Essere una OER

In questo periodo da più parti mi viene chiesto di riferire sulle Open Educational Resources e sull’Open in generale. Come spesso mi succede, sulle prime vengo preso dallo sconforto perché mi pare di non avere niente da dire. E nemmeno tanto sulle prime perché una conoscenza didascalica o accademica non ce l’ho, quasi mai. Ancora più vero in questo caso dove, in una storia effimera su FB e Instagram, m’è venuto di dire che “io, risorsa educativa aperta, la nacqui, modestamente”. La cosa divertente è che, alla fine dei conti, il tempo “dissipato all’esterno” — ai fini di una carriera universitaria nella quale sono ruzzolato passivamente — ha contribuito pesantemente a formare la mia attuale identità, anche all’interno della medesima istituzione, con la piacevole conseguenza di rendere il trapasso alla pensione — concetto per me indigeribile — un fatterello marginale, essendo quasi la mia identità istituzionale inclusa in quella open e non viceversa. Di ciò mi sono convinto provando a ricordare tutto il tempo “perso” fuori delle mura. Sicuro che mi dimentico qualcosa annoto di seguito quello che mi torna in mente.

In primo luogo il blog http://iamarf.org, da tempo, diario, ufficio, strumento di lavoro in svariate attività, insomma il luogo della mia identità. Anche punto di riferimento per studenti di vari corsi di laurea e di insegnanti in giro per il mondo — ho insegnato in circa 25 corsi di laurea in vent’anni, più o meno. Lo creai nel 2007 (~1000 post, >13k commenti), quando scoprii l’allora nascente fenomeno dei MOOC e delle OER. Nel giro di 4-5 anni ho partecipato come studente a cinque di essi (acquisendo i certificati e imparando moltissimo) e nel 2013, adattando al volo il blog e usando solo questo, ne feci uno io per insegnanti di primaria e secondaria, che raccolse circa 500 persone. È un blog camaleontico che ho adattato alla bisogna in vari altri contesti. Per esempio per insegnare a usare in classe la cosiddetta Piratebox, un routerino che crea una wifi locale per usi scolastici. Agli insegnanti in giro per l’Italia che la volevano provare ne inviavo una confezionata da me, realizzata con router TP-Link MR3020 e OpenWrt, oppure con Raspberry PI e distribuzione ArchLinux. Ne ho inviate una cinquantina un po’ dappertutto. In cambio volevo solo feedback sul funzionamento. Oppure l’iniziativa andando per scuole, dove andavo in giro per l’Italia con la macchina piena di ammenicoli didattici (stampante 3D, suddetti routinerini, robotica povera etc.) da mostrare nelle scuole, in cambio di un primo e feedback — è valsa la pena su ambedue i fronti: ottimi primi, ricchi feedback.

Ho passato vari mesi, fra il 2016 e il 2017, a intrufolarmi nel Fablab di Firenze, nel laboratorio LoFoIo e nel Fablab di Contea, non come professore ma come cittadino aggeggione, imparando a fabbricare e usare stampanti 3D. Ho acquisito competenze interessanti ma soprattutto ho visto da dentro le dinamiche che animano questi luoghi incredibili e ho conosciuto persone, molto più giovani di me, di grande valore: Leonardo Zampi, Mattia Sullini, Lucio Ferella, Giacomo Falaschi e tanti altri . Le serate passate insieme a Rifredi, in via del Campuccio o a Contea, presso la Chiesa del Pizzicotto e l’alimentari Marcello… momenti felici. Devo molto a queste persone.

Quasi sempre ho portato i miei studenti a discutere fuori: attualmente sette forum Reddit, fra cui quello per aiutare o favorire l’aiuto reciproco fra  persone interessate all’impiego didattico della programmazione. Porto fuori gli studenti anche a studiare, con i MOOC realizzati in Federica.eu — Coding a Scuola con Software Libero e Coding at School with Free Software — o in edX. Vero, i MOOC sono stati sviluppati nell’ambito di una partnership fra Unifi e Federica.eu ma questo accordo medesimo ha rappresentato una ghiotta occasione per cercare di uscire all’aperto. Infatti i MOOC accolgono gli studenti Unifi ma anche tante altre persone. E lentamente, stanno ispirando altri esperimenti, in particolare nell’ambito di progetti Erasmus.

La maggior parte di quello che scrivo circola liberamente nei luoghi citati e altri ancora. Anche ciò che acquisisce la forma di libro. Il Piccolo Manuale di LibreLogo e Building Knowledge with Turtle Geometry , che distribuisco con licenza Attribuzione (CC BY 2.5 IT: puoi usare come vuoi ma devi attribuire la paternità dell’opera e perpetuare la licenza su eventuali tuoi derivati, se non vuoi infrangere il Diritto d’Autore). Li pubblicherò mai in forma cartacea? Non lo so, mi piace il divenire.

Il blog del Laboratorio Aperto di Cittadinanza Attiva, creato nel 2017 in occasione dell’arrivo di trenta migranti nel paese dove vivo. Un’attività grassroot sorta per risolvere un problema e che ha finito per alimentare due progetti della Regione Toscana con Unifi partner. Ora è una realtà che include la cosiddetta Scuolina (per migranti ma non solo), scuola informale sul modello di Barbiana, fatta da cittadini volontari e studenti. Nata in un piccolo paese, poi ospitata dal Cospe, scuola elettivamente di prossimità ma che non si è fermata con la pandemia: oltre 400 lezioni online dal 23 marzo scorso. Al margine della Scuolina la mappa della positività, che raccoglie testimonianze di accoglienza e integrazione con il contributo dei cittadini, partita dalla regione Toscana, estesa al territorio nazionale e poi europeo. Testimonianze stratificate in varie tipologie diverse e che ha suscitato l’interesse di Ushahidi, il provider leader nel mondo delle crowdmap per la mappatura di catastrofi e fenomeni sociali, che ha concesso per tre anni consecutivi l’uso gratuito della piattaforma al Laboratorio Aperto di Cittadinanza Attiva e alla sua Scuolina.

E cosa sono ora il Laboratorio Aperto di Cittadinanza Attiva e la sua Scuolina ? Nulla: un blog e un gruppo di cittadini che aiutano chi ha bisogno. Fu questo che mi affascinò una ventina d’anni fa, quando iniziai a intuire cosa sarebbe potuta essere la rete: un luogo dove è estremamente facile costruire valore, magari collaborando con qualche istituzione ma in maniera circoscritta, stando bene attenti a rimanere all’aperto.

In realtà un’utopia perché anche la libera rete non è più libera. A maggior ragione continuerò così.

PirateBox – circoli hacker – stampa 3D – circoli makers -riflessioni di uno studente – #loptis

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Ricevuto il primo lotto di 15 router TP-LINK TL-MR3020 da consegnare piratizzati agli arditi aspiranti sperimentatori, prima di continuare con tutto il resto, ivi compreso l’ordine di altri 15 router, mi accingo a provare l’installazione su un paio di essi – vedi mai che Murphy ci voglia mettere la coda…

Ce l’ha messa: le scatoline non si lasciano trasformare, né di diritto né di rovescio. Calma. È l’ora di rammentarsi delle raccomandazioni di un famoso hacker – ve lo farò conoscere – in merito al modo corretto di porre domande:

Prenditi tempo. Non aspettarti di risolvere un problema complicato con una ricerca di pochi secondi in Google. Leggi e cerca di capire le FAQ, siediti tranquillamente, rilassati e dedica del tempo a riflettere sul problema prima di interpellare gli esperti. Credimi, loro saranno in grado di capire dalle tue domande quanto ti sei impegnato nella lettura e nella riflessione, e ti aiuteranno più volentieri se sei preparato. Non sparare subito il tuo intero arsenale di domande solo perché la tua prima ricerca non ha dato nessun risultato (o troppi risultati).

Mi sono allora documentato intorno al problema…

Collaborazioni – #loptis

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Due righe per dire che ci siamo. Da marzo a giugno ci sono circa 400 studenti di medicina da seguire e questo richiede del tempo. Ma va aggiunta anche la formazione del sottoscritto: per insegnare occorre studiare, specie in territori così mutevoli – l’inerzia porta alla morte rapida. Occorre esserci, sapere cosa sta accadendo e cosa si può fare oggi. Si dice “aggiornamento”, ma è una parola malintesa. Non è questione di avere letto, o magari fatto un quiz, perché non si può insegnare ciò che non si è vissuto. È questione di provare a fare, di avere commesso gli errori che è necessario commettere per imparare. È questione di sporcarsi le mani. Dopo si può provare a insegnare.

Si va quindi a scuola. Una scuola di giovani – in pratica quasi tutto ciò che s’impara l’hanno fatto persone, giovani, giovanissime. La si trova nei circoli del software e dell’hardware libero. Provi a fare una cosa e ti imbatti in un problema. Lo comunichi alla comunità: quasi sempre qualcuno ti risponde e prima o poi lo risolvi. Magari scopri che chi ti ha risolto il problema ha 18 anni – successo ieri: grazie. Mondo lesto, comunicazione asciutta, si va diritti al problema, vali per ciò che sai e sai fare. La si trova nel mondo dei “makers”, che si incontrano nei fablab, luoghi attrezzati con macchine a controllo numerico per la realizzazione di oggetti. Un mondo che ha preso le mosse dal MIT nel 2001, nel Centro per bit e atomi, ma che ormai abbiamo dietro l’angolo.

Un mondo basato sulla cooperazione: ciò che io faccio lo pongo all’aperto – se è servito a me probabile che serva a qualcun altro, chissà dove. Un mondo basato sulla collaborazione: nei fablab si lavora insieme, condividendo informazioni, competenze, soluzioni. Collaborazione aperta, inclusiva: se hai da mettere i tuoi due centesimi li metti, se servono si usano. Vali per ciò che sai e sai fare. Non la collaborazione esclusiva delle organizzazioni gerarchiche classiche, dove i dirigenti fanno i gruppi e li comandano – dove può succedere che un incompetente privo di fantasia comandi un competente creativo – dove vali per vari motivi, troppi, alcuni opachi, e mica tanto per ciò che sai e sai fare.

Nei mondi aperti si respira una buona aria, non quella ormai viziata dei casamenti istituzionali. Quello che impareremo, lo riverseremo qui e dove ci troveremo nelle scuole. L’età matura è quella dei collegamenti – inizi ad avere visto mondi e prendi a collegarli – cambi quota ma il gioco è lo stesso, le  mani felicemente sporche. Piacerebbe collegare il mondo della scuola – statico – a questi mondi – al mondo, vivo. Intanto a scuola, nel Fablab di Firenze. Fa bene alla salute.

A proposito di collaborazioni. Qui nel #loptis ne sono emerse diverse. Se a qualcuno viene un’altra idea proviamo a realizzarla. Intanto ricapitoliamo. Correggete errori e dimenticanze.

Datalove è un’aggregazione emersa in una piccola comunità internazionale con forte prevalenza svedese che, agli inizi, si chiamava “Telecomix”.

Eravamo un gruppetto, dieci o quindici, allora, e sperimentavamo gli usi sociali dell’internet. Sperimentavamo modalità sia di interazione, sia di comunicazione: una cosa molto spontanea, molto impressionante, di per sé.

Eravamo impressionati dal fatto che la metà dei partecipanti al canale IRC [canale di discussione riservato] fossero ragazze, cosa piuttosto rara nella comunità hacker dove, di solito, c’è una fortissima componente maschile. E parlando del più e del meno, è emersa questa nozione di Datalove come, in qualche modo, una specie di prolungamento di quel che è l’amore nella sfera digitale.

Non cerco di definirla, perché è la stessa cosa che definire l’amore, è una cosa un po’ stupida e ciascuno può avere la sua definizione e poi, lo sappiamo bene, l’amore è qualcosa di universale, nessuno ha bisogno di essere d’accordo su una definizione, per provarlo. Per me, Datalove sono le emozioni che possono essere suscitate attraverso delle tecnologie digitali.

Un esempio proprio stupido: farsi una domanda esistenziale che ci si è sempre fatti e un giorno dirsi: – Ehi, ma se andassi semplicemente a guardare su Wikipedia e là trovare la risposta, formulata in dieci modi differenti da cento persone di diverse, con una discussione sull’argomento e semplicemente trovare la soluzione. È cercare una canzone di Fela Kuti e imbattersi sull’album integrale in file BitTorrent, in formato flac o di una qualità geniale, e voilà. Morire dall’emozione di trovare un mucchio, un mucchio di file.

E vedo questa cosa come una proiezione della nostra umanità attraverso il digitale e attraverso internet. E troppo spesso tendiamo a lasciare un po’ tutto questo ai tecnici, o anche peggio, ai commerciali, e a dimenticare un po’ che si tratta soprattutto di esseri umani che stanno dietro ai loro terminali, loro stessi interconnessi globalmente in rete e che internet è forse soprattutto la somma delle nostre umanità, prima di essere la somma dei nostri megabyte, dei nostri megabit per secondo, dei nostri gigahertz dei microprocessori. Si tratta soprattutto di esseri umani interconnessi tra di loro.

Può essere che sia questo il Datalove: creare il collegamento tra la macchina universale, la rete globale e, semplicemente, gli esseri umani e le umanità che ci sono alla fine. Per definizione, il Datalove è qualcosa di universale, come l’amore, che è, in effetti, il fatto di amare internet.

Amiamo internet e abbiamo visto le persone scendere in strada a migliaia contro ACTA, l’Anti-Counterfeiting Trade Agreement, l’accordo commerciale anti contraffazione: in 300 città d’Europa, lo stesso giorno, centinaia di migliaia di persone che erano in strada per opporsi a un accordo commerciale, multilaterale, negoziato dalla Commissione e dal Consiglio dell’Unione Europea, facendo intervenire il diritto penale. Insomma, un troiaio incomprensibile.

Ma le persone erano in strada perché volevano difendere la loro internet, perché amiamo internet. E cosa ci fa amare internet? Non amiamo le macchine, non le amiamo d’amore. Le possiamo trovare piacevoli, utili, possono rinviarci una bella immagine di noi o qualcosa del genere, ma amiamo internet perché amiamo quello che c’è dall’altra parte dello schermo. E quello che c’è dall’altra parte dello schermo, non sono solo le macchine, è l’umanità intera.

Internet è una finestra sul mondo, una finestra sull’umanità. E ho l’impressione che quello che amiamo è la somma di tutto quello che gli altri investono lì dentro. In effetti, quello che amiamo è l’umanità.

E quindi, non credo che si tratti di una funzione di quanto tempo si spende su internet; e poi ci sono persone che rimarranno per tutto il giorno, tutta la notte, connessi su una cosa che può essere World of Warcraft, o Facebook, o un gadget qualsiasi. Non è davvero così Internet.

Dunque io penso che sia qualcosa che avviene rapidamente quando si capisce o quando comprendiamo che Internet non è solo una macchina, non è semplicemente un televisore migliore, non è solo una console per videogiochi migliore ma è veramente una finestra sul mondo, è dove la dimensione emozionale e a volte per qualcuno un po’ mistica ha un senso e questo è ciò che chiamiamo Datalove.”

Il software libero ti libera – #loptis

Post aggiornato il 9 febbraio 2014 con l’aggiunta della nota numero 2 sul download del sistema operativo WiildOs per l’impiego della lavagna digitale a basso costo WiiLD.


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Questo pezzo costituiva la prima di tre parti del prossimo post che si dovrebbe intitolare “Software libero e immagini – cos’è che fa la differenza”, ma mi stava palesemente prendendo la mano. Siccome l’argomento è cruciale, l’ho scorporato. Fra di voi vi sono alcuni studenti della IUL che si sono iscritti al prossimo appello di “Editing Multimediale”. Non ce più tempo per il prossimo post, che arriverà in settimana nuova e per quello successivo, su temi analoghi. Comunque, avendo visto il nostro concetto di corso e di esame espresso nel post precedente, confido nel fatto che tali studenti continuino a seguire le proposte successive attinenti all’editing. Ora è più importante soffermarsi su questo argomento.


In questo articolo glisso sulle differenze fra software libero e software open source, che sono invece rilevanti. Le abbiamo discusse in precedenza. Qui affrontiamo la questione alla larga.


L’evoluzione della cultura umana è punteggiata da una successione di discontinuità dirompenti, ognuna delle quali abbrevia drasticamente il percorso verso la successiva.

Nel 1993 l’antropologo Robin Dunbar ha pubblicato un articolo intitolato “Coevolution of neocortical size, group size and language in humans” [1] (Coevoluzione delle dimensioni neocorticali, della dimensione dei gruppi e del linguaggio negli umani). È un lavoro molto famoso perché è quello nel quale è stato definito il famoso numero di Dunbar, ovvero il numero di relazioni sociali che le capacità cognitive umane consentono di gestire – è un numero che sta fra 100 e 230, tipicamente 150.

Lo studio di Dunbar è famoso per il numero che porta il suo nome ma in realtà è pieno di considerazioni parecchio interessanti. Le scimmie si grattano, lo sanno tutti. Ma forse non tutti sanno che quella di grattarsi a vicenda è una pratica che ha un valore sociale importantissimo. Le scimmie sono animali sociali e lo sono perché questo ne facilita la sopravvivenza. La pratica di spulciarsi a vicenda – il grooming – è fondamentale per stabilire legami sociali importanti: io gratto te, che sei più grosso di me, così mi difendi quando quell’altro ignorante mi fa i dispetti… Nelle comunità di primati non umani si spende molto tempo nel grooming, fino al 15 del tempo totale, per comunità che arrivano fino a 30-50 individui. Più in là non si va. Dunbar stima che per arrivare ai valori tipici delle comunità umane, di 100-200 persone, il tempo dedicato al grooming supererebbe il 50%, troppo.

L’ipotesi di Dunbar è che il linguaggio sia comparso (anche) come sorta di grooming potenziato, sulla spinta di fattori ambientali che hanno favorito la formazione di comunità più ampie: per sopravvivere bisognava essere di più. È stato un passo micidiale: se gratto te non posso grattare anche un altro, ma se parlo posso rivolgermi a più compagni in un colpo! Non solo, il linguaggio ha anche generato un primo fondamentale livello di astrazione – forse già Lucy poteva sparlare con l’amica Lulù di quello screanzato che girava molto e portava poco… Una liberazione, la prima liberazione. Naturalmente, ogni liberazione apre nuovi mondi ma comporta nuovi rischi. Ciacolare troppo può essere pericoloso…

La seconda liberazione ha avuto luogo con la scrittura. Le civiltà antiche iniziano laddove appaiono i primi reperti scritti. Un formidabile potenziamento della trasmissione orale. Ma in particolare è l’alfabetico fonetico il passo fondamentale – 2000-1000 a.c., i Fenici, pare. La prima codifica di natura informatica: una ventina di simboli che combinati variamente possono esprimere qualsiasi concetto. Qui non è solo una questione di trasmissione, ma di espressione non più solo figurativa. L’alfabeto fonetico libera la via verso il pensiero astratto.

Il terzo passo è tecnologico ma non meno importante: la stampa – Gutenberg. I concetti astratti fissati nella scrittura possono essere distribuiti identicamente senza limiti. La comunicazione di massa ha preso le mosse alle soglie del rinascimento, lo catalizzò, con tutto quello che venne dopo.

Un passo dietro l’altro, ogni volta una spinta poderosa alla circolazione dell’informazione, ogni volta nuovi mondi. Fu Galileo a completare il successivo. Un passo lungo, sviluppato parallelamente a quello verbale, quello della matematica. Ma poi era rimasto intrappolato nella dicotomizzazione medievale della teoria e della pratica. Gli umanisti e gli scolastici dediti alla trasmissione delle verità, gli artigiani e i mestieranti vari si sporcavano le mani con la realtà. Michelangelo durò ancora non poca fatica ad elevare la scultura ad arte pura – troppa polvere. La matematica era sì ora astratta, ora strumento di calcolo, e poteva anche essere strumento di descrizione ma non linguaggio, non nel senso che rivelò Galileo: linguaggio per porre domande alla natura attraverso l’esperimento. La matematica a quel tempo era già tanta, e se l’alfabeto fonetico aveva consentito di fissare i costrutti astratti, la matematica consentiva di metterli a fuoco, di renderli nitidi e cristallini, più sicuramente trasmissibili, universali. Ma non era stata usata ancora per spiegare il mondo. Fu una fiammata, giusto quattro secoli fa, un attimo nella storia dell’umanità, divampa ancora, più impetuosa che mai. La conoscenza ha preso ad avanzare a passi da gigante. Una valanga: ogni due anni viene prodotta una quantità di conoscenza pari a tutta quella prodotta prima.

Tale conoscenza sedimenta strati fisici imponenti, composti di artefatti che a loro volta catalizzano la formazione di nuova conoscenza, in un ciclo con retroazione positiva – esplosione. Gli artefatti sono sempre più complessi – tecnologia. Non bastan più leve e pulsanti, per manovrarle c’è bisogno di qualcosa di nuovo. L’Apollo non sarebbe mai potuto arrivare sulla Luna. A far tutte le operazioni necessarie per vedere una singola TAC non basterebbe la vita di Keplero, che i calcoli li faceva da dio. Anche gli strumenti di indagine scientifica si sono evoluti – tecnologia per eccellenza. Le nuove macchine di indagine vomitano valanghe di dati. I calcoli matematici per interpretarli si son fatti troppo complessi, impossibili.

Ed ecco l’ultimo passo – il codice. Il linguaggio che serve per parlare con le macchine, per manovrarle e per elaborarne i risultati. Il codice lo pensa e lo scrive un uomo che vuole determinare il comportamento di una macchina, in tutti i suoi aspetti, quindi un ingegnere per esempio, o uno scienziato, certo. Ma oggi può capitare che anche un insegnante manipoli codice per realizzare il quiz di una pagina web per i suoi studenti. Oggi può capitare che anche un ragazzo di 12 anni possa realizzare una macchina in grado di leggere dati e fare cose, manipolandone il codice.

Il word processor è codice, l’orologio è codice, anche l’ABS dell’auto, praticamente tutto. Ma oggi il codice sbuzza fuori dalle macchine, lo possiamo toccare, è a disposizione, nel computer, in artefatti didattici, nel web, negli indirizzi URL, dappertutto. Ce l’abbiamo sotto il naso ma non ce ne accorgiamo quasi mai. La scuola non ha fatto tempo ad accorgersene, spesso nemmeno l’università. Usiamo tutto come fosse un ferro da stiro.

Linguaggio, scrittura, alfabeto fonetico, stampa, descrizione matematica, codice, ogni volta una spinta poderosa alla circolazione dell’informazione, ogni volta una liberazione per nuovi mondi. Ma quest’ultima volta c’è un ma.

Facciamo un passo indietro. Prendiamo un romanzo, “I vecchi e i giovani” di Pirandello per esempio. È scritto in italiano, ovvero un codice aperto e standard. Aperto perché la grammatica italiana è a disposizione di chiunque voglia impararla. Standard perché esiste una forma maggioritaria sulla quale i circa 65 milioni di italiani (4-5 risiedono all’estero) convengono e che la comunità internazionale riconosce come tale. Il testo del romanzo è disponibile con poca spesa – io, non so più come, ho l’edizione di certa “Editoriale Opportunity Book”, Milano 1995, £ 5000. Se voglio lo presto a un amico, poi a altri tre, poi lo regalo. Ne faccio quello che voglio. È scritto in italiano, ne copio dei brani, li studio – ne vale la pena: niente è cambiato… – li riuso nei miei scritti. La cultura viaggia sulle ali della libertà.

Poi ricevo un testo scritto da uno studente. Lui usa un sistema diverso dal mio, un sistema proprietario. Per leggerlo dovrei acquistare lo stesso software. Io ricevo testi da centinaia, migliaia di studenti. Su questi numeri capitano anche i casi più rari. Che devo fare: acquistare tutti i possibili software immaginabili, per tutti i possibili sistemi in circolazione? Oppure devo imporre ai miei studenti l’acquisto dei software e dei sistemi che uso io? Tutto regolare secondo voi?

Secondo noi no. E cosa faccio allora? Vado a vedere se in rete ci sono software di conversione dei formati liberamente e legittimamente disponibili. Mi potrei procurare facilmente le competenze tecniche per crackare i software proprietari che non posseggo ma non lo faccio, perché credo che il mondo vada fabbricato con soluzioni eticamente corrette. Se non trovo soluzioni legittime praticabili, invito lo studente ad andare a ripassare il capitolo dei software liberi e degli standard aperti, per poi ripropormi i suoi elaborati in una di queste forme, libere e legittime.

La questione dell’impiego del software libero, dell’open source se volete, e l’adesione verso gli standard aperti non è marginale, bensì rappresenta un elemento fondamentale per la cultura, la libertà d’espressione, l’etica sociale e lo sviluppo economico. Snoccioliamo un po’ di fatti.

Acquistando i software proprietari che vanno per la maggiore – Microsoft, Adobe, Oracle ecc. – contribuite ad elevare il prodotto interno lordo di un altro paese e perdete l’occasione di contribuire al vostro.

Copiando o crackando i software proprietari rubate.

Scaricando e utilizzando il software libero si contribuisce ad elevare la felicità interna lorda ed anche il prodotto interno lordo di molti paesi, inclusi il proprio.

Se io uso un programma proprietario di elaborazione delle immagini, diciamo Photoshop, e ho un problema, potrò provare a chiedere solo a persone che posseggono Photoshop. Altri amici culturalmente in grado di provare ad affrontare lo stesso problema non potranno cimentarsi e collaborare – difficilmente acquisteranno una licenza del software solo per questo motivo e se sono onesti, non utilizzeranno nemmeno una copia rubata. Se invece uso un programma di elaborazione di immagini libero, diciamo Gimp, avrò a disposizione un mondo sterminato di persone in grado di darmi una mano.

Il modello proprietario impone l’onere della globalizzazione brutale. Poteri economici inarrivabili determinano cosa puoi fare a casa tua, cosa e come puoi fare con il software, quando lo devi aggiornare, quanto lo devi pagare. Tutto ciò nella migliore delle ipotesi: può anche succedere che il software compia operazioni che non tutti gli utenti potrebbero gradire, come raccogliere informazioni all’insaputa dell’utente o gestire in modo non trasparente i formati dei file. Un caso tipico era Word, che lasciava nascoste nel documento versioni del testo successivamente cancellate dall’autore, il quale inviava a sua insaputa il file con informazioni che un esperto avrebbe potuto vedere e che magari avrebbero potuto creare imbarazzo.

Il modello libero invece consente di unire gli aspetti positivi della globalizzazione al valore della localizzazione. Un caso tipico è quello dell’adattamento dei software alle lingue minoritarie o emarginate dall’economia occidentale. Cerco a caso fra le notizie più recenti. In Global Voices – sito che raccoglie notizie da tutto il mondo al di fuori della stampa ufficiale (mainstream information – trovo Un correttore ortografico per la lingua Bambara:

Il correttore ortografico è disponibile in programmi per testi e ufficio open source come OpenOffice, LibreOffice, NeoOffice per computer Windows, Mac e Linux. Come è stato possibile ottenere questo risultato? In primo luogo grazie alla pubblicazione online dell’enorme lavoro fatto dai linguisti, autori di dizionari e grammatiche, e poi alla collaborazione fra linguisti e specialisti di IT che hanno condiviso il sogno di disporre di un correttore in Bambara. La lingua Bambara è parlata da 3 milioni di persone in Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Senegal, Gambia, Guinea, Sierra Leone e Ghana.

Per inciso, una ventina d’anni fa ho collaborato con un fisico ghanese, John, caro amico che ricordo con affetto, molto bravo e di gentilezza rara. Mi rammento anche delle difficoltà che aveva, quando si trovava in Ghana, a leggere i file in Word che molti occidentali gli inviavano con versioni del software più recenti che là non si potevano permettere. Stesso identico problema con Natascia, anche lei un fisico, di Novosibirsk, anzi più precisamente di Akademgorodok – Академгородок, lei mi diceva orgogliosa “Città della Scienza” – altra persona amabile.

Conoscenza e cultura viaggiano sui canali liberi. E anche la giustizia, di conseguenza.

In Spagna è in atto da diversi anni un processo di diffusione dei sistemi linux nella pubbliche amministrazioni delle regioni svantaggiate. Esistono distribuzioni di Linux che sono state personalizzate localmente: LinEx per Extremadura, Trisquel per la Galizia, Asturix per l’Asturia, lliurex per la comunità di Valencia e Guadalinex per l’Andalusia.

Il caso di Extremadura è particolarmente interessante. Il governo di questa regione, notoriamente afflitta da condizioni di sottosviluppo particolarmente gravi, all’inizio dell’anno scorso annunciò il passaggio dei 40000 computer dell’amministrazione a software open source.

Gli amministratori di quella regione hanno quindi messo in pratica ciò che è noto ormai da tempo, ovvero che sostituendo software open source al posto di quello proprietario si possono realizzare risparmi significativi. L’operazione comporta l’impiego di una distribuzione di Linux – chiamata Sysgobex – adattata alle esigenze amministrative locali.

Il risparmio stimato è dell’ordine di 30 milioni di Euro l’anno. L’iniziativa segue una serie di esperienze precedenti: 70000 computer nelle scuole secondarie, 15000 computer nell’amministrazione sanitaria, 150 computer Linux in vari ministeri.

Vi sono altre iniziative di portata simile in Europa: 70000 computer adottati dalla polizia francese, 13000 computer dall’amministrazione comunale di Monaco di Baviera.

L’Italia purtroppo è un paese particolarmente fermo e tristemente sordo alle innovazioni, quelle buone. Il ciarpame no, quello lo assorbe a meraviglia. Ma non si deve generalizzare, i focolai di vita ci sono, forse più radi di quello che si desidererebbe, ma ci sono. A volte addirittura a livello istituzionale. C’è l’esempio dell’Azienda Usl 11 di Empoli, dove nella maggioranza dei casi i server sono Linux e la suite di software per ufficio adottata è Libreoffice, su tutti i 2000 computer dell’azienda. Davvero un buon risultato anche se certamente episodico, malgrado la Direttiva Stanca per l’open source nella Pubblica Amministrazione, del 2003.

Ma quello che dobbiamo fare è rendersi consapevoli delle innumerevoli realtà positive di cui il Paese è miracolosamente ricco, opera di gente competente e appassionata che vive e lavora nonostante il contesto istituzionale devastato; agiamo quindi su quelle realtà, cerchiamole, intrufoliamoci, aiutiamole, diffondiamone la notizia. Esistono i Linux User Group, i Fablabquesto è quello di Firenze – il mondo del coworking, giusto per menzionare alcune realtà, estremamente vitali, pervasive e soprattutto, interamente gestite da giovani. È lì che dobbiamo andare e co-operare, invece di sentenziare dai nostri scranni alla deriva.

In seguito approfondiremo e entremo nei dettagli di queste attività. Ora però citiamo un’attività che è particolarmente interessante per questo laboratorio: il caso di WiildOs [2], una distribuzione di Linux costruita intorno alla lavagna digitale di bassissimo costo realizzata con il telecomando Wiimote e pensata per insegnanti italiani, perché fatta da giovani italiani – qui la storia. Invito tutti a esplorare questi link e anche la Mappa di riferimento delle scuole e degli insegnanti che utilizzano software libero nella scuola. Torneremo presto sull’argomento.


[1] R.I.M. Dunbar (1993) “Coevolution of neocortical size, group size and language in humans”, Behavioral and Brain Sciences, 16: 681-735.

[2] Gli sviluppatori del progetto WiildOs stanno ristrutturando l’organizzazione e la distribuzione del software. L’obiettivo è quello di poter offrire in estate una versione di Ubuntu con tutti i pacchetti che compongono il progetto WiildOs, al fine di offrire una distribuzione didatticamente valida e ancora più stabile. Tuttavia è già possibile sperimentare una buona versione di WiildOs: file ISO – 2.3 GB – per chi sa cos’è, la stringa di controllo MD5 dell’integrità del download è 102405f525771f2d02802dfc245d8459. Attenzione però, installare un sistema operativo non è come installare un singolo software, come potrebbe essere LibreOffice. Sebbene non sia una cosa trascendentale richiede un minimo di dimestichezza con operazioni del genere oppure la disponibilità di qualcuno che sia in grado di dare eventualmente una mano. In ogni caso, prima di installare un certo sistema operativo su una certa macchina, occorre fare un indagine in rete su eventuali esperienze preesistenti, relative all’installazione di quel sistema su quella macchina. In futuro cercheremo di approfondire questo tema.

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