente sì, ma questo è possibile perché la prima cosa che Arduino fa, quando sente arrivare qualcosa da quegli ingressi, è di somministrare il valore di tensione ad un componente che si chiama Analog to Digital Converter (ADC). L’ADC trasforma un livello di tensione in un numero il cui valore è proporzionale al valore della tensione in ingresso. Rimane da capire cos’è un numero per un microcontrollore.

Gli ADC di Arduino forniscono un numero che vale 0 se le tensione d’ingresso è 0 e 1023 se la tensione è massima, quindi un numero che può assumere 1024 valori distinti. Questi valori vanno espressi in binario perché i micropocessori lavorano solo con numeri binari. A noi può parere assurdo – io per esempio ho 111011 anni – invece le macchine elettroniche sono più efficenti se lavorano in binario. Con questo sistema ogni cifra può assumere solo i valori 0 e 1. Questa minima unità d’informazione si chiama bit. Quindi con un bit io posso rappresentare due numeri, 0 e 1, due possibilità. Se a fianco del primo aggiungo un altro bit, anche questo avrà due possibilità, che combinate con le precedenti mi darà: 00, 01, 10 e 11, ovvero 2 x 2 = 4 possibili numeri. Insomma, ogni volta che aggiungo un bit moltiplico per due le possibilità, quindi:

Numero di bit Numero possibilità
1 2
2 4
3 8
4 16
5 32
6 64
7 128
8 256
9 512
10 1024
n 2n

Abbiamo segnato in rosso il caso di 8 bit e quello di 10 bit. Il primo, già che ci siamo, perché 8 bit formano un byte, quindi con un byte possiamo rappresentare 256 oggetti, ovvero i numeri da 0 a 256. Il caso di 10 bit perché 1024 è proprio quello che cercavamo: 10 bit sono idonei ad accogliere l’uscita degli ADC di Arduino. In fondo, sempre già che ci siamo, abbiamo messo la formula che consente di calcolare direttamente il contenuto di n bit. Chi ama i voli pindarici può andare a leggere questo in proposito.

Ricapitoliamo un po’ di fatti. Il computer è una macchina digitale, cioè una macchina capace solo di lavorare con informazione numerica espressa in formato binario. Certo, dal nostro punto di vista il computer processa testi e numeri, in formato decimale o anche altri formati. Ma in realtà ogni volta che noi introduciamo un dato, questo viene sempre tradotto in un suo equivalente binario, attraverso una ben precisa codifica e, viceversa, quando il computer ci fornisce dei dati, lo fa dopo avere tradotto la sua versione binaria in quelle testuali o numeriche che ci servono. Ma al suo interno ci sono sempre e solo 0 e 1. Il cuore di un computer è il microprocessore, di solito supportato da una serie di altri circuiti integrati che lo supportano, soprattutto per la comunicazione con il mondo esterno, ma il grosso delle operazioni avviene nel microprocessore. Tuttavia oggi tante funzionalità tipiche dei computer sono finite in una miriade di congegni, si potrebbe dire quasi tutto. In tal caso si tratta di macchine che pur avendo potenzialità simili a quelle di un microprocessore sono dedicate a particolari categorie di scopi, e contengono più componenti di un microprocessore, in maniera da essere già ben miniaturizzate per essere incluse (embedded) in altri sistemi – tipo l’ABS dell’automobile – questi sono i microcontrollori. Arduino è un microcontrollore, basato a sua volta su un altro microcontrollore che si chiama ATmega328. Il mondo oggi è fatto di questa roba, roba rigorosamente digitale, nella quale il mondo matematico dell’analisi numerica ha trovato il suo elemento naturale, consentendo di realizzare quelli che fino a poco tempo fa ci sarebbero sembrati veri e propri miracoli.

Torniamo al tavolo, mi piacerebbe provare subito a usare questo sensore di temperatura, ma forse è meglio orientarci su un esempio minimale, che ci consenta di capire bene dove si annidino, le straordinarie potenzialità del mondo digitale.

Non c’è bisogno di essere ingegneri per capire questo circuito: una batteria alimenta con la tensione V un LED, che viene comandato con un interruttore. Il circuito ha una resistenza elettrica R e, stante questa situazione, è attraversato dalla corrente i, purché l’interruttore sia chiuso! Quindi, con questo circuito si può accendere e spengere il LED con l’interruttore. Altro non si può fare.

circuito elettrico di alimentazione di un led luminoso, sono specificati i simboli di corrente, tensione e resistenza elettrica

Fabbrichiamo la stessa cosa con una scheda Arduino. Lo schema mostra quel tanto che basta per capire i fatti fondamentali. Arduino è in grado di fornire la corrente per accendere il LED. È anche in grado di “ascoltare” un pulsante, mandandoci una corrente dentro e controllando se torna dall’altra parte. Quindi? C’è il codice, il software. Ecco cosa fa un microcontrollore: ascolta uno o più sensori e poi, a seconda di quello che sente, esegue certe operazioni. Questo processo viene “insegnato” al microcontrollore: prima viene preparato in un normale computer e poi scaricato nel microcontrollore – nel caso di Arduino attraverso un semplice collegamento USB. Nel nostro esempio il software sarà molto semplice: se Arduino sente che l’interruttore è chiuso – passa corrente – allora darà a sua volta corrente al LED.

realizzazione di un circuito che accende un led luminoso tramite il microcontrollore arduino
Questo è uno schema che serve a capire il concetto, non illustra i collegamenti

Potrà sembrare di avere ammazzato la zanzara con il cannone ma è proprio qui che viene il bello. Una volta fatto il circuito, sul software possiamo fare quello che vogliamo, cambiando gli effetti dell’interruttore. Per esempio potremmo far sì che il LED lampeggi con frequenza di un secondo quando l’interruttore è chiuso e con una frequenza di due secondi quando è aperto. Voi capite che a questo punto possiamo immaginare un’infinità di schemi.

E soprattutto ci possiamo rendere conto di come ormai il digitale abbia raggiunto le cose. Ricevere un tweet quando la terra delle nostre piante è troppo secca, fabbricare un distributore che renda accessibili i croccantini medicati solo al gatto malato e non a quello sano, fare un esperimento spaziale inviando il proprio software all’Arduino montato sull’ultimo satellite, non sono fantasie ma cose possibili.

Roba da specialisti? Al minuto 2’51” del video precedente Massimo Banzi dice:

“Come creare cose che anche un bambino può usare?Con Arduino abbiamo bambini come Sylvia che vedete qui,che realizzano progetti con Arduino e ragazzini di 11 anni che mi fanno vedere quello che hanno costruito con Arduino ed è spaventoso vedere le capacità dei ragazzi quando si danno loro gli strumenti.”

Sull’Arduino Starter Kit c’è scritto da 8 anni in poi. Non è un’esagerazione.

Si possono immaginare azioni didattiche ricchissime, alla Don Milani. Su un esperimento con Arduino si possono innestare ragionamenti di fisica, matematica, logica, economia, tecnologia, storia, arte; si lavora con le mani, vivaddio; ci si confronta con la realtà. Azioni, multidisciplinari, trasversali. Esattamente ciò che manca a una formazione burocratizzata, soffocata nei recinti disciplinari. Mera istruzione, insufficiente per conoscere il mondo, ma pare anche per lavorare. Il 15 gennaio scorso alla radio, nella rassegna stampa del mattino si riferiva di un articolo apparso sul Corriere della Sera sul tema: giovani italiani istruiti ma impreparati al lavoro.

“… la realizzazione di questo primo calcolatore prodotto dalla industria italiana s’inquadra in un significato più aperto cui ci sentiamo profondamente legati e per l’oggi e per il futuro, ove si guardi per un istante indietro alle vicende che hanno portato la civiltà tecnica contemporanea alle attuali concrete attuazioni nel campo dell’elettronica.

Mi sia consentito perciò ricordare brevemente alcune tappe di tale, ancora recente cammino. Durava ancora la guerra quando avvenne in America quell’incontro fra due liberi scienziati, Il prof. Turing, inglese, e il prof. John von Neumann, americano, incontro che segna in effetti l’inizio degli studi logico-matematici dei calcolatori elettronici nel senso attuale della denominazione.

Le prime esperienze furono intraprese presso le univeristà di Princeton, Pennsylvania e di Illinois, e al di qua dell’Atlantico, a Manchester e Cambridge. Esse ebbero soprattutto carattere teorico-scientifico. Infatti gli apparati elettronici allora concepiti dovevano servire per la soluzione numerica di problemi matematici e per lo studio della logica simbolica.

Parallelamente l’industria americana, sempre in stretto rapporto con la ricerca accademica, procedeva alle prime attuazioni pratiche, anche esse a carattere sperimentale prototipico. Si passava così dalle tecniche di programmazione delle macchine a schede, combinate con circuiti di tipo impulsivo già usati nelle apparecchiature radar, ai sistemi dotati di memoria magnetica e di unità periferiche automatiche che caratterizzano l’attuale produzione mondiale.

Queste prime realizzazioni furono di immenso ausilio per la verifica e la soluzione di complessi problemi teorici, ma già esse portarono a pratici perfezionamenti nelle più diverse discipline; dalla statistica all’astronomia, dalla balistica alla meccanica.

Ma gli scienziati, coloro che promossero e realizzarono concretamente le prime macchine a logica elettronica, raddoppiarono il loro merito nei confronti dell’umanità facendo in modo che i risultati della loro attività fossero resi immediatamente accessibili per il comune sviluppo economico e sociale. I ritrovati tecnici e le ricerche teoriche furono subito ampiamente illustrati e messi a disposizione di altri sperimentatori, di operatori e di produttori, escludendo protezioni, privative, brevetti. Il progresso umano trasse da questa generosa disposizione un impulso potente, di cui vediamo ogni giorno nuovi e prodigiosi frutti. Questa circostanza rievoca nella nostra mente una felice definizione della scienza e della cultura come ricerca disinteressata della verità.”

Discorso pronunciato da Adriano Olivetti a Milano l’8 novembre 1959 in occasione della presentazione del calcolatore Olivetti Elea 9003 al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, tratto da Il mondo che nasce, Adriano Olivetti, Edizioni Comunità, 2013, Ivrea. Consigliamo di acquistare e leggere questa o altre opere di Olivetti.

Una cosa deve essere chiara. La rivoluzione del digitale, come tutte le conquiste del passato, è un’occasione. Come al solito, l’occasione si può cogliere non certo sentenziando e scandalizzandosi del negativo – che in tutte le cose umane c’è e ci sarà sempre, ma studiando e costruendo il positivo. E deve essere altrettanto chiaro che qualsiasi conquista scientifica e qualsiasi creazione tecnologica può dare i frutti sperati solo in un’ampia visione umanistica, come quella proposta da Adriano Olivetti.

L’Italia c’era, nel modo giusto al momento giusto. Poi è andata in un’altra maniera. Ma i semi buoni germogliano sempre, si tratta di riconoscere tali germogli e di prendersene cura, una cosa che possiamo fare tutti, nel proprio ambito, come abbiamo tentato di illustrare in questo articolo. Nel senso illustrato da Baricco nell’epigrafe del laboratorio:

“Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo.”


[1] Pixel: sta per picture element, elemento dell’immagine. Nelle macchine digitali le immagini sono rappresentate da una scacchiera di piccoli rettangoli, di solito quadrati. Se guardate abbastanza da vicino l’immagine, vedete che ogni quadratino è dipinto in maniera uniforme, vuoi che sia un livello di grigio, vuoi un colore. Se è rosso è tutto ugualmente rosso. La cosa funziona se i quadratini sono così piccoli che non si vedono più. Questo dal punto di vista dell’osservatore. Se invece ci mettiamo nei panni del computer, un’immagine digitale è semplicemente una fila di numeri, tanti quanti sono i pixel in cui è suddivisa l’immagine. Quando il computer la deve rappresentare su un qualche supporto – monitor, stampa… – allora legge i numeri a partire dal primo e decodifica ciascuno di essi in maniera da produrre l’effetto dovuto, in termini di colore e intensità, poi li “scrive” nello spazio dell’immagine come facciamo noi nelle lingue occidentali: da sinistra a destra, dall’alto al basso.

[2] “Ushahidi”, che significa “testimone” in Swahili, era il nome del sito web che fu sviluppato per costruire una mappa online degli episodi di violenza in Kenya durante i disordini che seguirono le lezioni all’inizio del 2008. L’ideatrice fu Ory Okollow, una donna di umili origini nata e cesciuta in Kenia. La sua famiglia riuscì a stento a mandarla in una scuola elementare privata. Si è laureata in legge a Harvard per poi rinunciato a una brillante carriera in uno studio legale americano per vivere e lavorare in Africa. Il sito web Ushahidi raccoglieva notizie pervenute da tutto il paese attraverso il web o i telefoni cellulari. Il sito aggregò rapidamente la collaborazione di 45000 persone. Sulla base di questa successo il sistema è stato sviluppato ulteriormente e oggi reso disponibile secondo lo spirito dell’open-source a chiunque lo voglia usare in situazioni di grave emergenza, come per esempio si è verificato nel caso del terremoto di Haiti.

Studiare e poi fare è più difficile che studiare e basta – #loptis

Sì, mettiamola così: studiare e poi fare è più difficile che studiare e basta.

Agire in ambienti nuovi, in collaborazione, e per di più online, può risultare difficile e può dare la sensazione di procedere lentamente – il tempo ossessiona un po’ tutti – è difficile per coloro che giocano il ruolo di studenti ma anche per coloro che fanno i docenti.

Il nostro proposito è quello di farsi beffe del tempo e di concentrarsi invece sulla qualità. Lavorare bene, quando possibile. Se volete, è un modo intelligente di frenare quella che è sempre più una corsa insensata – non si sa poi verso cosa.

Abbiamo due lavori in corso. Vorremmo che venissero bene, anche se ci vuole più tempo, anche se nel frattempo metteremo qualche altro piatto in tavola. I lavori sono:

  1. La traduzione collaborativa di un articolo sull’espansione della zona di capacità riflessiva di un gruppo di insegnanti – pagina wikiarticolo originale (pdf)
  2. la raccolta di pratiche tecnologiche a scuola – pagina wiki

Per quanto riguarda la traduzione collaborativa, in realtà il lavoro è andato molto avanti anche se con delle fasi caotiche e qualche pasticcio nella gestione delle pagine, anche per colpa mia, che non sono proprio uno preciso. Stamani ho provato a ristrutturare un po’, grazie anche ai suggerimenti di Claude, sempre solerte e immaginifica.

Fra le novità, Martina e Claude hanno creato un glossario di termini difficili da tradurre alla prima. Uno strumento che può servire a riflettere e a negoziare la traduzione più appropriata.

Questo è il link del modulo per inviare un termine e le relative informazioni: http://goo.gl/ATXV5D

Questo è il link del glossario vero e proprio, al punto in cui si trova ora: http://goo.gl/FHL6m6

Per quanto concerne invece la raccolta di pratiche tecnologiche nella scuola, abbiamo raccolto 5 contributi sino ad ora, a parte il mio che fungeva da suggerimento.

Può essere che ad un certo punto ritroviate i vostri contributi rimaneggiati graficamente oppure spostati. Questo può succedere in seguito al mio lavoro di “giardinaggio” del wiki e di mantenimento dell’ordine cronologico dei contributi. In seguito vedremo se sarà il caso di riorganizzare altrimenti la pagina.

Invito vivamente coloro che possono farlo ad aggiungere i loro contributi. Credo che le esperienze dei colleghi siano un incentivo formidabile per altri che desiderino cimentarsi nella sperimentazione di nuovi metodi.

Perseveriamo.

Recuperando valore – un secondo progetto – #loptis

Parallelamente alla traduzione del paper in inglese vorrei proporre una seconda attività in collaborazione. L’idea è venuta all’inizio di novembre, leggendo i commenti al post Lo screenshot: ho fatto il blog di classe – io ho usato il flipping – anch’io il blog…

Anche solamente due o tre anni fa questo non sarebbe successo. Oggi il mondo corre – non è mai stato fermo, anche se molti credono il contrario, ma ora corre proprio. Bisogna tenerne conto, come bisogna tener conto del fatto che ti puoi ritrovare valore dove non te lo saresti aspettato, magari valore in quantità, che sarebbe sciocco trascurare. Ecco quindi l’idea di comporre insieme un quadro delle esperienze compiute e di quelle che sono ancora in corso.

Ho aperto una nuova pagina wiki per ospitare questo secondo lavoro: Pratiche tecnologiche a scuola. A titolo di esempio ci ho messo quella che potrebbe essere la descrizione delle mie attività, che ho strutturato nelle voci

  • Tecnologia
  • Metodo
  • Periodo (Attività in corso, terminata, periodica…)
  • Scuola
  • Classe
  • Lezione appresa

È solo una proposta che voi potete anche migliorare. In ogni caso invito coloro che hanno fatto delle esperienze del genere ad aggiungerle nella pagina wiki. Per ora si tratta di aggiungere il proprio contributo uno dietro l’altro, editando ammodino. Provvederemo successivamente a dare alla pagina una struttura adeguata.

Suggerisco di editare nel modo codice, almeno in parte: vi è maggiore garanzia che si riesca a fare un editing omogeneo. Per fare questo, cliccate in alto a destra su Edit. tasto edit di wikispaces

Poi sulla freccia a sinistra del tasto Save e, sul menu che si apre, Wikitext Editor. tasto wikitext editor in wikispaces

Andate in fondo al testo e aggiungete il vostro. Potere anche copiare pari pari il testo che ho messo qui, sotto la barra, alterandolo poi opportunamente.

Un consiglio. La reattività del wiki non è immediata, per noi che popoliamo la terra dalla banda stretta. Questo accade perché un bel po’ delle sue funzionalità sono realizzate mediante non poco codice Javascript che cala nel computer alla bisogna. Se i nostri beneamati governanti avessero investito un po’ di energie in pianificazione infrastrutturale a suo tempo (ormai un decina di anni fa e oltre), ora avremmo una cosa che si chiama banda larga e strumenti come questi funzionerebbero a razzo, ma così non è. Quindi? Beh, bisogna considerare prezioso ogni singolo clic: magari sembra che non succeda nulla ma lui – il computer – sta facendo del suo meglio per ciucciare gli agognati codici dai rubinetti striminziti delle italiche infrastrutture… cliccate, rilassatevi e abbiate fede, sempre…

Copiare da sotto la riga in poi…


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=Pinco Pallino=
==Tecnologia==
E qui viene la descrizione delle tecnologie usate.

==Metodo==
Qui il metodo

==Periodo==
===Attività in corso, terminata, periodica…===
Qui la durata dell’esperienza, se è ancora in corso oppure se è terminata, se avrà un seguito, se è divenuta routine eccetera.

==Scuola e classe==
Scuola…

==Lezione appresa==
Ogni tipo di considerazioni sugli esiti dell’esperienza

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