Avevo promesso di lasciarvi tranquilli per una settimana. L’ho detto lunedì scorso. Dunque niente di nuovo, per qualche giorno ancora. Ma due parole sul metodo può essere utile dirle.
Non vado avanti senza feedback: devo sapere cosa state facendo, altrimenti un percorso del genere non ha senso. Non ho un “programma da finire”. Sì, un piano generale ce l’ho, ma non m’interessa realizzarlo fino in fondo. Me lo sono fatto perché una direzione da seguire ci vuole. Ma l’obiettivo non è finire il mio programma, l’obiettivo è che accada qualcosa di utile nella mente del maggior numero possibile dei partecipanti. Se il prezzo da pagare è rinunciare a due terzi del mio programma, benissimo, rinunciamo, nella fiducia che quei due terzi verranno eventualmente completati dopo il corso, fuori dal corso, in un percorso che le persone sapranno ormai seguire da sole, e nella misura che servirà loro.
Ma io come faccio a regolarmi? Semplice: ascoltando. Però voi dovete parlare, affinché possa farmi un’idea di quello che succede. Sì lo so è faticoso, più faticoso che ascoltare lezioni, studiare e comprimere tutta la propria espressività in un unico evento, l’esame, quasi sempre vissuto con ansia spropositata, rispetto all’evento in se, rispetto al proprio ruolo, alla propria età. Certo, studiare è faticoso, specie se si lavora e si ha famiglia. Ma è una fatica “abituale”, che si conosce. Diversa è la fatica di affrontare l’ignoto, la fatica di cimentarsi, di affrontare una via che non è tutta marcata, una via che non può essere la stessa per tutti, perché ognuno deve tracciare la propria, almeno in parte. Spalmiamo allora quella breve ma intensa ansia da esame nel quotidiano, trasformandola in energia utile per affrontare il nuovo, infine in competenza vera.
Quindi bisogna che qualcosa mi torni indietro, sennò il gioco non funziona. Ho aspettato l’occasione giusta per fare questo appello, sapendo che sarebbe giunta presto – ascolto, attesa…
E l’occasione, ottima, me l’ha offerta Giusi, potete cliccare questo link per leggerlo. Di solito uso i link, come ho appena fatto, per rimandare ad altri brani scritti nel blog, ma per questa volta riporto anche qui il commento per intero – anche perché varie parti avrei potuto scriverle io allo stesso modo:
L’inizio del laboratorio mi ha colta di sorpresa dopo una giornata colma d’impegni.
Una prima e fugace lettura del blog, mi ha spaventata, mi sono sentita esattamente come descritto dal professore in “ accogliendo nuovi studenti”, smarrita, persa…
Poi ho parlato a me stessa, mi sono presa il “mio” tempo, la calma di cui avevo bisogno e …il resto sarà diario..
Ho iniziato la lettura di questo blog aiutandomi anche con carta e penna per fermare parole, concetti, argomenti, e la lettura è divenuta appassionante come una pagina di romanzo, una ricchezza di mondi e pensieri che mi fa ancora una volta constatare quanto questa nostra professione d’insegnanti possa, debba e/o dovrebbe essere risorsa per il nostro Paese, ma questa è un’altra storia.
Io sono cronologicamente una “migrante digitale”, frequento il cyberspazio solo per ragioni professionali( sono insegnante della primaria per metà orario e contamino da anni la didattica tradizionale con quella digitale, sono supervisore di tirocinio in università per l’altra metà d’orario e non posso fare a meno di usare il web per comunicare con le studentesse) per il resto la mia vita sta solo nel mondo “reale”, nel senso che non frequento social network, non ho in merito pregiudizi verso che li utilizza, ma uso già troppo la tastiera e il mio tempo libero desidero dedicarlo alle passeggiate, alle letture, allo studio, a stare in compagnia delle persone che amo. Il tempo è un elemento importante nella vita “reale” e nel cyberspazio? Ho due figli ventenni che utilizzano computer e derivati , anzi mi sembra a volte che questi strumenti siano diventati il prolungamento del loro corpo, della loro mente… discutiamo molto in merito, abbiamo posizioni a volte distanti, ma il confronto con loro mi ha molto aiutata in questi anni a capire i bisogni anche dei miei alunni, anche se più piccini.
Io non posso fare a meno della narrazione che è alla base dell’umanità: abbiamo bisogno di storie per capire e capirci, per cercare di affrontare insieme la complessità della vita. In fondo anche questo mio scrivere è un modo per placare la mia ansia del nuovo, per trovare un “interstizio” in cui mettere un po’ di me. L’assurdo del cyberspazio, almeno a volte così mi sembra è che ci dà la sensazione di essere tutti globalmente vicini nel “villaggio globale” e anche nelle culture e poi fuori di casa lo “straniero”, per dirlo alla Camus, ci infastidisce e in qualcuno scatena odi primitivi. C’è qualcosa che non torna…
Vorrei chiudere con Calvino, uno dei miei autori preferiti, già citato nel blog:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”
Giusi
Al di là del piacere di ritrovare nel suo commento la splendida chiusa de “Le città invisibili” e al di là di varie altre affinità, l’intervento mi pare provvidenziale per suggerire a tutti la tonalità e il modo: Giusi non nasconde lo smarrimento ma ci dice:
Poi ho parlato a me stessa, mi sono presa il “mio” tempo, la calma di cui avevo bisogno e …il resto sarà diario.
Ecco, raccontate quello che vi sta succedendo. Esponete i dubbi, le difficoltà. Senza timori: del giudizio degli altri o del mio. Siamo tutti qui – me compreso – a cercare di imparare qualcosa che ci serve, non siamo qui a fare bella figura.
Fatelo per ora commentando questo post, o uno dei precedenti che vi sembri più pertinente. Io leggo tutti i commenti, ma li leggono anche altri studenti più esperti. Quindi siamo in molti a poter dare una mano.
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