Inizia il II semestre

Premessa

Questo post non è una critica agli organi di governo dell’università. Non è nemmeno una critica agli uffici amministrativi e tecnici nei quali ho trovato persone che hanno cercato di darci una mano e che ringrazio ancora.

Questo post rappresenta uno spunto di riflessione sulla cronica inadeguatezza delle nostre istituzioni a seguire i mutamenti del mondo che si avvicendano ormai ad un ritmo vertiginoso. È quindi una riflessione che si riferisce ad un contesto e ad una cultura che caratterizzano un ambito ben più ampio di quello del singolo ateneo. Sta di fatto che il problema c’è ed è grave.

Antefatto

All’inizio del I semestre fui giustamente indotto da molti amici a trasferire le attività online per l’insegnamento dell’informatica di base sui server che l’ateneo ha deputato alle attività didattiche attinenti all’e-learning.

L’operazione è stata semplice e indolore ma l’impiego di questo sistema ha generato un problema cospicuo. In breve:

  1. Per poter utililizzare la piattaforma, il sistema di e-learning richiede a ciascun studente matricola e password assegnate dall’università per poter accedere ai servizi
  2. Per gli studenti di molti corsi di laurea la partecipazione ai servizi di e-learning risulta di fatto impossibile perché le complesse procedure di assegnazione degli studenti ai vari corsi di laurea ritardano l’attivazione delle password anche di molti mesi.

A causa di questa situazione nel corso del I semestre è stato necessario cambiare al volo le procedure previste dal corso cercando di salvaguardare al massimo la qualità dell’offerta didattica agli studenti.

Rimedio

Il problema concerne soprattuto il I semestre ma avendo capito che non sarà facile trovare una soluzione in tempi brevi ed essendo il mio compito primario di docente e ricercatore quello di perseguire tutte le occasioni di innovazioni, risolvo la questione sin da questo II semestre rinnovando ulteriormente l’architettura del corso secondo le più recenti proposte emerse a livello internazionale nel campo dell’applicazione delle tecnologie informatiche alla didattica. Il rinnovamento comporta lo spostamento del fulcro delle attività dall’interno di una piattaforma di e-learning all’esterno verso servizi WEB liberamente disponibili. Seguo in questo modo i più recenti suggerimenti di personaggi del calibro di David Wiley e Stephen Downes, giusto per menzionare gli esponenti di maggior rilievo. Un buon riassunto dell’argomento è stato scritto da Caterina Policaro. La nuova architettura si evince dalla descrizione del corso che si trova nelle pagine wiki del medesimo.

Ripresa della premessa

Ripeto. Mi rifaccio ad un antefatto preciso perché è esemplificativo e perché giova ragionare su cose concrete ma non vi è nessuna critica specifica nei confronti di nessuno. L’inadeguatezza che ho menzionato è strutturale e culturale. Riguarda tutti noi. Le considerazioni di Maria Grazia Fiore sulla valutazione nell’università sono un altro buon esempio.

Vi è la consuetudine di identificare l’innovazione con iniziative top-down che vengono subito istituzionalizzate, prima ancora che esse possano avere mosso i primi passi. Come dire: “Di questo bel neonato facciamo un grande ingegnere!”

Oggi questa è una strategia perdente.

Tutte le grandi innovazioni nate nel terzo millenio sono del tipo bottom-up.

Compito delle istituzioni e delle organizzazioni deve essere quello di favorire al massimo le circostanze affinché nuovi fenomeni sorgano spontaneamente. Codifica, regolamentazione, istituzionalizzazione vengono dopo.

Aziende del calibro di IBM o di Procter & Gamble l’hanno capito bene, per esempio. Varie altre aziende e organizzazioni si sono adeguate prontamente ma siamo solo agli inizi. In tutto il mondo le istituzioni pubbliche stanno arrancando, massimamente quelle didattiche. In Italia, duole dirlo, non brilliamo davvero.

Risposta di uno studente

Vi propongo la risposta di uno studente al post precedente sui clown in corsia. Uno dei tanti studenti che, venendo a studiare nel nostro paese da lontano, ha imparato l’italiano studiando contemporaneamente qualcosa’altro. È uno sfogo che, prendendo le mosse dalle considerazioni sull’avviamento dei clown in corsia, parla delle vicissitudini degli studenti nella facoltà di medicina. Non nascondo di condividere in gran parte queste opinioni e comprendo che tanti miei colleghi potranno condividerle più o meno. La pluralità delle opinioni è un fatto naturale, anzi asupicabile. Sono però sicuro che l’attitudine ad ascoltare gli studenti sia una grande carenza della nostra scuola, di tutte le nostre scuole.

Grazie Prof!

E’ incredibile la precisione e sensibilità con cui lei riesce a scoprire le nostre paure! Anch’io spesso rifletto su tutto questo guscio che ci tiene stretti al suo interno e che è fatto di tantissimi materiali, i più diversi, che non mi piacciono molto! Anch’io ho tanta paura dei numeri, dei conti che vorrebbero rispecchiare, e che non rispecchiereanno MAI al 100%, la nostra preparazione e capacità professionali; e purtroppo tantissime volte ci ho sbattuto la testa, e forse tante altre volte lo dovrò fare… da sempre è stato così! Da sempre in ogni scuola, siamo stati codificati e numerati con misure approssimative … ci siamo mai chiesti perchè non è mai esistito uno psicologo nella scuola? Un ora dedicata alla psicologia umana? Eppure servirebbe a chiunque, soprattutto ai ragazzi in fase di crescita alla prese con le prime responsabilità!

In questi ultimi 3-4 mesi ogni giorno ho lottato contro la rabbia, lo stress e l’incessante pensiero all’ingiustizia che spesso dobbiamo subire, senza aver alcuna voce in capitolo! Mi sono chiesto, perchè io che mi dedico con passione alla mia formazione, non devo aver mai nessun stimolo verso l’umanità da chi dovrebbe essere la mia guida (forse una guida non c’è!); perchè devo spesso rimpicciolirmi e chiudermi nel mio silenzio, per paura di mille blocchi mentali, fisici e universitari e buttar giù amari bocconi di insensibilità e disattenzione da parte di chi non è un modello di empatia né di umanità. Mi dispiace profondamente fare i conti con una realtà che non riesce a promuovere il mio stato d’animo verso la gioia e umanità. Mi son chiesto in questi mesi, perchè chi avrebbe dovuto insegnarmi non solo una materia, che per inciso dovrò studiare su 10 testi diversi (e i miei appunti di lezione non serviranno mai ai fini dell’esame!), non ha saputo darmi la chiave vincente per rimanere vivo dentro e verso gli altri; perchè chi ha già percorso con mille sacrifici e fatiche questa strada, dimentica che anni fa era come me e aveva bisogno di essere incoraggiato e guidato; perchè perfino molti specializzandi si nascondono e ci snobbano, persino si vergognano di salutare noi poveri studentacci perchè siamo inferiori, mentre loro invece… che tristezza!

Con mille paure e ricatti informali, che sono i peggior fantasmi, finiamo per vivere la formazione verso una delle professioni più VIVE e VITALI, che si nutrono di CONTATTO, COMUNICAZIONE e DIALOGO, nella maniera più PASSIVA possibile.

A breve finirò il mio percorso… e non mi era mai successo di affrontare vere crisi e momenti di abbattimento… non ho mai messo in dubbio le mie scelte, ma sono stato sempre determinato; ed invece? Invece, non mi vergogno di dirlo, ho ceduto pure io quest’anno…il fardello delle responsabilità, dei regolamenti disumani, dello stress psichico mi hanno fatto vedere un lato di me che prima credevo inesistente: ho avuto tanta paura della mia fragilità e debolezza, paura di aver sbagliato tutto… si rende conto prof?

Mi sono chiesto perchè in Francia, in Germania o in Spagna, nessun studente di medicina mi capirebbe e nessuno si sentirebbe mai come me… Perché all’estero gli studenti di medicina vedono più i reparti che le aule? Mi sono chiesto, perchè qui diversi ragazzi vanno verso l’esaurimento nervoso? A chi servono i medici schizzofrenici ed esauriti? E’ una strategia avere più studenti fuori corso che in corso? E’ una strategia garantire lo studio solo ai più ricchi? Con tasse salatissime e strumenti che pochissimi utilizzeranno, perchè la corsa è mirata a passare l’anno e l’esame, perchè se ti becchi il blocco per un esame, sei un uomo morto…ma è una follia! Non sono uno studente bloccato, ma ho molti amici bloccati. Quale formazione danno i blocchi? Non è meglio focalizzarsi sulla propedeudicità e togliere le BOCCIATURE da LICEO dall’università? Perchè perdere un anno intero a causa di un solo esame? In quell’anno non puoi più dare gli esami successivi né prendere firme, devi andare a lavorare e già che ci sei andare in analisi, perchè ti ha distrutto pure l’idea che non puoi chiedere dai tuoi una tassa in più dopo mille sacrifici! Non è giusto, e ti uccide da dentro… a che serve poi? Perchè a lezione ci sono sempre massimo 20 persone su 200, e tutti a casa a studiare perchè se non dai l’esame c’è il blocco? E’ stata testata scientificamente l’efficacia di questo metodo? Che succede in altre facoltà senza blocchi? Sono meno preparati e competenti? Vorrei capire, solo questo…e proprio non ci riesco! E questo mi fa paura!

Non riesco a mollare, perchè in fine dei conti, mi sento RINATO! Per assurdo, grazie al periodo più brutto della mia vita universitaria, ho capito che questa è davvero l’unica cosa al mondo che voglio fare, e perchè no, VOGLIO FARE LA DIFFERENZA! Voglio essere io un punto piccolo, che però non dimenticherà mai la sua provenianza… so che con me ci saranno altri puntolini e che tutti stiamo camminando verso una stessa direzione, con un unico messaggio ed obiettivo nel cuore..questo mi conforta ma mi creda è demotivante e straziante l’involucro che ci tiene soffocati!

Le scrivo, perchè mi piacerebbe parlare con lei di quello che tra i pochi riesce a percepire; perchè uno studente che ama ciò che fa, non deve soffrire così disumanamente, rischiando di non essere mai apprezzato e premiato dai numeri… perdere l’anno, o essere umiliato agli esami (purtroppo succede spesso e ogni anno peggio…ma perchè? )! Ho paura della passività, che ignora ormai la qualità in questa formazione; e mi spaventa il futuro della medicina in mano a qualcuno che ha vinto solo nella corsa. Ho paura dei miei pensieri e delle mie idee, ed ho paura di dover fuggire ancora dall’infelicità!

Spero di poter parlare con lei, e parlarle a cuore aperto… spesso ci troviamo soli in questo sistema e questi schemi che ci vengono imposti, ed è davvero sorprendente vivere ancora in un LICEO chiamato università, dove non sei libero di organizzarti da solo. Siamo ignorati… e non chiediamo molto, ma vivere umanamente e serenamente lo studio!

Grazie prof di esserci sempre stato per noi; è un vero amico, padre e professore per noi…un punto fermo, dove sai che sei ascoltato e compreso…
a presto

Clown in corsia

Di tanto in tanto mi capita di parlare un po’ con giovani i quali si occupano, a vario titolo, di attività di clown in corsia. Sono cose che entusiasmano. Tuttavia, molto spesso emerge un fatto deprimente: pare che fra le varie organizzazioni che promuovono queste attività vi sia scarsa collaborazione e forte tendenza all’accentramento. Non posso essere certo di questo ma è un fatto che emerge regolarmente quando mi capita di approfondire con qualcuno di questi ragazzi.

Io ho paura delle organizzazioni. Ho paura dei corsi, dei titoli, dei crediti che si comprano frequentando corsi a pagamento. Ho paura degli esami; ne ho avuta come esaminato e ne ho di più ora come esaminatore. Mi terrorizzano. Ho paura dei numeri chiusi, dei test per esservi ammessi, assurdi, privi di senso. Ho paura dei voti, delle micrometriche discettazioni docimologiche sulla costruzione del voto di laurea. Ho paura degli ordini professionali, delle abilitazioni formali. Ho paura dei progetti. Ho paura delle formalizzazioni. Ho paura della didattica formale. Ho paura dei professori; sì, ho paura di me stesso.

Ho paura che qualcuno possa brevemente decidere se quel ragazzo sia adatto o meno ad alleviare la sofferenza col sorriso. Ho paura che si impieghi un metro di misura disastrosamente rozzo, come succede nella stragrande maggioranza dei casi. Magari quel ragazzo che non ha passato il test possiede doti umane imperscrutabili che lo renderebbero straordinario per fare il clown in corsia. O qualcuno ha scoperto nel frattempo il modo di misurare l’attitudine all’empatia? L’amore si misura?

Lo so che al mondo ci vuole struttura, ci vuole organizzazione ma perché succede così spesso che l’uomo finisce per scomparire in questi meccanismi? Così spesso che a me è venuta paura.

So che non è semplice inserire giovani aspiranti clown in un ospedale. Provo a ragionarci un po’.

L’aspirante manovale

Consideriamo un aspirante manovale, cioè colui che dovrà aiutare il muratore nelle attività più faticose caricare e scaricare materiali, impastare la calcina ecc. Nella pratica, l’avviamento al lavoro del manovale è sempre stato ed è ancora molto semplice, avendo luogo sul campo: “La pala è quella la, il camioncino da scaricare è questo, butta la sabbia la dietro …” e via e via.

Oggi sentiamo parlare quotidianamente di un numero impressionante di morti bianche. Una cosa incredibile: siamo in grado di porre domande complesse ad un database dall’altra parte del mondo ottenendo le risposte entro un battito di ciglia e non ci riesce di evitare che gente che lavora si ammazzi cadendo da un ponteggio o facendosi stritolare da una pressa! Evidente che se ad un manovale, che magari sa anche poche parole di italiano, si mette una pala in mano e si manda tout court in cantiere nei pressi di macchine che non conosce bene, il rischio che si faccia male o che faccia male a qualcun altro c’è e forse non è trascurabile. In questa situazione è ovvio che si debba prevedere una fase di formazione al fine di far conoscere le norme elementari di sicurezza. Questo è un tipo di formazione che può essere formale: qualche scheda da leggere, qualche spiegazione, qualche domanda per sincerarsi che si sia capito.

Va da se che ci sarà anche una parte di apprendimento importante che avverrà in modo informale: se il nostro manovale non ha mai usato la pala imparerà guardando gli altri. Figuriamoci poi se il ragazzo è vispo: seguirà il maestro muratore e finirà col diventarlo lui stesso.

Non vi è però dubbio che, in una società civile, attività del genere dovrebbero essere precedute da una fase formativa formalizzata, seppur limitata.

L’aspirante poeta

Vediamo ora il caso di un aspirante poeta. Può sembrare un esempio balordo ma in fin dei conti esistono i corsi di scrittura creativa. Ebbene, quanto possiamo pensare che possa incidere un insegnamento formale sulle future capacità espressive del nostro aspirante poeta? Sì, la conoscenza degli strumenti, metrica, ritmo, stile, potrà avere qualche utilità ma sarà sicuramente secondaria rispetto allo stupore, alla profondità, all’ispirazione e altre cose umane che possono portare una persona ad esprimersi toccando l’anima dell’altro. L’erudizione può costruirsela chiunque ma il resto no. Ognuno di noi ha in se una fiamma che è unica, irripetibile; compito della formazione e far sì che ognuno possa evolvere fino a far ardere appieno la propria unica fiamma. Si può far poco con l’ insegnamento formale su questo. Lo so che è economicamente e organizzativamente scomodo ma non ci sono scorciatoie. Non è possibile incasellare lo sviluppo di una mente creativa in qualche comodo diagramma, stiamo parlando della cosa più complessa e misteriosa che noi conosciamo in questo universo, non dimentichiamolo.

L’aspirante clown in corsia

E che possiamo dire per gli aspiranti clown in corsia? La cosa è complessa perché comprende ambedue gli aspetti esemplificati nei due casi limite che abbiamo appena visto. Per un operatore all’interno di un ospedale il rischio di fare danni è elevato. Chi va ad operare in un ospedale deve essere informato su ciò che si può fare e su ciò che non si può fare. Questo vale a maggior ragione per un clown che per sua natura si avvale di rumori, parole, oggetti e comportamenti inusuali mentre in ospedale vi possono essere attrezzature complesse e delicate, stati fisici e psichici anomali, contesti etnici particolari. Sembra del tutto naturale inquadrare questo tipo di formazione in modo formale.

Tuttavia per fare il clown nelle corsie ci vuole anche ben altro. Qualche capacità circense e artistica ovviamente non guasta ma è fondamentale una buona dose di empatia, cioè di capacità di mettersi nei panni dell’altro. Inutile conoscere tutti i possibili pericoli, tutti i possibili disagi, tutte le possibili patologie del mondo, saper fare tutti i possibili esercizi di giocoleria e suonare tutti gli strumenti del mondo, se manca l’empatia.

L’empatia è un’attitudine e come tale non si può insegnare, certamente non nel senso scolastico. La predisposizione personale dovrebbe essere al centro dell’attenzione di qualsiasi formatore. La predisposizione è un dono inestimabile per la comunità, un dono che è stolto dissipare. In qualsiasi tipo di formazione, la sensibilità del formatore deve essere orientata a comprendere quale sia la fiamma che c’è in ciascun allievo. Lo so, è un modo di pensare utopico; tutti dobbiamo fare i conti con i vincoli imposti dalla realtà ma l’utopia dà un timone all’azione.

Nella didattica non formale il ruolo del formatore non è marginale rispetto alla didattica convenzionale di tipo formale, anzi è cruciale, è meno appariscente ma può incidere moltissimo sul percorso degli allievi. È proprio qui che il formatore ha la possibilità di percepire la predisposizione di ciascuno.

Ho seguito le vicende dei protagonisti del progetto M’illumino d’immenso, un gruppo di studenti guidati da due clown in visite periodiche ad alcuni reparti di un ospedale fiorentino. Trovo che sia un’esperienza di grande interesse anche per il modo nel quale è impostata:

1)ogni uscita in ospedale avviene in coppia, un giovane ed un maestro

2) una volta al mese ha luogo una riunione di un giorno intero dove tutti i giovani ed i maestri lavorano sulle abilità e sulle capacità di espressione.

Non c’è da spendere molte parole, davvero un bell’esempio di didattica informale con un grande impegno da parte di coloro che svolgono il ruolo di docente. E i risultati si vedono: il gruppo è animato da grandissimo entusiasmo, basta leggere qualche post del blog M’illumino d’immenso per rendersene conto. C’è anche un altro risultato che non si può non notare: questa è un’attività che coinvolge più facilmente le ragazze dei ragazzi. Attenzione, ci sono anche alcuni ragazzi e sono bravissimi. Tuttavia sta di fatto che nel corso dei mesi si è consolidata una netta maggioranza di contributi femminili.

L’esperienza di questi ragazzi è un bellissimo esempio che insegna molte cose. Non c’è dubbio che per trarne un modello valido per altre realtà, questo dovrebbe essere arricchito da una fase di istruzione sulle modalità di funzionamento di un reparto ospedaliero, sulle cautele da adottare e sui possibili rischi ma senza deturpare la magia che si realizza quando ad un giovane entusiasta si dà la possibilità di cimentarsi.

La comunicazione didattica all’università

Richiamo l’attenzione sul post Note sparse sulla comunicazione didattica all’università di Maria Grazia perché concerne un tema che ritengo sia importante. In parole povere, si dice che noi professori universitari ci preoccupiamo poco di come trasmettere le informazioni e ci mettiamo poco nei panni degli studenti, rischiando di mancare i nostri obiettivi didattici. Penso che sia verissimo.

Noi docenti entriamo la prima volta nelle aule con la convinzione che la qualità del nostro insegnamento coincida con la qualità della nostra scienza, dando naturalmente per scontato che la qualità ci interessi per davvero e che la scienza ci sia 😉

In realtà nella nostra formazione non c’è stato uno straccio di preparazione su cosa significhi comunicare qualcosa ad un gruppo di persone. Nella mia formazione non c’è stato niente di simile e non mi riferisco né a programmi né a materie né a corsi ma giusto a qualche occasione di riflessione, qualche spunto. Non ricordo niente di simile. Le occasioni ufficiali di comunicazione si riducevano ai compiti scritti e alle interrogazioni, dalle elementari all’università. L’atmosfera di gran lunga prevalente era sintetizzabile con la ricetta “bisogna dirgliela come vuole lei/lui”. Sì, è un esercizio di comunicazione anche questo ma forse è un po’ limitato.

Ho sofferto molto per questa lacuna e, come tutti, mi sono arrangiato e continuo ad arrangiarmi. Si sviluppano con il tempo delle convinzioni, su base prettamente empirica e con scarse occasioni di riscontro perché i docenti, fra l’altro, non amano la valutazione da parte degli studenti, che dovrebbe essere un fondamentale strumento di lavoro nella mani dei docenti stessi.

Fra queste convinzioni che sono andato maturando vi è che il docente deve essere VIVO. Succede di rado. Vivo vuol dire che deve essere realmente appassionato quando spiega la sua materia agli studenti. Le esposizioni aride, giustificate con la necessità, specie nel caso di quelle scientifiche, di essere obiettive, narcotizzano l’uditorio. PowerPoint, se usato obbligatoriamente e senza cognizione di causa aggrava ulteriormente questa situazione. Vale più qualche divagazione letteraria, al limite una poesia, oppure una storiella divertente, usata per sottolineare qualche passaggio che non una grafica particolare in PowerPoint.

Vale soprattutto terribilmente il modo con il quale si dicono le cose. Confesso che mi sono giovato molto, nonché divertito, della lettura del Manuale minimo dell’attore di Dario Fo

Immagine di Manuale minimo dell'attore

Se non altro si è indotti a pensare molto a come far giungere un messaggio a chi ci sta ascoltando e questo dovrebbe essere molto importante per i docenti, o no?

Siamo sicuri di sapere dove stiamo andando?

Amici, Twitter può essere formidabile, ne dovremo parlare. Credo di esserne un pessimo utente ma ci ho trovato dei personaggi notevoli e alcune perle

Qui segnalo tre video che trovo strepitosi dei quali ho appreso dal blog di Clay Burell, un insegnante americano che lavora a Seoul. Vale la pena anche di leggere il suo bellissimo post dove si commentano questi video.

Siamo sicuri di dare ai nostri giovani ciò di cui avranno bisogno?

Se ne dubitiamo, ci stiamo dando da fare sul serio per cambiare lo stato delle cose?

Vita scolastica

Ho fatto questo schizzo con ArtRage e una tavoletta  Wacom. Ho appreso dell’esistenza di ArtRage da Roy Blumenthal che ho conosciuto in twitter.  Trovo interessante come usa questi mezzi e cosa ci fa. Divertenti i post, come questo per esempio. Se in twitter si passeggia senza ansia e con molta curiosità ci si diverte e si fanno scoperte interessanti.

È arrivata la rete …

Ho aspettato qualche giorno perché non mi fidavo, ho imparato a non fidarmi alla cieca della tecnologia, ma a questo punto devo ammettere che anche in vetta al poggio su cui vivo è arrivata la rete.

È arrivata tramite un giovanottino che ti sale sul tetto, ti ci fissa una parabolina che è una losanghina di 30 cm, ti porta un filo dove vuoi tu e ci attacca una scatolina alimentata dalla quale parte un cavo ethernet che puoi infilzare nel computer oppure in uno switch per fare la rete locale. Un minuto forse meno di configurazione banale e via. Quattro Mbit/s.

E allora? Che c’è di strano direte voi. C’è che io sto in vetta a un poggio appunto, che sono quasi vent’anni che almanacco con modem d’ogni sorta e che la connettività m’è sembrata una cosa di molto importante sin dall’inizio.

Diciotto anni fa, per la precisione, intravidi la possibilità di raggiungere il resto del mondo da quassù. Gli amici mi deridevano perché sembrava loro una stranezza di poca utilità, uno dei soliti miei balocchi. Certo, un balocco lo era di sicuro, un balocco che però si è rivelato una cosa di molto concreta.

Erano anni bui quelli per me. Sortito da fisica nel 78 senza avere la minima idea di cosa fosse un computer (i fisici li usavano, eccome, per le loro ricerche ma agli studenti zero) dovetti imparare presto a programmare i minicomputer che si usavano negli anni Settanta e Ottanta. Erano grezzi e estremamente poco potenti rispetto a ciò che conosciamo oggi ma erano macchine serie, fatte per risolvere problemi e non per conquistare mercati. Da quella cultura tecnica è sortito Unix, che poi è piaciuto tanto a Linus Torvalds, per nostra fortuna.

Costavano però cari quei minicomputer. Negli anni Ottanta arrivarono i PC, innovazione tecnologica splendida ma destinati a diventare oggetti di largo consumo e quindi soggetti alle leggi del grande mercato. La famiglia di sistemi DOS-Windows ha prosperato in questo contesto e quindi sono diventati oggetti pensati per lusingare i mercati oltre che per risolvere problemi.

I PC costavano poco e i fondi di ricerca erano (anche ora) faticosi da trovare. Ecco quindi gli anni bui dove chi programmava doveva lottare con con le idiosincrasie dei sistemi Windows. Sistemi orribilmente farraginosi, manuali da incubo, venditori analfabeti. Giornate passate a risolvere problemi a mani nude senza sapere dover battere la testa.

Venni a sapere che c’erano dei luoghi in una cosa che si chiamava Internet dove ingegneri Microsoft davano una mano. Fu così che mi trovai ad aggeggiare in una stanzina a casa con un PC e un modem da 1200 bit/s che era il più avanzato che avevo trovato. Riuscii a raggiungere quel circolo di esperti che si davano consigli iscrivendomi a Compuserve, un servizio di rete a pagamento che era l’unico a consentire l’accesso ad Internet a coloro che fossero dotati di un modem.

Fui folgorato dalla risposta che infine ottenni da un ingegnere Microsoft. Era di sera molto tardi e uscii dal mio bugigattolo urlando “Mi ha risposto! Mi ha risposto!”. “Oh icche c’è! T’hai perso il capo con quel computer!” mi fecero a casa. Un uomo sconosciuto a 1000 Km di distanza mi aveva risposto ad un quesito estremamente specialistico per niente! Le informazioni erano passate sotto forma di bit che avresti quasi potuto seguire con gli occhi scendere giù lungo quel filo appeso ai pali nei boschi popolati di volpi e chinghiali e via e via sino a giungere chissà dove, magari in California magari in stanze asettiche piene di computeroni fantastici come quelli che si vedono al cinema! Un cosa incredibile …

Ne feci diverse di domande a quell’ingegnere, divenimmo amici. Anche questo fu sconvolgente. Provavo affetto per quello sconosciuto che mi aiutava a risolvere problemi. Lo sentivo come un amico anche se non sapevo nulla di lui. Una cosa meravigliosa … Qui c’è il germe delle forze che vediamo ora scatenarsi nei fenomeni sociali in Internet. Come non ricordarlo.

Ora i quattro milioni di bit al secondo che mi bombardano la parabolina sopra questo tetto vengono dal Pratomagno, forse da 20 o 30 Km, portati da radiazioni intorno ai 6 GHz, mi ha spiegato il giovanottino. A queste frequenze, le radiazioni fanno ombre nette e quindi in primavera mi devo ricordare di tagliare le fronde del mandorlo qui davanti sennò i 4 Mbit/s se li prende lui e non gli servono nemmeno per la sintesi clorofilliana. È il WiMAX, il Wireless per coprire aree ampie dell’ordine delle decine di chilometri. La ditta che offre questo servizio ha iniziato ad operare su questo territorio un anno fa ed ora ha collegato circa 150 utenti.

Tutto corre così veloce … ora vedo tutti i video YouTube che voglio, volo sui feed dei post degli studenti e via e via.

Speriamo di mettere a frutto tutta questa abbondanza. Cito a memoria Don Milani. Incontra un padre che aveva comprato una Cinquecento e che gli dice: “Vedi ora posso fare meglio il mio lavoro di predicatore perché raggiungo più gente”. “Mah …” fece Don Milani “l’importante è che tu non dica bischerate perché sennò tu sei diventato solo uno che dice bischerate a più popolo …”

PS: se ritrovo la citazione esatta o se qualcuno me la passa correggo …