Qualche giorno fa una persona che sta scrivendo un progetto per bambini in contesti svantaggiati mi ha chiesto cosa pensassi del valore formativo di Lego. Da principio mi è parsa una domanda facile. Sono sicuro che per me è stato utilissimo. I miei avevano trovato casa vicino al lavoro, in aperta campagna. Dalla finestra di camera mia vedevo passare il treno a vapore e il contadino lavorava la terra con buoi. Bambini nei pressi non ce n’erano e l’asilo non sapevo cosa fosse. Nipote di zappatori maremmani emigrati a Firenze ma figlio del dottore, avevo il Lego e il Meccano. Passavo le giornate a costruire, disfare e ricostruire. Centinaia di volte. Di certo quel lavoro forsennato non può non avere inciso sulle mie capacità di problem solving.
Ma già iniziando a rispondere ho iniziato a rendermi conto che la questione è assai più articolata. C’è un negozio specializzato nelle costruzioni Lego nel paese qua vicino e tutte le volte che ci passo davanti do un’occhiata perché i giocattoli mi piacciono. Vedo oggetti fantastici che riproducono le scene più svariate e anche macchine complicatissime, tutte rigorosamente fatte di Lego. Però quello non ha niente a che vedere con il Lego che usavo io da piccolo, eccetto per lo standard che consente di incastrare i pezzi insieme. Il mio Lego stava in una scatola cilindrica che conteneva un misto di mattoncini bianchi e rossi di varia misura ma tutti della medesima foggia. C’erano le piattaforme che facevano da fondamenta alle costruzioni e poi qualche porta e qualche finestra. Quei pezzi li ho usati così tanto che li potrei disegnare minuziosamente. I mattoni bianchi servivano a fare le pareti e quelli rossi i tetti. Per realizzare l’inclinazione dei tetti occorreva impilare i mattoni usando solo una delle due file di bottoni. Era un’operazione delicata quando ci si avvicinava alla sommità del tetto e si imparava la tecnica di sfalsare i mattoni, come fanno i muratori con quelli veri. Sulla scatola erano raffigurati alcuni esempi delle case che si potevano costruire. Nessuna istruzione. Come fossero fatte le case dall’altra parte bisognava immaginarselo. Riprodotti quegli esempi innumerevoli volte finivo per escogitare alternative, esplorando i limiti di quello che si poteva fare con i mattoni a disposizione.
Il Lego ora viene proposto in maniera completamente diversa. Certo, se uno vuole può, credo, comprare due scatole di mattoni bianchi e rossi ma penso che non lo faccia quasi nessuno, perché quello che viene offerto e che attrae i consumatori sono scatole di montaggio che contengono esattamente i pezzi necessari a costruire l’oggetto raffigurato con precise istruzioni. Il processo stimolato nelle due modalità, quella antica e quella attuale, è completamente diverso — orientato all’esplorazione e alla creatività il primo, all’esecuzione il secondo — orientato al riuso ossessivo il primo, all’acquisto compulsivo il secondo.
Che c’entra LibreLogo? C’entra almeno per due ragioni. Una storica: il matematico, informatico e pedagogista Seymour Papert, dopo avere inventato il linguaggio Logo presso il laboratorio di intelligenza artificiale del MIT, impostò una collaborazione con la Lego per creare magnifici robot, oggi disponibili in una varietà di linee e di fogge. Magnifici e molto cari. Una delle linee si chiama Mindstorms, nome che si rifa ai “micromondi” che Papert immaginava di creare con Logo. E Mindstorms è il titolo del più famoso testo di Papert sull’impiego di Logo.
L’altra ragione, che ci interessa di più qui, sta in quello che potremmo chiamare effetto pagina bianca. Il Lego antico, quello che ho conosciuto io, era una sorta di pagina bianca rispetto a quello che vediamo nelle vetrine oggi. Pagina bianca che da principio può bloccare l’iniziativa — oddio, ora che faccio? — ma che al tempo stesso libera la creatività per affrontare qualsiasi avventura. Lo stesso effetto che si prova con Logo, dove la metafora coincide con lo strumento: la pagina bianca è proprio una pagina bianca. In contrapposizione al profluvio di app e ambienti educativi, con percorsi preconfezionati e interfacce costipate di stimoli.
Sono due paradigmi diversi: da un lato uno strumento che puoi usare in totale libertà, i limiti coincidono con quelli della tua fantasia. Dall’altro un’offerta ridondante di strade preconfezionate dove tu puoi creare qualcosa ma all’interno di un mondo dove molto è stato già creato da altri per te. Esploratore-creatore da un lato, esecutore-consumatore dall’altro. Oggi si tende al secondo paradigma. Non sono in grado di dimostrare che uno sia meglio dell’altro ma io preferisco il primo. Ed è quello a cui mi attengo quando insegno. I feedback sono buoni.