Un post che trascrivo dallo stesso che avevamo utilizzato nel cMOOC #ltis13. Per chi vuole frugare fra gli oltre 100 commenti fatti alla prima versione questo è il link.
Non solo luci
Non vi ho chiesto di iscrivervi a nulla, eccetto la compilazione di un modulo minimale per partecipare al laboratorio. Qui si vuole promuovere la conoscenza degli strumenti liberi, degli standard aperti. Si vogliono mostrare gli interstizi liberi, ignorati o disdegnati da erbivori confinati in recinti fatti di ignoranza, comodità e facilità. Ma quegli interstizi potrebbero facilmente prevalere, se solo venissero popolati, come il sacchetto che conquista la terza dimensione quando viene soffiato. La consapevolezza del valore della libertà è il fondamento della società civile. Libertà dal laccio teso dal mercante avido, dal controllo invasivo del potere ipocrita, dal comodo conformismo.
Operare negli interstizi del cyberspazio è possibile ma richiede competenze e motivazioni che i più non hanno. Non mancano circoli di virtuosi che riescono a navigare e lavorare senza sporcarsi le mani, ma sono radi, circoli di esperti che finiscono col rimanere isolati nella loro torre d’avorio. Per chi se ne intende, frequentarli è goduria. Poi torni a casa, vai in classe, o anche al bar, e vedi che il popolo è altrove. A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?
Allora sporchiamocele, ma sapendo che ce le stiamo sporcando, che ci sono prezzi da pagare, talvolta rischi da correre. Nei prossimi giorni apriremo i blog, è impossibile non sporcarsi le mani: faremo degli account: affideremo qualche nostro dato ad un database gestito da terzi. Ma proporremo una manciata di opzioni, cercando di farlo in maniera ragionata.
Evitiamo per favore le guerre di religione, le partigianerie, che abbondano intorno a questi temi. Sappiamo che siamo tutti diversi, ognuno con la propria sensibilità e la propria unica prospettiva, e conosciamo il valore inestimabile della diversità. Non si giudicano i comportamenti qui, si vuole essere consapevoli del contesto, poi ognuno si rimbocchi le maniche e lavori come meglio crede.
Oggi propongo due letture, poi muoveremo il prossimo passo.
La prima lettura è un racconto di Cory Doctorow (ha già fatto capolino in una discussione). Doctorow scrive di fantascienza ma i suoi racconti non narrano di colonizzazioni spaziali bensì di colonizzazioni cyberspaziali. Per inciso il suo caso è interessante anche perché riesce a incrementare energicamente le vendite dei suoi libri distribuendoli liberamente in internet: regalando molto nel cyberspazio vende molto nello spazio. Interessante, no?
In questo link trovate la traduzione in italiano, scaricabile anche in versione pdf, da stampare o portare su un lettore per leggerlo più comodamente.
La seconda lettura è un breve pezzo che utilizzo da diverso tempo con gli studenti di medicina, ventenni, ormai abbondantemente nativi digitali ma quasi sempre del tutto ignari della questione. Lo riporto qui sotto con qualche piccolo aggiornamento.
Nota bene: questo NON è un post su Facebook. L’ho preso ad esempio solo perché è ben noto ai più. Le considerazioni svolte riguardano, in misure e modi differenti, tutti i servizi Web in qualche maniera “social”: i vari GoogleCosi che richiedono un’iscrizione a Google, Gmail, GoogleDocs, Google+ e via dicendo, poi Twitter, Linkedin, eccetera.
Non vi ho chiesto di iscrivervi a nulla, eccetto una mera email per partecipare al laboratorio. Qui si vuole promuovere la conoscenza degli strumenti liberi, degli standard aperti. Si vogliono mostrare gli interstizi liberi, ignorati o disdegnati da erbivori confinati in recinti fatti di ignoranza, comodità e facilità. Ma quegli interstizi potrebbero facilmente prevalere, se solo venissero popolati, come il sacchetto che conquista la terza dimensione quando viene soffiato. La consapevolezza del valore della libertà è il fondamento della società civile. Libertà dal cappio del mercante avido, del controllo invasivo del potere ipocrita, del comodo conformismo.
Operare negli interstizi del cyberspazio è possibile ma richiede competenze e motivazioni che i più non hanno. Non mancano circoli di virtuosi che riescono a navigare e lavorare senza sporcarsi le mani, ma sono radi, circoli di esperti che finiscono col rimanere isolati nella loro torre d’avorio. Per chi se ne intende, frequentarli è goduria. Poi torni a casa, vai in classe, o anche al bar, e vedi che il popolo è altrove. A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?
Allora sporchiamocele, ma sapendo che ce le stiamo sporcando, che ci sono prezzi da pagare, talvolta rischi da correre. Nei prossimi giorni apriremo i blog, è impossibile non sporcarsi le mani: faremo degli account: affideremo qualche nostro dato ad un database gestito da terzi. Ma proporremo una manciata di opzioni, cercando di farlo in maniera ragionata.
Evitiamo per favore le guerre di religione, le partigianerie, che abbondano intorno a questi temi. Sappiamo che siamo tutti diversi, ognuno con la propria sensibilità e la propria unica prospettiva, e conosciamo il valore inestimabile della diversità. Non si giudicano i comportamenti qui, si vuole essere consapevoli del contesto, poi ognuno si rimbocchi le maniche e lavori come meglio crede.
Oggi propongo due letture, poi muoveremo il prossimo passo.
La prima lettura è un racconto di Cory Doctorow (ha già fatto capolino in una discussione). Doctorow scrive di fantascienza ma i suoi racconti non narrano di colonizzazioni spaziali bensì di colonizzazioni cyberspaziali. Per inciso il suo caso è interessante anche perché riesce a incrementare energicamente le vendite dei suoi libri distribuendoli liberamente in internet: regalando molto nel cyberspazio vende molto nello spazio. Interessante, no?
In questo link trovate la traduzione in italiano, scaricabile anche in versione pdf, da stampare o portare su un lettore per leggerlo più comodamente.
La seconda lettura è un breve pezzo che utilizzo da diverso tempo con gli studenti di medicina, ventenni, ormai abbondantemente nativi digitali ma quasi sempre del tutto ignari della questione. Lo riporto qui sotto con qualche piccolo aggiornamento.
Nota bene: questo NON è un post su Facebook. L’ho preso ad esempio solo perché è ben noto ai più. Le considerazioni svolte riguardano, in misure e modi differenti, tutti i servizi Web in qualche maniera “social”: i vari GoogleCosi che richiedono un’iscrizione a Google, Gmail, GoogleDocs, Google+ e via dicendo, poi Twitter, Linkedin, eccetera.
Insomma, Piratepad io l’avevo solo menzionato, in fondo al post Una domanda, un compito e un’esplorazione, ma chissà come mai molti si sono messi in testa che usare Piratepad fosse un compito!
Fate domande. Fatene di più. E fatele all’aperto, qui, piuttosto che al chiuso. Sono le vostre domande che nutrono la comunità. Raccontante ciò che avete fatto. Non abbiate paura di dire cose banali. Per gli altri partecipanti è terribilmente utile conoscere i vostri dubbi, le difficoltà che avete incontrato e le eventuali soluzioni che avete trovato. Ed è anche utile per voi vedere come reagiscono gli altri ai vostri racconti.
Prima rammento che l’obiettivo di questa settimana è che tutti abbiano creato un blog. La settimana prossima ci doteremo del meccanismo necessario affinché ciascuno abbia percezione dei blog degli altri (e non solo) come di un’unica entità.
Chi vuole può già iniziare ad agire in questa prima settimana. Anzi, se ci avvantaggiamo è meglio. Tuttavia occorre prima fare una riflessione. Per agire dovremo iscriverci ad alcuni servizi web. È un fatto inevitabile se vogliamo veramente capire cosa si può fare oggi con le tecnologie. Prima di affrontare questo insegnamento sono andato a studiarmi cosa avevano fatto i miei predecessori e, come mi immaginavo, anche loro avevano proposto l’impiego di una serie di servizi che richiedono un’iscrizione. Continua a leggere…
Aggiornamento 13 novembre. Nel post si menziona il futuro valore di capitalizzazione di Facebook, che invece ora è una realtà in quanto la società è quotata presso il Nasdaq dal 18 maggio scorso per un valore di circa 90 miliardi di dollari. Come spesso succede per alcune internet companies, le stime iniziali risultano troppo ottimistiche, infatti oggi il valore di mercato di Facebook si aggira intorno ai 40 miliardi di dollari. Ma tutto ciò non altera la sostanza del post.
Nota: questo NON è un post su Facebook, che ho preso ad esempio solo perché è ben noto ai più; le considerazioni svolte riguardano invece tutti i servizi Web in qualche modo “social”: i vari GoogleCosi che richiedono un’iscrizione a Google, Gmail, GoogleDocs, Google+ e via dicendo, poi Twitter, Linkedin, eccetera.
Dove invece chiudo con il discorso pratico sulle nuvole e chiudo anche a malincuore il flusso di post per questa blogoclasse, molto insoddisfatto per non essere riuscito a fare tutto quello che volevo.
Aggiornamento 23 febbraio: questo NON è un post su Facebook, che ho preso ad esempio solo perché ben noto ai più; le considerazioni svolte riguardano invece TUTTI i servizi Web in qualche modo “social”: GoogleTutto, Twitter, Linkedin, eccetera.
Una foglia di un leccio in una piazza di Firenze
Avrebbero mai potuto immaginare Marlowe, Goethe o Thomas Mann, che quel tema a cui si erano appassionati così tanto avrebbe riguardato l’uomo comune, anziché scienziati, filosofi, artisti? Come avrebbero potuto immaginare che quegli uomini che loro vedevano tribolare per la sopravvivenza quotidiana, oppure che vedevano completamente assorbiti dalle loro esistenze piccolo borghesi, si sarebbero trovati, un giorno nemmeno troppo lontano, a negoziare lo stesso diabolico patto, come loro avevano immaginato che solo uomini di scienza o artisti potessero fare? Certo, non che oggi la grande massa sia consapevole di trovarsi nel bel mezzo di un tale grave frangente, tutt’altro, ma è proprio questo il punto: rendersi consapevoli.
È diabolica la lusinga innocente, complice anche l’ignoranza e la sottovalutazione dei fenomeni che hanno luogo nel cyberspazio: – Eh ma la vita reale è qua! Quella virtuale è fittizia…
Niente affatto amici, la vita reale è di qua e di là. Perché gli innumerevoli servizi e benefici che tutti danno ormai per scontati, nativi digitali, immigrati digitali e anche non-digitali, nascono di qua, ma poi in qualche forma passano di là, nel cyberspazio dove vengono accelerati e potenziati, per poi tornare a sostanziarsi di qua, in quello che chiamiamo mondo reale.
È diabolica la lusinga nella sua semplicità: – Guarda ho scoperto un servizio incredibile e non costa nulla! Basta una semplice iscrizione… – ed è vero, non costano nulla tutte queste meraviglie, e salvo alcune eccezioni, che comunque sono marginali, non si riducono al solito trucchetto con il quale ti si fa abituare ad una cosa gratis e poi, quando ti sembra di non poterne fare più a meno, si inizia a fartela pagare. No, sono sempre gratis e il bello è che migliorano tutti i giorni, quello che ieri non si poteva fare oggi si può, anzi, si può fare anche meglio di quello che ieri avremmo potuto immaginare di chiedere, quasi un po’ imbarazzati: – Non è che potrei fare anche questo … ? – certo che puoi, anzi di più!
Miracoli della tecnica? Meravigliose ricadute collaterali della conoscenza scientifica che cresce a perdiesponenziale? – Ah sarà un bel sollazzo! ne vedremo ancora delle belle! Qua ce n’è per tutti ragazzi! – è vero, ce n’è per tutti, ma c’è anche dell’altro. Prendiamo Facebook – giusto a titolo d’esempio.
Per iscriversi ci vogliono pochi secondi e non si paga nulla. Con questo semplice atto ci troviamo un paese popolato da 850 milioni di persone. Se non si va troppo per il sottile nell’accettare nuove amicizie, in quattro e quattr’otto ci si ritrova con qualche centinaio di contatti. Si possono condividere pensieri, immagini, video, ci si può scrivere privatamente, si possono formare gruppi per lavorare su obiettivi comuni, vi si posso sviluppare applicazioni e tante altre cose. Virtualmente, grazie alla legge dei 6 gradi di libertà, in pochi colpi puoi raggiungere uno qualsiasi degli altri 850 milioni di iscritti. Ci ritrovi tutte le persone che hai incontrato in giro per il mondo, ritrovi anche il fratello emigrato in Canada con il quale non ti parlavi più da vent’anni – magari per scoprire che era meglio non ritrovarlo. Scopri diverse iniziative interessanti e perfino lodevoli, ma ti rendi conto che si tratta prevalentemente di una mostruosa happy hour. Tu puoi reagire con maggiore o minore entusiasmo, magari con fastidio, ma certo non ti sfugge l’enorme facilità con cui questa semplice mostruosità ti facilita i contatti con il prossimo. Poi cosa siano i contatti per davvero è un’altra storia ma non hai nemmeno tempo per pensarci, sei ubriacato dalla quantità, dalla contattabilità a gogò. Ti può piacere o non ti può piacere, ma riconosci che è tanta roba che ti viene data per niente, per una mera iscrizione.
Ma che c’entra il diavolo con tutto questo? Stiamo parlando di una mera applicazione tecnologica, in fin dei conti, no? No, stiamo parlando di una transazione di natura economica fra due soggetti che si accordano su di uno scambio di valori, uno ben consapevole di stare facendo un gran business, l’altro che si concede un piacevole sollazzo, ma del tutto ignaro del patto che va stringendo con il diavolo. Perché il diavolo? Come perché? E che si è sempre venduto al diavolo se non l’anima, se non se stessi? Ecco, ora lo potete fare, lo passiamo fare, lo faccio anch’io, e reiterate volte, magari con la scusa che devo perlustrare nuovi territori, anche quelli occupati dal nemico, ma lo faccio, ovvero li abito. Li abitiamo tutti quanti.
Vendere se stessi vuol dire qui vendere la propria identità, e anche questo può parere esagerato: – In fin dei conti ho dato un nome di login e una password, e poi nome e cognome. Sennò come fanno a trovarmi gli amici? Ma insomma, non ho poi dato così tante informazioni. In fin dei conti il mio nome e cognome si trova anche sull’elenco telefonico, forse da una quarantina d’anni!
Vediamole un po’ più da vicino queste informazioni.
Innanzitutto il “sistema dall’altra parte” individua il numero IP del mio computer, e quindi la mia localizzazione geografica. Poi identifica i cookie presenti sul mio computer, ovvero quei pezzetti di codice, che i siti web lasciano sui computer dei visitatori, come molliche di Pollicino, per ritrovare la strada nelle informazioni che consentono di svolgere il servizio verso ciascun utente. Poi prende nota del sistema operativo e del browser che sto usando, quindi traccia tutti i miei click e le relative destinazioni, accumulando una mappa delle mie preferenze e dei miei contatti. Tutte queste informazioni vengono condensate e associate ad un codice alfanumerico che mi viene appioppato. Tutto ciò che farò successivamente verrà similmente agganciato a quel numero che mi identifica in modo univoco nel mondo degli utenti di quel servizio, nel mondo degli 850 milioni di utenti di Facebook per esempio.
È così che quando faccio un nuovo account, io baratto la mia identità a fronte di un certo numero di servizi. Un’identità che all’inizio è composta da un numero relativamente modesto di informazioni, anche se magari piuttosto rilevanti, quali nome e cognome, ma che con il passare del tempo va arricchendosi costruendo un profilo che mi identifica sempre più accuratamente.
Ma cosa potrà valere mai la mia identità, uomo comune, privo di particolari attrattive, non povero ma nemmeno ricco, privo di informazioni critiche o strategiche, uno come tanti? Non tanto, quasi nulla effettivamente, ma qualcosa. Facciamo i conti. Pare ormai certo che prossimamente Facebook verrà quotata in borsa, si dice in primavera o in estate. Le stime che circolano parlano di una capitalizzazione dell’ordine di 100 milliardi di dollari. Prendiamola per buona, se poi saranno 50 o 150 la sostanza non cambia. Se gli utenti sono 850 milioni, allora ciascuno di essi “vale” 118 dollari. Vale perché Facebook non ha che le loro identità. Non ha fabbriche che producono scarpe, o montature per occhiali. Non ha stabilimenti nei quali entrano materie prime e escono prodotti, o parti di prodotti. Non ha camion, navi o aerei che trasportano prodotti. Non ha niente. Sì, ha dei capannoni pieni di server, o li affitta da altri. Ma non ha niente altro. Possiede solo le nostre identità, ed ognuna di queste vale 118 dollari, in media. Se andiamo a prendere i dati di fatturato e di utile, ebbene allora scopriamo che ciascuno di noi, in media, contribuisce al fatturato di Facebook con 5 dollari e produce un dollaro di utile all’anno, una miseria. È una situazione incredibile: Facebook siamo noi e solo noi! Senza quegli 850 milioni di manciate di informazioni da 118 dollari l’una, svanirebbe come una bolla di sapone, anzi rimarrebbe un considerevole buco sotto forma di server e infrastrutture inutili. Ciascuno di noi conta pressocché zero ma tutti insieme diventiamo un business colossale, uno dei più grandi business che si siano visti sul pianeta. Una genialata.
Il motivo per cui si genera tutto questo valore è semplice: chiunque voglia mettere sul mercato prodotti o servizi ha grande interesse in qualsiasi mappatura delle preferenze, magari messa in relazione con riferimenti geografici, sociali, anagrafici, professionali, solo per menzionarne alcuni. La pubblicità è l’anima del commercio, ma la pubblicità ideale è quella che consente a me venditore di concentrare il messaggio pubblicitario su chi è più maturo per recepirlo. Facebook vende esattamente questa roba.
E io, povero individuo, di quali opzioni dispongo in questo gioco, inizialmente innocente e un po’ trendy, ma poi inquietante mostruosità? Proviamo a individuarne alcune, graduandole in base alle possibili inclinazioni dell’utente.
Non ne voglio sapere niente. È molto semplice: non mi sono mai iscritto e non mi iscriverò mai. Vivo benissimo senza, dicono che pago il prezzo di essere fuori dal mondo. Non so che farmene di quel mondo, non mi interessa quell’oceano di banalità.
Ormai mi sono iscritto, ma poi mi sono accorto di una serie di cose che non mi piacciono per niente. A un certo punto ho cancellato il mio account con tutte le informazioni che ci avevo messo, e ho provato come un sollievo per essermi ritirato da una cosa che non mi interessa e anzi mi sembra preoccupante. Poi un giorno, ho appreso da un articolo sul giornale che sì, avevo cancellato tutti i miei dati ma solo per me! Facebook li conserva tutti e li conserverà finché esisterà, magari più a lungo di me! Mi posso consolare con l’idea che quel pezzetto di identità venduta sia rimasta lì, congelata, e che essa sia minima rispetto a quella che sarebbe potuta diventare se fossi rimasto dentro al sistema. Rimango tuttavia disturbato dall’irreversibilità del baratto, effettivamente un po’ diabolico.
Mi sono iscritto e ho dato vita a un’iniziativa interessante e utile: ho creato un gruppo di collegamento con i miei compagni di corso al I anno del corso di laurea. Siamo più di trecento e l’organizzazione dell’università non è il massimo. Il gruppo si è rivelato utilissimo per lo scambio dei materiali didattici, per l’ottimizzazione dei gruppi nei laboratori, per la diffusione delle informazioni sugli appelli d’esame e varie altre cose. Un amico geek mi aveva detto che tutte queste cose si potevano organizzare tecnicamente anche in altri modi, ma io, che devo anche studiare e non è che posso fare l’amministratore di un sistema informatico a tempo pieno, grazie a Facebook ho potuto contattare e coinvolgere in pochissimo tempo quasi tutti i compagni di corso. Mi sono poi accorto di vari aspetti negativi del social network che non mi piacciono per niente e questo mi ha messo in difficoltà. Per ora ho risolto il problema usando Facebook solo per il gruppo, trascurando tutto il resto. In questo modo limito l’espansione incontrollata della mia identità digitale, limitandola agli aspetti connessi con la vita del gruppo di coordinamento degli studenti.
ekkeppalle siete vekki vekki solo problemi vedete problemi problemi ma mai ke 1 cs vi piace
quello di informatica peggio di tutti fa lo ye ye e poi riski qua riski la vekkio bacucco anke lui
ma kissenemporta fb fa le buke e c s diverte appalla
Questi atteggiamenti esemplificano quattro possibili livelli di partecipazione, aventi valore diverso dalla media di 118 dollari che abbiamo calcolato poc’anzi. Tirando un po’ a indovinare e scartando ovviamente i non-utenti del tipo 1, gli utenti del tipo 2 potrebbero ad esempio valere 10 dollari, quelli del tipo 3 120 e quelli del tipo 4 1000, o qualcosa del genere.
Non c’è quindi una ricetta ideale. Tutto quello che si può fare è determinare il compromesso fra l’estremo Non Ne Voglio Sapere Niente all’altro Ma Ke Vuoi Ke Succede. Concludo con un elenco minimo di consigli, ricordando che ho utilizzato il riferimento a Facebook solo a titolo di esempio.
Evitare di fornire tutti i dati facoltativi.
Non inserire dati su famigliari e soprattutto minori. Questo non significa non narrare fatti occorsi realmente, ma abbiate cura di decontestualizzare e di usare pseudonimi.
Limitare l’inserimento di preferenze personali.
Ricordarsi che questi siti mantengono le vostre informazioni anche se voi le cancellate.
Se accade qualcosa di strano al vostro account, contattate il servizio clienti – questo nel caso di Facebook; e qui ci sono le istruzioni per recuperare fare un download dei propri dati.
La rete è piena di informazioni a riguardo, ma segnalo agli insegnanti le slide che Caterina Policaro ha pubblicato recentemente nel suo blog sul tema dei giovani e dei social network. Nello stesso blog potete trovare anche molte altre informazioni utili sull’impiego degli strumenti 2.0.
Il discorso che avevo fatto sulla colonizzazione di internet era era teso a mettere in luce il potere del codice – codice software. Dicevo:
Qui compare l’argomento fondamentale di Lessig: le leggi che sono scritte per regolamentare la vita nella realtà fisica, si rivelano insufficienti nel cyberspazio, dove la regolamentazione si attua principalmente attraverso il modo con cui esso è costruito, vale a dire attraverso il “codice”.
Occorre dire che il vocabolo “codice” è usato qui nella suo significato tecnologico, vale a dire di codice software: il cyberspazio è regolamentato attraverso il software (il codice) che lo fa funzionare.
Se avete ancora un attimo di tempo, può valer la pena di approfondire il tema leggendo il racconto Scroogled (originale in inglese) di Cory Doctorow, da cui …
Se Google avesse speso quindici miliardi di dollari per prendere i cattivi alla frontiera, ci si poteva scommettere che li avrebbero presi… è che i governi proprio non sono attrezzati per Effettuare Ricerche Appropriate.
If Google had spent $15 billion on a program to catch bad guys at the border, you can bet they would have caught them–governments just aren’t equipped to Do Search Right.
Non è questione di demonizzare il cyberspazio e nemmeno di considerarlo un paradiso. È invece auspicabile uno sforzo congiunto e illuminato per imparare a regolamentare il cyberspazio con un’armonica composizione di legislazione e codice (software), al fine di mettere a frutto le straordinarie proprietà del suo ecosistema e salvaguardare i diritti e la libertà, secondo la Dichiarazione universale dei diritti umani e secondo le costituzioni delle democrazie.
È da qui che passa la gestazione della società della conoscenza ed è da qui che deve necessariamente passare qualsiasi progetto politico che voglia essere veramente proiettato nel futuro.
Questo non è il III post sulla cura delle proprie connessioni che ho promesso ma è un inciso pertinente.
Ieri, per il mio compleanno, ho ricevuto una graditissima valanga di auguri, parole affettuose e anche regali, come quello di Maria Grazia ma anche quello del Caso che, si sa, è di molto capriccioso, oggi ti ammolla una ceffata e domani un regalo, il libero arbitrio concesso a noi umani consistendo, in sostanza, nel trovare il verso di far tesoro sia delle ceffate che dei regali.
Per il mio compleanno ho ricevuto un regalo che è la prova sperimentale che la rete è viva e come tale va quindi trattata: con fiducia, pazienza e rispetto.
Nella primavera del 2007 io non sapevo quasi niente di feed, di aggregatori e di RSS. Di internet avevo solo capito che era una cosa che stava diventando veramente molto grande e che nessuna gerarchia ne stava controllando lo sviluppo. Questo a me bastava per rendermela interessante.
Allo stesso tempo, dopo avere lavorato per circa sei anni cercando di trasformare il mio ruolo di insegnante in una cosa nella quale potessi credere, mi sentivo terribilmente solo. Non trovavo interlocutori. Sì, ero abituato ad essere solo perché quando un ricercatore esplora una nuova via è sempre solo. Successivamente, il lavoro di ricerca diventa un lavoro di gruppo ma le innovazioni partono sempre grazie alla follia di un esploratore solitario.
Tuttavia, anche il più solitario degli esploratori è un animale sociale e quando s’è addentrato ben bene in un territorio sconosciuto prima o poi si volta indietro per andare a cercare fratelli con i quali condividere le esperienze. È proprio una questione di follia. Viene il momento nel quale uno sente il bisogno di sapere se questa possa essere condivisa ed eventualmente trasformata in un beneficio comune. Se il momento non viene allora è proprio follia e basta.
Questa è proprio la condizione nella quale mi trovavo all’inizio del 2007 e non riuscendo a trovare interlocutori nel ambito delle relazioni professionali, creai un sito buttandoci dentro alla rinfusa idee, esperienze, aneliti, speranze … insomma, mi liberai della catene dell’espressione accademica e ci rovesciai dentro quello che sia la mente che il cuore mi dicevano.
Come mi spiegò successivamente Maria Grazia, un messaggio nella bottiglia, che ho gettato nell’oceano di internet.
Sarebbe lunghissimo enumerare le risposte che sono ritornate dall’oceano. Dall’agosto 2007 ho passato quasi tutto il mio tempo a gettare bottiglie nell’oceano e queste hanno continuato a tornare moltiplicate. L’oceano che vedevo come una forza soverchia, incontrollabile e talvolta nemica, è improvvisamente diventato l’interlocutore principale, il più ricco, il più affidabile.
Prima di allora cercavo altri esseri umani nella foresta alle mie spalle ma questa mi impediva di sapere se fossi naufrago su di un’isola e se vi fossero altri esseri umani a portata di gambe e di voce. Poi mi sono reso conto che era proprio l’oceano ad essere in grado di mettermi in contatto con altri esseri umani.
All’inizio avevo paura di finire anche le bottiglie per metterci dentro i messaggi perché ne avevo una scorta limitatama siccome queste mi tornavano moltiplicate la paura si è dissolta. Ora posso addirittura scegliere il tipo di bottiglia in funzione del messaggio. Prima vivevo in una perenne sensazione di scarsità di quello che mi occorreva, ora vivo nell’abbondanza.
L’ultima bottiglia m’è arrivata da Facebook. Ed è incredibile che proprio dal più arruffato, criticato, superficiale luogo di internet mi sia ritornata una bottiglia proprio dall’isolotto nel quale credevo di essere imprigionato, cioè dalla mia facoltà!
Nella bottiglia venuta dal mare di Facebook ho trovato un professore [1] colorato! Che parla come un ragazzo e col quale mi sono accorto di condividere una parte di mondo che non avrei mai immaginato!
Poi mi sono reso conto che ce ne sono anche degli altri.
Perché per più di vent’anni non me ne ero mai accorto? Perché non ce ne eravamo mai accorti?
Non sono in grado di dimostrare niente ma solo di indicare una direzione.
Negli ultimi due secoli abbiamo lavorato utilizzando e perfezionando strutture e gerarchie. Abbiamo immaginato di dover concentrare gli sforzi nella costruzione e nella manovra di imbarcazioni che navigano in un liquido inerte.
Invece quel liquido ha vita. È la rete. Non solo internet. Di reti ce ne sono tante e sono quelle che consentono le relazioni trasversali le quali si sviluppano orizzontalmente passando attraverso le pareti delle strutture organizzate.Sono sempre esistite ma noi ci siamo concentrati sulle relazioni verticali determinate dalle gerarchie create nelle strutture.
La creatività e l’innovazione fioriscono primariamente nel terreno delle relazioni orizzontali che consentono la contaminazione delle idee e la serendipità.
Internet non è una novità nella sostanza ma nella dimensione e le reti, quando le loro dimensioni superano certe soglie, danno luogo al nuovo.
Le strutture organizzate, che pur sono necessarie, tendono ad impedire le relazioni orizzontali polarizzando l’attenzione di chi ci vive sulle relazioni verticali. E così può succedere che si possa vivere più di vent’anni in una struttura non avendo la più pallida idea di cosa realmente pensino le altre persone che si trovano nella stessa struttura.
Facebook, di cui abbiamo già discusso qui poco tempo fa, offre a ciascuno di noi anche la via di Boccadoro mentre per arrampicarsi su per i sentieri delle gerarchie siamo tutti sulle tracce di Narciso[2].
[1] Il professore colorato è Sergio Capaccioli; per me è impossibile descriverne le attività ma date un’occhiata a questo.
[2] Hesse, Hermann, Narciso e Boccadoro, Oscar Mondadori, Milano, 1989
Facebook sì o no? La domanda è stupida ma ricorre quando emerge qualche nuovo fenomeno di massa. “O non ce l’ha fatta proprio lui questa domanda?” diranno molti di voi. Sì, l’ho fatta proprio io la domanda stupida, con l’assignment 5. L’ho fatta per provocare una riflessione più ampia su cosa possa voler dire “essere online” e avvalermi del vostro aiuto per vederci più chiaro. Proprio per questo infatti stiamo facendo il sondaggio che, per inciso, è obbligatorio per tutti, anche per coloro che non usano nessun strumento di social networking e persino per gli appassionati dei quiz.
Leggendo le risposte che si stanno accumulando nel questionario, ne abbiamo 106 per ora, colpisce una reazione che mi sembra abbastanza ricorrente e che si potrebbe riassumere così: “Ah quanto è meglio la vita fisica di quella virtuale!”. Questa è una di quelle affermazioni sulle quali è talmente ovvio concordare, situazioni patologiche a parte, che uno finisce per fermarsi lì, perdendo l’occasione di approfondire qualcosa di importante. In questo post vorrei suggerire un approfondimento della questione e mi piacerebbe poi sentire cosa ne pensate.
Come ho avuto occasione di dire o scrivere qua e là, a me FB non piace e ci passo pochissimo tempo. Non mi piace perché tutto è estremamente volatile, perché si deve far fronte a troppe richieste, perché richiederebbe troppo tempo valutare se l’adesione a un certo gruppo abbia senso o meno, perché si è costretti a udire anche voci che si vorrebbe non sentire, tanti e tanti contatti fugaci e superficiali, un generale traccheggiare, perché tutto finisce col ridursi a mera quantità e in questa quantità un inesorabile e dilagante annacquamento delle parole.
Povere parole, quanta fatica fanno a fare il loro mestiere oggi. Quante se ne emettono ma poi pochissime giungono a destinazione. Dette alla coop, dette in classe alla messa e al comizio in piazza, trasmesse in mille modi, stampate, radioemesse, televisionate, telefonate telefonate e telefonate e essemmessate, e poi lette, spesso giusto viste, sui manifesti, gli striscioni sui lampioni, i cartelloni, i cartelloni dove vanno e vengono come nello screensaver, appunto e poi sullo screensaver, sulle magliette e tutto il resto con cui ci si copre e poi e poi …
Voglio dire che di tutto ciò che disturba in FB il mondo è già pieno, il mondo non virtuale. Perché forse le scritte a pennarello sui sedili degli autobus o quelle spruzzate sui muri delle case son tanto diverse da quelle sulle pareti di FB? O quella conversazione che l’altro giorno m’ha sfondato i filtri della mente mentre bevevo una birra “… perché lui se la mette così, cioè nel senso, perché deve uscire con noi, cioè, voglio dire, nel senso … lei … lui… come mi vede … non me ne può fregar di meno … a un certo punto … non ci posso credere … veramente … allucinante … nel senso …”, quella conversazione è tanto diversa da quelle che si svolgono in FB? O le parole vomitate da palinsesti televisivi demenziali, milioni, miliardi di parole emesse in ore e ore di dedizione quotidiana di fette di popolo certamente di gran lunga maggioritario, son quelle parole meglio di quelle che svolazzano in FB? Le parole tritate dal frastuono delle discoteche? Quelle condite da quintali di salatini ed ettolitri di aperitivi da folle che pienano i bar, folle a volte strabuzzanti su marciapiedi se non strade? Molto diverso tutto ciò da FB? O le parole dotte, tecnologiche, nuove di conio, emesse in gran copia in una miriade di convegni, conferenze, congressi, eventi, manifestazioni scientifiche, quelle no saranno serie, porteranno significati importanti, cose difficili, cose da specialisti? Chissà … succede tuttavia che quando ti capita di udirle nel tuo mondo, scopri che son tanto spesso ripetute, ridondanti come la schiuma di una birra versata male venduta al prezzo di una birra versata bene, a volte anche parole mariuole. Insomma parole stropicciate strapazzate diluite, o che son tanto diverse da quelle che inondano FB? E le parole della politica? Oh, lasciamo stare …
Certo che la vita reale è meglio di quella virtuale ma siamo sicuri che la vita reale sia sempre così magnifica? O forse esistono forme di partecipazione virtuale che hanno qualità umana superiore a tanti aspetti della vita reale?
Questo quindi è il mio primo punto: nella vita reale si può comunicare in modo denso e empatico partecipando a gioie e dolori del prossimo ma si può anche vivere truffando, scompigliando, calpestando o semplicemente annacquando sentimenti preziosi; parimenti nel mondo virtuale si possono stabilire connessioni meravigliose online come si può contribuire alla universale diluizione delle parole.
Ma allora, cosa può fare la differenza? Come stare online? Come non farsi travolgere da qualcosa che ci sembra inutile se non dannoso o semplicemente stupido come potrebbe essere FB o qualche altro social network?
La risposta secondo me è a monte, molto più a monte di qualsiasi strumento si decida di usare per fare qualsiasi cosa, quindi molto più a monte anche degli strumenti online. La risposta sta nel proprio atteggiamento verso il mondo esterno, nello spirito con il quale usciamo di casa la mattina o con il quale ci accingiamo a fare una cosa nuova.
In passato mi è capitato di assistere ad alcune conferenze di Patch Adams, il medico americano che ha posto il sorriso e l’empatia nella borsa del medico. Molti lo conosceranno per il famoso film sulla sua vita interpretato da Robin Williams. Il punto fondamentale da cui Patch Adams parte per tutte le sue considerazioni è proprio l’atteggiamento verso il mondo esterno dove propone di sostituire il paradigma
non posso fare questo per colpa di …
… della stanchezza, della mia negazione in matematica, della mancanza di tempo, della recessione economica, della pioggia, del figlio che non mi fa dormire, della malattia, del fatto che non so l’inglese, della mia negazione per la tecnologia, della sfortuna … oh non ho tempo di respirare … non posso non posso … ah questa non è cosa per me … io e questa cosa siamo lontani …
con
ora faccio questo perché ho l’obiettivo di …
cioè essere disposti ad usare qualsiasi modo e strumento per perseguire un obiettivo preciso
In altre parole, il problema non è se stare nella vita reale o stare nella vita virtuale, ma utilizzare gli strumenti della vita reale e di quella virtuale per perseguire un obiettivo, più in generale per realizzare un progetto, magari infine per realizzare il proprio progetto di vita.
In questa luce tutti gli strumenti del mondo sono potenzialmente utili e possono essere allo stesso tempo dannosi. In FB si perde tempo e si costruiscono relazioni evanescenti se ci si passa del tempo in mancanza di meglio. Altrimenti, possiamo provare a domandarci se FB non possa avere una qualche utilità per qualche nostro obiettivo e quindi plasmarne le caratteristiche ai propri fini.
Così è con tutti gli altri strumenti del mondo e quindi con tutti gli strumenti di social networking. Si tratta di capire quali sono le potenzialità peculiari di ciascun strumento. Il cacciavite è molto buono per avvitare le viti e la zappa per dissodare il terreno. Se per perseguire un nostro obiettivo può essere utile avvitare viti o dissodare terreni faremo bene ad impadronirci del loro impiego. Se, in mancanza di obiettivi meritevoli, ci appassioniamo all’uso della zappa, ne diventiamo schiavi.
La potenzialità fondamentale degli strumenti di social networking è quella di facilitare enormemente le connessioni con persone animate da interessi simili nel resto del mondo. Tutto qua. Si tratta di utilizzarli giusto per quello che possono dare e nella misura in cui migliorano la nostra capacità di raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissi.
Concludo tornando dove siamo partiti: che ci possiamo fare con FB? Io ho risolto la questione come segue. Non ho tempo e voglia di passare il tempo in FB e ciò che vedo non mi piace. Tuttavia, FB è estremamente popolare, ci sono quasi tutti dentro, o comunque tanti. Per il tipo di lavoro che sto facendo ho una notevole necessità di raggiungere le persone per far sapere loro delle cose. Allora uso FB come una cassa di risonanza. A me piace molto di più Twitter. Quando voglio fare sapere che ho scritto un post, per esempio, e desidero che quel post raggiunga una certa popolazione, scrivo un messaggio in Twitter. Così intanto raggiungo la comunità di persone che mi seguono in Twitter ma poiché ho configurato FB in modo da replicare i messaggi che scrivo in Twitter, raggiungo anche coloro che mi vedono in FB. D’altro canto, ho anche configurato FB in modo da notificarmi per email i messaggi che la gente mi indirizza in FB. Tutto qua. Per il resto in FB butto via tutto.
Anche uno strumento apparentemente stupido può migliorare la vita di una persona.