Assignment 5: Open Educational Resources, iniziamo con una storia

Sono le 15:02 di domenica 27 dicembre, nel preciso momento in cui sto scrivendo questo paragrafo. Il resto del post l’ho scritto quasi tutto fra ieri e oggi, mi manca poco per finire. Ho appena letto il commento di Simonetta, una studentessa IUL, al post dell’intervista, dove si chiede in che misura il metodo che stiamo sperimentando insieme, cosiddetto della blogoclasse, dipenda dalle caratteristiche individuali dal docente. Non saprei  ma il post che stavo giusto scrivendo rappresenta forse e in parte una risposta indiretta. Vedremo più avanti.

Con i prossimi post vorrei farvi conoscere le Open Educational Resources. Per iniziare vi racconto alcune storie che ho tradotto dall’articolo Students Find free Online Lectures Better Then What They’re Paying For apparso l’11 ottobre scorso in The Chronicle of Higher Education, la più importante pubblicazione dedicata all’università negli Stati Uniti. In queste storie troverete dei riferimenti ad alcuni corsi online e con questa espressione, nel seguito, intenderò corsi online che siano liberamente fruibili da chiunque. Avrei potuto esplicitare i link di tali risorse ma preferisco lasciarveli cercare con Google affinché, cercando, ciascuno di voi possa eventualmente scoprire quel che per lui, ma non necessariamente per altri o per me medesimo, potrebbe essere una perla.

Prima storia

Nicholas Presnell ha due professori di algebra lineare: uno ufficiale e uno virtuale. Il primo è un professore dell’Arizona State University, dove il sig. Presnell è uno studente part-time in ingegneria elettrotecnica. L’altro è un insegnante del Massachusetts Institute of Technology (MIT) che ha inserito le proprie lezioni di algebra lineare fra i materiali didattici online offerti dal progetto OpenCourseWare del MIT.

In un certo senso, il professore di matematica Gilbert Strang del MIT,  è apparso per primo nella vita di Nicholas Presnell che ne trovò per caso le lezioni video mentre stava cercando di risolvere un problema incontrato nel proprio lavoro di ingegnere elettrotecnico presso la Honeywell Aerospace. Queste lezioni online non servirono solo a risolvere il problema immediato di Nicholas ma si rivelarono anche uno stimolo per iscriversi ad un corso di laurea presso un istituto nelle vicinanze, la Arizona State University. Ora Nicholas, pur seguendo le lezioni di sistemi lineari presso la Arizona University utilizza frequentemente i video del MIT come un ulteriore fonte di studio.

“È come se il MIT fungesse da controllo di qualità dei corsi che sto seguendo”

sostiene Nicholas.

Qui compare, in un contesto molto specifico, una delle conseguenze più importanti di Internet che è una mutata concezione dell’autorevolezza. Abbiamo infatti uno studente universitario che confronta corsi diversi attingendo da questi in funzione di ciò che ciascuno di essi dà. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento di paradigma, dove non abbiamo lo studente che si rivolge ad un’istituzione nell’autorevolezza della quale ripone a priori la propria fiducia, bensì abbiamo uno studente consapevole che conduce in prima persona il processo di apprendimento recependo le proposte degli insegnamenti ma svolge nel contempo un ruolo critico, operando eventualmente selezioni e integrazioni. Torneremo su questo concetto.

Seconda storia

Sharon Malaguit racconta che il suo professore di anatomia, nel corso di infermieristica che seguiva presso il San Bernardino Valley College, era diventato un incubo per lei. Il professore spiegava in modo difficile da capire e facilmente partiva per la tangente ma allo stesso tempo era severo e inflessibile.

Fu così che Sharon scoprì un’alternativa nella forma delle lezioni online di Marian C. Diamond, una professoressa di anatomia e neuroscienze presso l’università di California a Berkeley, lezioni che presto divennero la sua ancora di salvezza tutte le volte che si trovava in difficoltà perché non riusciva a tenere il passo delle lezioni presenza.

“Lei era molto più chiara e riusciva a rimanere focalizzata sull’argomento trovando esempi pertinenti con l’oggetto delle lezioni”

racconta Sharon a proposito della professoressa di Berkeley.

Era tornata al college dopo un’interruzione di 18 anni dovuta al fatto che si era dedicata all’educazione dei suoi quattro figli. Inoltre era cresciuta nelle Filippine e perciò l’inglese era la sua seconda lingua. Per queste ragioni, Sharon paventava delle difficoltà e quindi già immaginava di dover cercare qualche forma di aiuto per riprendere ed andare avanti con gli studi.

All’inizio cercò di farsi aiutare da un tutor del campus ma per lei era troppo difficile trovare il tempo per incontrarlo. Successivamente Sharon provò con le lezioni video acquistate dalla Rapid Learning Center, azienda specializzata nella vendita di supporti didattici, ma i 200$ necessari si rivelarono mal spesi perché il livello dei corsi si rivelò essere troppo elementare.

Poi successe che il marito, facendo delle ricerche in YouTube, scoprì le lezioni online che una nota insegnante di Berkeley, la professoressa Diamond, aveva reso liberamente disponibili in Internet. Sharon rimase ammaliata dalla chiarezza delle lezioni del prof.ssa Diamond e si organizzò per seguirle la sera dopo avere messo a letto i bambini. In seguito raccomandò le lezioni a molti compagni di classe e amici.

Sharon, prima di trovare queste lezioni online, era così frustrata che stava per demordere dal proposito di terminare la scuola. Successivamente scrisse un’email alla prof.ssa Diamond per ringraziarla e rimase stupefatta quando un giorno la professoressa la chiamò al telefono per incoraggiarla a continuare gli studi.

“Mi sentivo come una scolaretta ed ero felice e commossa”

racconta Sharon.

Da parte sua, la prof.ssa Diamond, commentando l’episodio, ha spiegò di rispondere a tutti coloro che le scrivono e di ricevere grande gratificazione da questo tipo di riscontri.

Qui compaiono ulteriori elementi interessanti. Il primo è l’enorme vantaggio che le risorse didattiche online asincrone danno a coloro che frequentano un corso universitario contemporaneamente allo svolgimento di un lavoro ed alla conduzione di una famiglia. Evidente il nesso con il tema del lifelong learning. Il secondo fatto degno di nota è la relazione umana significativa che si può stabilire in una forma di insegnamento online, anche se ridotta ad un singolo episodio. L’effetto che può produrre una relazione del genere non dipende infatti necessariamente solo da aspetti quantitativi ma è sostanzialmente un fatto  di qualità. L’entusiasmo e la spinta prodotti da un episodio come quello raccontato da Sharon può letteralmente fare miracoli.

Terza storia

Tradizionalmente nelle high school americane esistono le Advanced Placement classes, corsi facoltativi che gli studenti più intraprendenti possono seguire per avvantaggiarsi per il futuro inserimento all’università. Recentemente sono stati introdotti anche i cosiddetti Independent Study, mediante i quali si possono acquisire crediti validi ai fini del completamento del liceo seguendo dei corsi universitari che si attaglino ai propri interessi.

Ebbene, il giovane Aditya Rajagopalan era uno studente presso la Choate Rosemary Hall (uno liceo) che nell’ambito di un programma di Independent Study stava seguendo un ciclo di lezioni online sulla teoria matematica dei giochi di Benjamin Polak, un professore di economia della Yale University (la teoria matematica dei giochi è molto importante nella scienza dell’economia oggi).

Aditya ogni settimana seguiva una o due lezioni a casa e poi, insieme agli altri studenti del gruppo che aveva aderito al programma di Independent Study presentava in classe quello che aveva imparato discutendo insieme agli altri ed al professore il problemi che aveva incontrato.

Le discussioni erano condotte da un professore di matematica del liceo, Fred Djang, con la collaborazione saltuaria di un professore di economia. Aditja ed un suo compagno dimostrarono interesse per questo soggetto ed avrebbero voluto approfondire per farne il tema principale del corso di matematica ma il professore disse loro che non avrebbe avuto il tempo di ristrutturare il corso in questo modo. Quando tuttavia, il professor Djang ebbe modo di guardare i video delle lezioni si rese conto che questi stessi avrebbero potuto formare la maggior parte di un intero corso.

“Oddio! Quando vidi questi video mi resi conto che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di fare qualcosa di paragonabile …”

disse il prof. Djang

“… questo professore è troppo bravo e l’interesse mostrato dalla classe è palpabile”.

Aditja spiegò anche che vi sono altri professori del liceo che suggeriscono agli studenti di seguire le lezioni disponibili online:

“Per esempio il professore che ci spiega l’algebra lineare e le funzioni a più variabili ci dà il link delle lezioni online del MIT per risolvere eventuali dubbi”.

Successivamente Aditja ebbe anche modo di conoscere personalmente il professor Polak durante una visita organizzata al college di Yale e in quell’occasione emerse che molti altri studenti avevano seguito le lezioni online di Pollak il quale si meravigliò della popolarità delle proprie lezioni.

A parte l’interesse di un approccio nel quale viene istituzionalizzato e considerato l’accesso degli studenti di liceo a delle lezioni universitarie, voglio mettere in luce l’atteggiamento aperto dei professori che riconoscono il valore di altri e, invece di chiudersi e chiudere gli studenti nel proprio recinto, propongono addirittura loro di integrare i propri materiali con quelli degli altri. Questa visione aperta e collegiale è fondamentale e, purtroppo, molto poco diffusa dalle nostre parti. Una volta un mio collega al quale stavo descrivendo le opportunità di un atteggiamento più aperto che si rende oggi possibile grazie alle nuove tecnologie mi disse:

“Ma io sono geloso delle mie cose!”

Ecco, in che misura possono essere “proprie” le cose che insegnamo? Che vuol dire che sono proprie? Su questo è opportuno riflettere. Ci torneremo.

Quarta storia

La maggior parte degli insegnanti utilizzano libri di testo come materiali di studio. Bene, qui si racconta la storia di un professore che assegna la visione delle lezioni di un altro professore.

Per Heather Green-Smith, in procinto di laurearsi presso il Wisconsin Indianhead Technical College, questo suggerimento rappresentò la salvezza.

“Delle volte, tornata casa, avevo le lacrime agli occhi dalla frustrazione perché non venivo a capo dei problemi di programmazione del software”

raccontava Heather.

Furono le lezioni online di Mehram Sahami, professore associato presso la Stanford University, a chiarire le idee a Heather e molto aiutarono l’empatia e il senso dell’humor del professor Sahami. Heather era venuta a conoscenza delle sue lezioni online grazie ad un altro professore del proprio college che aveva chiesto agli studenti di guardarle e di scrivere un compito su di esse.

Heather non era una studentessa convenzionale, trovandosi all’età di 49 anni al primo anno di college. Aveva dovuto compiere questa scelta difficile dopo aver perso il proprio lavoro di tecnico presso un’azienda di produzione di materiali plastici per equipaggiamenti sanitari.

Heather finì col seguire una dozzina di lezioni fra quelle offerte online dalla Stanford University, collegandosi la sera tardi mentre il marito si attardava ai propri lavori di bricolage (costruendo per l’appunto una scrivania alla moglie …). Anche Heather scrisse al proprio “professore virtuale” per mostrare la propria gratitudine.

Non è che l’insegnante ufficiale del corso non le piacesse, anzi, gli riconosceva doti di pazienza e brillantezza. Il fatto è che aveva poca esperienza di insegnamento avendo lavorato vari anni nell’industria: parlava molto veloce e mostrava passione ingegnandosi a mostrare modi diversi di affrontare i problemi; tuttavia dimenticava di attenersi al ritmo di apprendimento degli studenti e di utilizzare un linguaggio a loro famigliare. Gli studenti lo seguivano con grande difficoltà.

Al contrario, il prof. Sahami, procedeva rifacendosi da un punto dove gli studenti lo avrebbero sicuramente capito e preoccupandosi di mostrare che la programmazione del computer “non è poi quella cosa così spaventosa”. Con il suo metodo si formava spontaneamente una comunità grazie al fatto che gli errori più comuni venivano ripresi pazientemente e discussi insieme, cosicché era improbabile che uno studente si trovasse isolato di fronte ad un problema apparentemente insormontabile.

Heather ci teneva anche a specificare che l’insegnante “Parlava in inglese!”, tutta contenta perché in un corso che all’inizio pareva insormontabile aveva finito col prendere un “A”.

Giunti a questo punto, non commento oltre. Preferisco abbandonarvi alle vostre riflessioni e lasciarvi girovagare al di là di queste piccole porticine che vi ho aperto, sperando sì che scopriate qualcosa che vi piaccia ma non da inquietare i vostri famigliari per eccesso di rete-dipendenza!

L’assignment, se vogliamo, consiste nel cercare e, al ritorno dalla ricerca, narrare le proprie impressioni, magari descrivendo qualche
scoperta interessante. Poi ne riparleremo.

Assignment 4, coda: social networking

Con l’assignment 4 abbiamo esplorato Delicious cercando di dimenticare quello che sapevamo o credevamo di sapere sui social networking. Ci siamo così avvicinati a Delicious perché avevamo bisogno di un buon sistema per memorizzare i bookmarks.

Abbiamo scoperto che un servizio web del genere ha un certo numero di vantaggi e questo poteva essere già sodddisfacente ma poi ci sono state delle sorprese. Infatti cercando i propri bookmarks abbiamo finito col trovare anche quelli degli altri, poi ci siamo accorti che gli altri possono trovare i nostri e che tutti insieme stiamo realizzando una classificazione dei siti web che rischia di fare concorrenza a qualsiasi altra classificazione basata sul metodo classico di una gerarchia di concetti.

Insomma, partendo da una necessità apparentemente banale e circoscritta ci siamo trovati a riflettere sul concetto di classificazione e gestione della conoscenza e ci siamo trovati anche a giocare con un ennesimo neologismo: la folksonomia.

Evidentemente qui sotto c’è un qualcosa di potente. Ebbene, questa cosa è il social network.

Delicious non è l’unico social network, anzi, ce ne sono tanti (se seguite i link trovate una lista che comunque è incompleta …), così tanti che non mi sfiora nemmeno l’idea di provare a farne un elenco e tanto meno una classificazione!

Invece è importante rendersi conto che un social network cresce bene intorno ad un interesse specifico. Notare che ho detto “cresce” e non , che so, “si costruisce” o “si conduce” o qualcosa del genere.

Un servizio di social networking funziona se consente ai suoi membri di condividere degli interessi che possono essere generali ma anche molto specifici. Forse i social networks più interessanti sono proprio quelli che si riferiscono ad un interesse specifico: bookmarks, che poi sono siti Internet, oppure foto, libri, grafica, video, presentazioni, idee, notizie, progetti e via dicendo.

Con questo assignment vi invito ad esplorarne alcuni, chissà che non ci sia quello che fa al caso vostro! Poi, scrivete in un post su che cosa vi è successo.

Intanto vi dico quelli che uso io.

Delicious lo sapete già.

Twitter è un servizio di microblogging: si possono scrivere post al massimo di 140 caratteri. A me non piacciono i servizi di tipo generale ma twitter sì. Trovo che la sintesi possa indurre alla profondità e a volte ho assistitito o partecipato a scambi di tweets veramente interessanti. Molto utile per ricevere rapidamente notizie, lo uso più dei quotidiani per questo. Lo uso anche per fare annunci. Certo, evito quelli che dicono “vado al bar”, “sono al bar”, “bevo il caffé”, “mi lavo i capelli…” …

Facebook non mi piace ma lo uso perché mi consente di raggiungere molta gente. Con un annuncio in Facebook raggiungo una buona parte dei miei studenti. Non partecipo a gruppi, salvo rare eccezioni. Troppi, molti troppo demenziali, molti troppo politici nel senso deteriore del termine, troppo effimeri.

Anobii serve a condividere libri. Uno di quelli che preferisco, anche perché mi piace leggere e parlare con gli amici di ciò che leggo. E poi è fatto bene. Lo uso in modo continuativo.

Scribd è un delizioso servizio per offrire i propri scritti. Piano piano ci trasferirò tutto quello che mi capita di scrivere. Mi occorre tempo.

Youtube, inutile che dica cos’è. Ci metto ogni tanto qualcosa ma giusto per necessità didattiche. Lo uso molto per divertimento ma anche per trovarvi risorse didattiche, riparleremo di questo.

Dotsub forse non è proprio un social network ma è un servizio clamoroso. Consente a chiunque di sottotitolare un video qualsiasi, proprio o di altri. Me ne sono servito una volta per utilizzare un mio video anche in inglese.

Flickr serve a condividere foto. Bello. Affascinante girare fra immagini che vengono da tutto il mondo, assolutamente. Lo uso ma poco perché non trovo il tempo, pensando che un giorno lo userò tanto.

StumbelUpon è simile a Delicious ma è dotato di un meccanismo che “fa inciampare” in siti che probabilmente interessano l’utente. Sono iscritto e mi piacerebbe usarlo ma per ora non ne ho il tempo.

Slideshare serve a condividere presentazioni, quelle tipo Power Point per intendersi. Mi piace ma non lo uso perché detesto le presentazioni che non faccio quasi mai.

Deviantart è il social network degli artisti. Chiunque crei opere d’arte di qualsiasi tipo rappresentabili con immagini può partecipare. Non lo uso perché non produco nulla di significativo ma mi piacerebbe. Quando sarò grande, forse.

TakingITGlobal è un social network finalizzato alla sensibilizzazione dei giovani per problemmi globali di tipo umanitario ed ecologico e alla realizzazione di progetti concreti. Mi sembra un cosa bellissima, sono iscritto ma per ora mi è mancato il tempo per esplorarlo seriamente. Anche questo lo farò da grande, quando sarò giovane appunto!

Di sicuro sto dimenticando qualcosa ma non fa niente.

Intervista

Tralascio le circostanze, sostanzialmente fortuite, che mi hanno portato ad essere intervistato da Stefano Balassone nel programma “RESTI TRA NOI” su RED tv (canale 890 di Sky).

Lascio anche perdere una serie di integrazioni e commenti che “a caldo” mi sembrava opportuno aggiungere all’intervista. Mi raccontava infatti Balassone che preferisce fare le interviste in diretta anziché in differita perché succede spesso che le persone intervistate chiedano di apportare delle correzioni a posteriori ma così si perde la natura di queste interviste che consiste, io credo, nel cogliere una sorta di instantanea della persona e di quello che in quella circostanza vuole trasmettere.

Non ne viene fuori un prodotto rifinito ma un qualcosa di più vicino a quello che si avrebbe da una conversazione occasionale con una persona incontrata per strada, un qualcosa che include entusiasmi, esitazioni, umori, accenti, alti e bassi, l’uomo così com’è insomma.

Ecco, se questo è vero allora mi piace e devo ammettere che rappresenta un uso del mezzo televisivo al quale non avevo pensato, essendo abbastanza imprigionato in quello che è forse il luogo comune della televisione solo di artifici composta, o quasi.

La cosa funziona bene anche perché Balassone si diverte moltissimo a fare queste interviste che prendono così vita grazie alla sua genuina curiosità. E siccome si diverte ne fa tante, al ritmo di tre interviste al giorno, tre faccia a faccia di mezz’ora ciascuno preceduti da un brevissimo accordo sul tema principale ma dove poi la conversazione fluisce liberamente.

Ancora più interessante è il caleidoscopio di anime che vien fuori da questa quantità di persone, 180 sino ad ora, che forse descrive un’altra Italia, ben diversa da quella che appare dalla mainstream information. Un’Italia, fatta di gente che immagina, crea, si dà da fare per perseguire obiettivi nei quali crede e che non necessariamente si riducono a denaro, potere, visibilità.

Forse un’Italia che è quella che mantiene in piedi il paese per davvero, malgrado tutto, e che Gianni Marconato ha descritto in un post recente sulla scuola che non funziona e quella che funziona, certamente meglio di quanto potrei fare io.

L’operazione di Balassone è resa credibile dal fatto che le interviste coinvolgono persone che svolgono le attività più diverse, scrittori, poeti, commercianti, artigiani, webbisti, politici, giornalisti, persone che hanno fatto qualcosa di eccezionale ma anche persone che apparentemente non hanno fatto qualcosa di particolarmente notevole, perché ogni persona può offrire una prospettiva eccezionale sul mondo.

Ebbene, come è naturale offro qui sotto il collegamento alla mia intervista ma soprattutto vi invito a frugare nell’archivo di “RESTI TRA NOI” perché ne vale la pena. Ho saputo che l’archivio è in via di perfezionamento nel senso che i link delle interviste vengono via via dotati da un abstract e, immagino, da tag (parole chiave) adatte a facilitare la ricerca. Questo è un tipico caso dove sarebbe interessante visualizzare la nuvola dei tag per visualizzare e perlustrare l’universo offerto dalle interviste, come forse anche un sistema di rilevazione del gradimento delle interviste da parte dei visitatori.

Assignment 3 bis …

Con questo post ritorno fugacemente sui temi dell’assignment 3.

Diario delle attività con Google Docs

Per quanto riguarda il diario delle attività con Google Docs, come è naturale, ognuno produce la sua versione, chi più sofisticata e chi più semplice o minimale.

Propongo la versione di Eleonora affinché altri possano prenderla ad esempio. Non da imitare pedissequamente ma da prendere come spunto per esplorare le possibilità. In particolare, non tutti hanno calcolato il voto medio e non tutti nello stesso modo. Come ha fatto Eleonora? Avete fatto diversamente? Si può fare diversamente? Se avete delle osservazioni da fare su questo argomento fatele con un vostro post.

Coltivare la connessioni

A coloro ai quali ho proposto la lettura di Coltivare le connessioni, ricordo che prima o poi mi aspetto di leggere delle riflessioni, non c’è assolutamente fretta, prima o poi …

Sessione online

A coloro i quali invece sono coinvolti o interessati nelle sessioni online comunico che ho prenotato la prossima sessione per mercoledì 16 alle 21. Appeno mi verrà inviato il link lo comunicherò in twitter, Facebook e nel Daily.

Assignment 4 bis: la Folksonomy

Tre marmellate su uno scaffale: more, prugne e mirtilli. Se non avessi messo delle etichette sui barattoli sarebbe un pasticcio, dovrei andare per tentativi perché sono tutte e tre più o meno blu scuro.

Buona idea quella di mettere le etichette. Continuo a fare marmellate.

Trenta marmellate di cinque tipi su più scaffali, messe tutte alla rinfusa. Dov’è finita quella di rosa canina? Ho fretta … mi arrabbio …

Faccio ordine: raggruppo tutte quelle di more su uno scaffale, poi quella di prugne su un altro e così via. Perfetto, ora non ho più problemi.

Non solo, mi rendo conto di avere realizzato un concetto importante: assegnando uno scaffale ad ogni tipo di marmellata ho fatto una classificazione dove ogni scaffale rappresenta una categoria.

Se mi lancerò nel business della marmellata ed avrò centinaia o migliaia di barattoli, magari di venti tipi diversi, sarà sempre un gioco da ragazzi andare a trovare a colpo sicuro la marmellata di arance amare, basterà scegliere lo scaffale etichettato “arance amare”.

Ecco cosa ho fatto: ho generalizzato l’impiego delle etichette associandole alla categoria anziché ai singoli barattoli e appiccicandole ad un luogo fisico, scaffale, cassetto o quello che volete.

Un’innovazione che mi consentirà di gestire una situazione che sarebbe altrimenti andata fuori controllo. Una cosa assolutamente positiva. Anzi, con questo sistema, potrei mettermi a produrre miele e classificare mieli di tanti tipi diversi e magari anche altri prodotti senza avere problemi per reperire quello che mi servirà. Basterà istituire categorie di categorie, per esempio una scaffalatura “marmellate”, una “mieli” e così via. Non c’è limite a questo procedimento di generalizzazione. Posso pensare a delle categorie di categorie di categorie, tipo una stanza “prodotti alimentari” che contiene tutte le scaffalature con mieli, marmellate eccetera, poi una stanza “abbigliamento” e via dicendo.

È proprio così che funzionano le classificazioni e, riflettendoci bene, mi rendo conto che il mondo è pieno di classificazioni. Si potrebbe dire che le classificazioni, in un certo senso, costituiscono lo scheletro della conoscenza. Esempi come la tavola periodica degli elementi, la tassonomia degli esseri viventi, la classificazione Dewey per le biblioteche sono ben noti e molto importanti e, a ben vedere,  siamo ormai così abituati a questo modo di descrivere il mondo che non ci facciamo nemmeno più caso. Appena si presenta la necessità di gestire una certa quantità e varietà di oggetti, di qualsiasi tipo essi siano, procediamo senz’altro ad istituire categorie partendo da una categoria generale iniziale, madre di tutte le altre che via via si annidano le une nelle altre per arrivare a descrivere tutti gli oggetti possibili che possono essere inclusi in quella certa categoria madre, libri, marmellate, articoli di un magazzino, pratiche nello studio di un commercialista, piante, animali, letteratura scientifica, file in un file system e via dicendo.

Anche gli ideatori di un famoso motore di ricerca in Internet, Yahoo!, affrontarono nel 1995 il problema della ricerca come un problema di classificazione. L’idea era quella di offrire una lista di tutto quello che c’era nel web. Affinché la lista fosse consultabile fu necessario organizzarla in una struttura gerarchica generata a partire da un piccolo numero di categorie principali. Una cosa del tutto logica dopo quello che abbiamo appena detto. Yahoo! mantiene ancora questa lista e la potete trovare all’indirizzo http://dir.yahoo.com/.

Di prim’acchito non sembra complicato fare una classificazione del genere. Si tratta in fin dei conti di compilare una lista di tutti i siti web esistenti e di piazzare ciascuno di essi nella sua categoria. In realtà la cosa non si è rivelata così semplice. In primo luogo c’è un problema di dimensione: il numero di siti presenti in Internet si valuta sull’ordine dei miliardi. Tuttavia finché la questione è di mera quantità tutto si riduce ad una faccenda economica: se il business lo giustifica si tratta semplicemente di pagare uno staff adeguato. In realtà c’è anche un altro problema che è invece puramente di natura qualitativa e quindi non è detto che possa esser ridotto ad una questione economica.

Finché l’ambito è relativamente ristretto, le categorie sono facilmente ed univocamente identificabili, gli oggetti da classificare sono stabili, altrettanto facilmente identificabili e senza sfumature, allora non è difficile fare  una classificazione di tali oggetti. Con il nostro esempio delle marmellate non ci sarebbero problemi. Ma fra miliardi di siti web di ogni tipo immaginabile e le marmellate fatte in casa c’è una differenza non trascurabile!

Classificare un oggetto in una categoria, all’aperto per così dire, dove l’oggetto può essere una qualsiasi cosa al mondo, può rivelarsi un compito molto difficile. Così difficile che per designare colui che svolge tale compito si è fatto ricorso ad un vocabolo che normalmente alberga nel mondo della filosofia: si dice infatti che chi svolge questo tipo di lavoro, per esempio per sviluppare e mantenere la “directory di Yahoo!” fa l’ontologo.

L’ontologia studia la proprietà dell’essere delle cose e le relazione che le cose, nella loro essenza, possono avere fra loro. Come probabilmente iniziate ad immaginare, la faccenda si fa pesante, infatti l’ontologo non ha vita facile. Molto meglio disquisire di questioni ontologiche davanti al camino bevendo un buon vino che trovarsi sul campo a fare l’ontologo!

Andiamo a vedere un po’ la directory di Yahoo! in proposito.

Queste sono le 14 categorie generali che includono tutte le altre. Possiamo scendere in ognuna di queste fino a trovare quella che ci interessa. Facciamo un esempio scegliendo “Science” e limitiamoci ad estrarre un piccolo frammento della lista che viene fuori.

Qui a destra riporto un frammento della lista. Il numero fra parentesi a fianco di ogni sottocategoria rappresenta il numero di link che ciascuna di esse può offrire qualora esse vengano selezionate. Tuttavia si vede come alcune siano invece seguite dal carattere @ invece che da un numero. Ebbene, queste sono sottocategorie che non fanno parte della categoria madre in questione secondo la classificazione Yahoo! e che tuttavia gli ontologi di Yahoo! non se la sono sentita di non menzionare. Per esempio, la medicina non è inclusa direttamente nella categoria “Scienze” ma non si può disconoscere che essa abbia dei nessi sonstanziali con il dominio delle scienze, per numerosi motivi, e se andiamo a vedere troviamo che la medicina è stata piazzata nella categoria “Health”. Qualcuno di voi potrà essere d’accordo con la scelta degli ontologi di Yahoo! mentre altri non lo saranno ma non ha tanto importanza cosa sia “vero”. Ha invece importanza il fatto che la risposta non sia manifesta e condivisa e che non si tratta neanche di essere più o meno esperti della materia. Un ricercatore biomedico e un direttore sanitario potrebbero avere opinioni differenti a riguardo, pur essendo molto competenti.

Due anni dopo Yahoo!, nel 1997, appare Google, un altro motore di ricerca, apparentemente dimesso rispetto agli altri, ormai sulla strada di divenire portali in grado di offrire una varietà di servizi. Google si presenta invece con una semplice pagina bianca dove nel centro campeggia una casella di testo per inserire le chiavi di ricerca sormontata dall’ormai celebre logo variopinto.  Malgrado ciò il successo di Google è stato travolgente arrivando oggi a dominare stabilmente il mercato dei motori di ricerca. Secondo una ricerca della Compete.com, un’azienda americana specializzata nell’analisi del traffico web,  attualmente Google detiene il 74% del mercato, seguito da Yahoo! con il 17%, Bing (il motore di ricerca “della Microsoft) con il 7%, Ask con il 2% e AOL con 1%, con una tendenza ad un ulteriore crescita del divario.

È evidente che nell’approccio di Google ci doveva essere qualcosa di sostanzialmente diverso e che potremmo esemplificare con il motto: un tempo esistevano le classificazioni, ora esistono i link! Un’idea che Clay Shirky nel suo articolo Ontology is Overrated: Categories, Links, and Tags descrive particolarmente bene.

Nella figura seguente è rappresentata una generica gerarchia. Ognuno può pensarla nel modo che gli è più congegnale, per rappresentare la struttura di un’azienda, una tassonomia, la classificazione dei libri di una biblioteca, un file system o altro.

Abbiamo visto prima che nella directory Yahoo! le categorie sono state affiancate dalle pseudo categorie, per esempio la sottocategoria “Medicine” è citata anche all’interno della categoria “Science” malgrado il fatto che appartenga alla categoria “Health.” Ponendo all’interno della categoria “Science” la voce “Medicine@”, si crea di fatto una connessione fra “Medicine” e “Science,” una connessione che la classificazione gerarchica di Yahoo! non avrebbe altrimenti descritto.

Non è difficile immaginare che la quantità delle connessioni possibili travalica ogni possibilità di previsione e che la loro rilevanza è fortemente dipendente dal contesto. Qualsiasi classificazione può essere arricchita da connessioni e la questione se esse possano essere ritenuti da taluni più rilevanti di quelle inerenti alla classificazione diviene una questione di visione del mondo. In altre parole, la classificazione proposta da Yahoo! riflette la visione del mondo dei suoi ontologi ed è probabilmente veramente ozioso domandarsi se la loro visione sia più o meno vera della visione del mondo che altri potrebbero avere.

A nessuna autorità può essere impedito di proporre la propria visione del mondo mediante un’accorta classificazione ma non si può nemmeno impedire che qualsiasi utente dell’oggetto di quella classificazione valorizzi certi collegamenti che essa non prevede.

Insomma, non possiamo fare a meno di avere classificazioni e connessioni, classificazioni e link:

Sino ad ora le tecnologie disponibili hanno imposto di lavorare prevalentemente con le classificazioni essendo la realizzazione di queste già di per sé molto onerosa ed essendo assolutamente impossibile contemplare tutti i collegamenti possibili.

Uno degli aspetti importanti di Internet è che le connessioni sono intrinseche alla sua natura: Internet è fatta di link. Gettate un insieme di oggetti in Internet. Oggetti di qualsiasi natura in qualsiasi numero. Ebbene, i link cresceranno spontaneamente in un intrico non dissimile da quello della piante in una foresta lasciata crescere indisturbata. Poco importa che quelli oggetti siano stati collegati a priori fra loro da un struttura gerarchica. I link vi cresceranno sopra comunque e, se la numerosità lo consentirà, alla fine da quello che sembrerebbe solo caos finirà per emergere una struttura e questa struttura emergente potrà alfine mascherare e rendere inutile lo scheletro gerarchico iniziale. A quel punto, forse, lo scheletro si potrà anche buttar via:

L’intuizione cruciale degli autori di Google è stata riconoscere che in Internet non è necessario piazzare per forza  tutto sugli scaffali prima ma è invece sufficiente lasciare crescere le connessioni da sole ed utilizzarle dopo che queste sono spontaneamente emerse. Insomma, in Internet non c’è bisogno di scaffali.

In pratica quando sfoglio un catalogo mi fido della visione del mondo di chi ha fatto la classificazione, quando uso Google mi fido della struttura di link emersa dal caos di Internet.

Sono abbastanza sicuro che se in era pre-Google avessimo fatto un sondaggio su quale fosse ritenuto il sistema più affidabile, avremmo assistitito ad un plebiscito a favore del catalogo; sarebbe interessante farlo anche oggi sondaggio del genere.

E invece il mondo usa Google. Malgrado il fatto che tutti fossero abituati ed educati a confidare nelle classificazioni tutti hanno preferito affidarsi a quella piccola magica scatolina di ricerca offerta da Google. Perfino Yahoo!, che pochissimi anni prima aveva iniziato a “fare ordine” in Internet mettendo mano ad una grande classificazione, la Yahoo! directory per l’appunto, ha dovuto accettare la magia di Google, e nel vero senso della parola perché per un certo periodo, prima di sviluppare un sistema di ricerca proprio, ha usato proprio il motore di Google.

Già vedo gli apocalittici insorgere a difesa del valore dell’ordine minacciato dal caos, dell’autorevolezza minacciata dall’incompetenza e forse infine della cultura minacciata da una nuova forma di anarchia. Non ci tengo particolarmente ad essere annoverato tout court fra gli entusiasti ma se si è animati da un minimo desiderio di capire come stanno le cose è difficile esimersi dal domandarsi perché, malgrado questi allarmi, le persone con Google trovano quello che cercano.

L’apparentemente innocua affermazione che “le persone con Google trovano quello che cercano” ha in realtà la forza dirompente della massa. Vale a dire che centinaia di milioni di volte, anzi miliardi di volte, quelle ricerche funzionano, per il semplice motivo che di solito le domande si fanno volentieri a chi ha dimostrato di dare risposte utili.

Questa si chiama autorevolezza, un’autorevolezza conquistata sul campo dalla massa di attori che in Internet che costruiscono inconsapevolmente ciascuno il proprio peso semplicemente abitandovi. Un nuovo tipo di autorevolezza che certamente fa rabbrividire una schiera di apocalittici ma che inevitabilmente affianca l’autorevolezza convenzionale, basata su di un accreditamento di qualche tipo, per esempio accademico.

Ho detto prima che non ci tengo ad essere annoverato fra gli entusiasti, non perché questi non mi piacciano ma perchè sono convinto che sia il dichiararsi apocalittico che il dichiararsi entusiasta si risolva in un esercizio del tutto ozioso. Le cose accadono, sono sempre accadute in modo assolutamente indifferente alle sorti delle battaglie fra apocalittici e entusiasti. Le cose accadono quando maturano le condizioni favorevoli.

Questo nuovo concetto di autorevolezza è insito per esempio in una nuova parola: la folksonomia, della quale riporto qui la definizione data in Wikipedia:

Folksonomia è un neologismo derivato dal termine di lingua inglese folksonomy che descrive una categorizzazione di informazioni generata dagli utenti mediante l’utilizzo di parole chiave (o tag) scelte liberamente. Il termine è formato dall’unione di due parole, folk e tassonomia; una folksonomia è, pertanto, una tassonomia creata da chi la usa, in base a criteri individuali.

Nel caso delle ricerche in Internet il meccanismo escogitato da Google, denominato PageRank e basato sull’assegnazione di un peso (ranking) calcolato dal numero e dall’importanza dei link che richiamano le pagine, ha eliminato d’un tratto la necessità di ricorrere ad una classificazione.

In molti sistemi invece si ricorre ad una classificazione che è  realizzata dall’utenza nel suo insieme mediante la pratica del tagging. Ognuno memorizza gli oggetti che gli interessano attribuendo loro le etichette che ritiene più appropriate. Ecco, la classificazione spontanea che ne emerge si chiama folksonomia e delicious ne è un ottimo esempio.

Ho già osservato come le classificazioni gerarchiche si applichino con maggiore facilità quando  l’ambito è relativamente ristretto, le categorie sono facilmente ed univocamente identificabili, gli oggetti da classificare sono stabili, altrettanto facilmente identificabili e senza sfumature.

Quando invece si tratta di classificare oggetti che possono riferirsi ad un ambito arbitrariamente ampio, come oggetti Internet o libri, possono emergere problemi veramente difficili da risolvere. Consideriamo l’esempio della classificazione di libri in una grande biblioteca dove vi sia la categoria “Unione Sovietica”. Che fare dello scaffale “Unione Sovietica” dal 1991 in poi? Possiamo lasciare tutti i libri in quello scaffale? O forse ha senso lasciarvi solo quelli strettamente pertinenti all’Unione Sovietica nella sua interezza ponendo per esempio quelli che in realtà si riferiscono all’Ucraina in una nuova categoria apposita? Oppure, se la categoria “Ucraina” esisteva come sottocategoria di “Unione Sovietica”, ha senso lasciarla come sottocategoria di uno stato che non esiste più? E che fare dei nuovi ingressi post 1991?

O, per fare un altro tipo di esempio, come affrontare la classificazione di libri che sono evidentemente interdisciplinari? Vi sono degli autori che rappresentano un incubo per chiunque si trovi a classificarne i libri. Uno di questi è Stefano Beccastrini che ha una vera e propria passione per scrivere libri inclassificabili, caratteristica questa, sia detto per inciso, che li rende molto interessanti.

More about Matematica e geografia. Sulle tracce di un'antica alleanzaMore about Il cammino della matematica nella storiaL’ultimo, che ha scritto insieme alla moglie Maria Paola Nannicini, si chiama Matematica e Geografia, che affianca deliziosamente il precedente, Il cammino della matematica nella storia. Come classifichiamo questi due libri? Tutti e due in “Matematica”? O uno in “Geografia” e l’altro in “Storia”? Oppure nuovamente tutti e due insieme in qualcosa tipo “Insegnamento interdisciplinare”? O “Insegnamento” tout court? sono sicuro che se li leggessimo tutti quanti siamo e dopo ci mettessimo ad immaginare tutte le classificazioni possibili ne verrebbe fuori qualcosa di simile ad un caos.

Tuttavia da questo caos finirebbero per emergere delle regolarità, prevalenze, pesi reciproci, schemi, tutte regolarità lecite e descrittive della varietà dei punti di vista possibili. Insistendo sull’esempio appena fatto, sarebbe veramente limitante piazzare questi due libri nelle categorie più ovvie, storia, geografia o matematica, perché uno dei loro pregi sta proprio nel fatto di mettere in luce come sia importante contaminare le discipline scolastiche convenzionali e ad un ricercatore interessato a questioni di metodologia didattica potrebbero sfuggire, con simili classificazioni.

Arrivati a questo punto vi lascio riflettere e vado a riorganizzare la cantina, è un lavoro che impegnerà tutta la domenica. Ho deciso di fare questo lavoro perché mi hanno regalato una macchina nella quale, mediante una tastiera, posso inserire parole chiave, per esempio more, mature, ciliege, 2005 e via dicendo. Una volta inserite le parole tutte le etichette corrispondenti alle parole chiave inserite si illuminano magicamente così da individuare in un attimo le marmellate che desidero. Non mi chiedete come funziona, so solo che funziona.  Ho deciso quindi di levare le etichette dagli scaffali e di iniziare da capo ad etichettare le  marmellate direttamente sui barattoli, come facevo all’inizio di questo discorso. Anzi, su ogni barattolo potrò appiccicare nuove etichette tutte le volte che mi verrà in mente un attributo che potrebbe rivelarsi interessante: tipo di frutta, anno di produzione,  troppo cotta, poco cotta, meno zucchero, poco matura … anzi, tutti in casa potranno fare lo stesso, se saremo in più di uno a fare marmellate, e tutti potremo trovare rapidamente le marmellate preferite.

Il problema poi sarà un altro: chi le mangerà tutte queste marmellate?

Assignment … non numerato: saper ascoltare …

Ieri sono andato a vedere A serious man, l’ultimo film dei fratelli Coen.

È pericoloso e molto frequente attribuire ad altri, a cause esterne, organizzazioni, cattiva sorte o addirittura a maledizioni, casi avversi che sono forse invece dovuti alla propria incapacità di ascoltare e quindi mutare prospettiva. Questo mi pare che dicesse il film, in sintesi.

Una enorme parte degli innumerevoli problemi che affliggono le società più ricche ed anche gli individui che le compongono, derivano da una crescente incapacità di ascoltare. Anche molti problemi apparentemente tecnici, istituzionali, meramente organizzativi derivano da una carenza culturale che riassumerei sinteticamente e molto semplicemente in “carenza di ascolto”.

È bene tenere presente che la pratica dell’ascolto, a tutti i livelli, non è solo di fatto fuori moda ma è anche ritenuta antieconomica, almeno nel breve periodo.

Quando si ascolta non si fa e questo oggi non piace. Quando si ascolta non si accumula prodotto, non si muove nulla, non ci si muove. La pratica dell’ascolto non si misura, non è quantificabile e quindi all’homo economicus non serve.

Si assiste così al risultato perverso per cui coloro i quali, in quanto caricati di responsabilità pubbliche, dovrebbero avere particolari attitudini all’ascolto, si rivelano sistematicamente i più incapaci.

Salvo eccezioni, i politici non capiscono “la base”, i vescovi non capiscono le greggi, i manager non capiscono il mercato, gli insegnanti non capiscono i loro studenti. La base e le greggi si assottigliano riducendosi a club di fedeli, i manager sono sempre più perseguitati dall’imprevedibilità delle disruptive technologies, gli studenti, obbligati allo studio, sviluppano meccanismi di difesa che sono l’esatto opposto di quello che la pedagogia insegna, tutti disimparano l’ascolto, tutti competono.

A scuola si studia ma non si ascolta, a scuola si “fa lezione” o si “interroga”. Non c’è tempo per ascoltare e, mancando l’ascolto, tutto quello studio, anche se condotto con risultati scolastici brillanti, risulta in larga parte sterile.

All’università si ascolta ancora meno. Lo si vede anche da come sono gestiti gli spazi fisici o addirittura da come vengon progettate le strutture nuove, magari rutilanti di marmi e guarnite di strutture tecnologiche, ma in realtà nuove solo nell’odore del nuovo, nel lucido del nuovo, nel non vissuto del nuovo. Nuovo che abbaglia e euforizza sempre un po’ ma già manifestamente effimero.

E il retrogusto è quello delle televisioni a colori nelle baraccopoli del sottoproletariato di tante metropoli, il retrogusto è quello del “pacco”. Scartato il pacco viene fuori il pensiero fermo, statico, quindi in realtà il non pensiero. Un non pensiero con il quale non è stato pensato che la formazione è intrisa di dialogo e di confronto fra pari e fra non pari. Un non pensiero anche provinciale che impedisce di andare a vedere come sono fatte le università che funzionano in giro per il mondo, prima di metter mano alle proprie, quasi sempre per finta.

Nella nostra università non è previsto che la gente ci viva dentro, ci studi, ci conversi, ci si possa rilassare, oziare, connettere con il mondo esterno ivi comprese altre università, seguire lezioni in Internet di altri insegnanti, accedere ad altre risorse didattiche, alle Open Educational Resources. Non è previsto, in generale ascoltare, che non vuol dire stare a lezione e nemmeno interrogare. Nessuno ascolta nessuno. Tutti competono con tutti. Studenti e professori. Improduttivamente, sia gli uni che gli altri.

Sono quasi sicuro che una maggior parte dei docenti ritengano considerazioni del genere una perdita di tempo, se non pericolose. Anche la valutazione da parte degli studenti è ritenuta da tanti una perdita di tempo, se non un pratica pericolosa.

E alfine anche gli studenti ritengono l’ascolto una perdita di tempo e finiscono con l’essere interessati solo a ciò che produce crediti nel più breve tempo possibile, strategia ormai generalizzata e malamente cammuffata con il desiderio di imparare “ciò che realmente serve nel lavoro”. L’ascolto non è praticamente mai incluso in “ciò che serve realmente nel lavoro”.

Nei percorsi di formazione (in realtà non sono di formazione bensì di semplice istruzione), stipati di tutto “ciò che serve realmente nel lavoro” in una dissennata e angosciante crescita di informazioni, è difficilissimo inserire proposte che affianchino l’ascolto allo studio, pur con tutta la buona volontà, perché gli studenti hanno in larga maggioranza la sensazione di perdere tempo.

Incidentalmente, vorrei far notare che ascolto non significa solo ascolto del prossimo, preoccupazione per il prossimo, concernimento per una categoria di persone ma significa anche ascolto del mondo, delle cose, attitudine a capire come stanno le cose e soprattutto le relazioni fra esse, attitudine all’ascolto di linguaggi non proposizionali ma non per questo meno portatori di significati.

Alla fin fine, la carenza di esercizio all’ascolto, trasforma anche lo studio medesimo da pratica di conoscenza in mero apprendimento di istruzioni, istruzioni per l’uso di una realtà oggettiva, trasmissibili per mero passaggio di descrizioni.

Eppure le teorie dell’apprendimento si vanno spostando sempre più sul fabbricar mondi, ognuno il suo, sospeso mediante connessioni di ogni genere a innumerevoli mondi da altri fabbricati, in assenza di un mondo oggettivo e riconoscibile che funga da sistema di riferimento assoluto. E i filosofi su tutto questo vanno arrovellandosi su quale sia infine il concetto di verità visto e considerato anche che la scienza, che doveva rappresentare la via maestra per la conoscenza del mondo quale esso si immaginava che fosse, macchina fatta di macchine, ci ha ormai abituati, ormai da un secolo, a convivere con descrizioni apparentemente assurde e assolutamente contrastanti fra loro ma tutte perfettamente funzionanti.

Mai come ora, la famiglia umana, si è trovata a misurarsi in modo così impari con la complessità del mondo, proprio in virtù di quelli strumenti che dovevano servire a riconoscerne i mattoni e l’ordine e che pur son serviti a migliorare così tanto la condizione materiale dell’uomo; mai come ora è stato così necessario fermarsi e cercare di recuperare il valore dell’ascolto, capacità innata in tutti gli esseri viventi non soffocati da un eccesso di raziocinio, ivi compresi i bambini.

Mai come ora, nelle attività di cura dell’uomo, ove cura della salute, ove della formazione, è stato così necessario recuperare il valore dell’ascolto.

Qualcosa si muove ma siamo ben lontani da dove potremmo essere. Un esempio positivo è l’ascolto che è stato dato ad uno studente, Fausto, che aveva proposto una proiezione commemorativa della versione integrale della Last Lecture tenuta a Pittsburgh presso la Carnegie Mellon University il 18 settembre 2007 dal professor Randy Paush, che sapeva del tempo che aveva da vivere, terminato il 25 luglio 2008. Di questo ascolto va dato atto a Rosa Valanzano, attuale presidente del corso di laurea di medicina a Firenze. Il fatto è stato rilanciato proprio da Fausto mediante un opportuno post nel blog di CIN@MED.

Al di là della toccante vicenda umana e del valore del discorso di Randy Paush che merita certamente ascolto, vorrei mettere in luce l’evento inusitato dove una facoltà raccoglie e realizza l’intuizione di uno studente. Ecco, un evento del genere non dovrebbe essere inusitato ma dovrebbe essere una pratica costante. Una pratica volta non soltanto a raccogliere intuizioni e suggerimenti ma anche a valorizzare tante attività collaterali e di supporto alla didattica che molti studenti sono disposti a fare, sempre che venga concesso loro lo spazio ed il riconoscimento.

Se gli studenti percepiscono, come avviene di norma, che tutto ciò che esula dalla routine di studio e esami vale poco o niente e che in particolare a poco valgono spirito d’iniziativa, fantasia e pensiero laterale, quando saranno “formati” propagheranno lo stesso messaggio e, inerentemente, la stessa scarsa attitudine all’ascolto. Fatto quest’ultimo particolarmente grave per persone che si sono prefisse di dedicarsi ad una professione di cura.

La malattia del “non ascolto” tuttavia è generalizzata, è il frutto di un malcostume e di una formazione carente che si manifesta come una vera e propria patologia della società e della quale uno dei sintomi più evidenti è la distanza delle istituzioni dai cittadini. Questa percezione di distanza fra istituzioni e individui è un sintomo molto pericoloso in presenza del quale non si può pensare di costruire una società sana e competitiva, dove lo sforzo di chiunque sia apprezzato e valorizzato a prescindere dalla propria identità, dove chi lavora sia contento di farlo perché ne percepisce il valore per la comunità, dove le forme di lavoro precario comportino sicure forme di capitalizzazione per l’inserimento nel mondo  del lavoro.


P.S.

E l’assignment in cosa consiste? Non lo so di preciso. Dovevo scrivere un’altra cosa e invece ho scritto questa. So tuttavia che il tema è rilevante per tutti i mestieri che fanno o andranno fare gli studenti di questa blogoclasse, professioni sanitarie, insegnanti, operatori della formazione. Vedete un po’ voi … l’assignment potrebbe essere: pensateci, e se ne vale la pena scrivete qualcosa …