Mi ritrovo completamente immerso nella scrittura del manuale su LibreLogo, la versione del linguaggio Logo di Seymour Papert che gira all’interno di documenti LibreOffice. Si sta rivelando un lavoro sempre più impegnativo, che mi vede fare un percorso a ritroso.
Avevo preso le mosse pensando di tradurre l’unico testo abbastanza ampio di un autrice ungherese, Lakó Viktória. Ma abbastanza presto ho iniziato a divagare seguendo il filo dei miei pensieri, soprattutto nel concepire gli esercizi. Quindi ho preso a scrivere per conto mio, riferendomi all’originale qua e là.
Ma sempre più riflettendo sugli esercizi che mi riportavano indietro, all’annosa questione dell’insegnamento della matematica a scuola, alle mie personali esperienze, a quelle che mi faccio narrare, a vecchie letture, è stato inevitabile immergersi nuovamente e profondamente nel pensiero di Seymour Papert; nelle motivazioni fondamentali che hanno dato vita all’esperienza di Logo e nel domandarsi come questa sia finita diluita nel calderone del “coding”, nella forma di una sorta di paese dei balocchi, superficialmente entusiasmante per taluni, oggetto di derisione per altri
Sono quindi tornato indietro, traducendo un capitolo di Mindstorms (quello sulla “matofobia”) per inserirlo nel manuale, dopo la traduzione. Poi, non sono riuscito a fermarmi, finendo col tradurre anche il capitolo successivo, sulla matematica della Tartaruga; in pratica invitando Papert a introdurre il tutto prima che ne parli io. Mi pare che ne valga la pena.
Tradurre vuol dire studiare, a fondo. E riflettere. Lascio tutto indietro, arrovellandomi su quali siano, infine, i messaggi giusti da proporre nel mio primo laboratorio di tecnologie per l’insegnamento ai 300 studenti di Formazione Primaria che conoscerò in ottobre. Ho tanti impegni e scadenze ma non riesco a pensare che a questo.
Rimuginando quindi le parole di Papert e riesaminando qualche esercizio che avevo inserito nel manuale, mi riviene in mente la lettura di Emma Castelnuovo (L’officina matematica, La Meridiana, 2008), mi rammento dei suoi laboratori fatti con materiali “poveri”, ricchi di “illuminazioni” matematiche, non meno umanistici di lezioni di italiano o storia. La mia passione per lo scrivere codici si apparenta assai di più a queste letture che a tante schiume mediatiche. Credo che il manuale finirà nutrendosi sempre più di queste suggestioni.
E così, volendo andare fermamente in avanti, scopro di tornare molto indietro, come fossi preda di un curioso inevitabile automatismo. E mi viene in mente la lettura di Franco Lorenzoni (I bambini pensano grande, Sellerio, 2014), i dialoghi dei suoi bambini, che mi hanno aiutato così tanto nel laboratorio che feci nella scuola primaria di Strada in Chianti. Del resto è leggendo quel libro che avevo ritrovato Emma Castelnuovo.
Vado quindi a rivedere Casa-laboratorio Cenci e mi imbatto nell’appello perché bambine e bambini siano liberi da schermi e da computer. Sapevo della posizione di Lorenzoni, che non vuol sentire di tecnologie fino a una certa età, e mi era rimasta lì a scavare dentro. Per la natura delle cose di cui mi occupo mi ritrovo nel bel mezzo di una corrente impetuosa, ma quel tarlo stava sempre lì, a rodere. Leggo l’appello e vari interventi. Mi pare che quel dibattito sia nato intorno al 2012, non so se stia andando avanti. Lo leggo e lo rileggo e mi pare di essere pienamente d’accordo, mi pare di non poterlo ignorare: “L’uso di computer e supporti informatici va introdotto, con gradualità e cautela, solo dopo gli 8 anni”.
Allora, con non pochi tormenti, continuo il manuale, ma enfatizzando ancora più la natura testuale di Logo e ciò che ne deriva, attingendo a piene mani dai pensieri di Papert, anzi invitandolo a fare delle lezioni al posto mio, introducendo riferimenti a esperienze fatte con oggetti semplici, con l’aiuto delle idee di Emma Castelnuovo, e aderendo pienamente all’appello di Franco Lorenzoni.
Sarà questo il coding che porterò in classe.
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