Perso in un reticolo di tracce con un inutile registro in mano


immagine ravvicinata di un fascio di edere che inviluppano un tronco di acacia– Perché sei così nervoso stasera?

– Eh, domani ho esami …

Per fortuna sono circondato da creature comprensive che conoscono bene certe paranoie. Le paranoie tipiche dell’hacker che, come dicono oggi, sclera di fronte ad  una cosa di cui non vede il senso. E degli esami io non ho mai capito il senso.

Che facciamo allora domani? Beh, quello che posso fare è di andare a frugare fra le tracce dei miei studenti, sperando di trovare degli appigli decenti per sostenere l’esame. Sostenere, appunto, ma chi lo deve sostenere questo esame? Mica mi è del tutto chiaro …

E frugo e mi perdo, perché le tracce non sono una manciata di sentieri, no, iniziano ciascuna da un punto ma poi si intrecciano subito formando un reticolo che può essere percorso in una moltitudine di versi. Lo scoramento si aggiunge allo scoramento. Ho bisogno di una visualizzazione di queste tracce aggrovigliate. Devo recuperare una visione d’insieme ma non lo posso fare insistendo nella caccia ai particolari, nella costruzione di distribuzioni, calcolo di medie, compilazione di griglie.

Arraffo l’apparecchio fotografico e esco, sicuro di trovare qualcosa. Infatti dopo dopo dieci minuti mi cade l’occhio sul tronco di un’acacia inviluppato in un fascio di edere. Lo conoscevo già benissimo, l’avrò visto centinaia di volte in tanti anni, ma oggi avevo uno sguardo diverso, perché avevo bisogno di qualcosa. Mi sono avvicinato e ho provato a seguire dal basso verso l’alto alcuni di quei torciglioni, ma era ancor più difficile che seguire i fili di tutti quei messaggi al computer. Difficile quanto inutile, tanto valeva allontanarsi un po’ e lasciarsi impressionare dalla forza espressa da quella coltre di rami, uno per uno così fragili da potersi rompere semplicemente con le  mani.

Rinfrancato da questo esercizio mentale ma forse anche un po’ ossigenato, mi rendo più facilmente conto che è una gran bella cosa che mi sia perso nel reticolo delle tracce, che è esattamente quello che deve succedere. I dialoghi che si intrecciano sono la linfa che dà vita a una comunità, e una comunità di persone che perseguono un obiettivo comune e cooperano condividendo pratiche e risorse, è il migliore alleato che un insegnante possa trovare.

Limito quindi l’analisi a pochi numeri, a solo scopo esemplificativo, altro non occorre: nell’appello di domani ci sono 6 studenti, non sono certo tanti, ma quando cerco i commenti che hanno scritto o nei quali sono stati chiamati in causa nel mio blog, ne conto di norma più di cinquanta, di meno in un caso e più di cento in un altro. E questa è solo una misura molto parziale delle attività svolte, sia in termini quantitativi che qualitativi, soprattutto qualitativi. In un (per)corso del genere il concetto di esame convenzialmente inteso è completamente privo di senso, perché io so già perfettamente quanto ciascuno degli studenti ha lavorato, quanto si è impegnato, che tipo di difficoltà ha trovato, come le ha superate e che prodotti ha realizzato. Non solo, conosco l’indole di questi studenti, le loro inclinazioni personali, a quali forme espressive si sentono più inclini. Conosco anche molti lavori che avevano già realizzato in passato, con vari mezzi che coinvolgono una varietà di tecniche di editing multimediale, e di tali lavori mi sono meravigliato non poche volte.

Tutte queste cose che so, sono così chiaramente caratterizzate per ciascun studente, che qualsiasi tecnica di esame pensata Per Vedere Quale Sia Effettivamente La Farina Del Suo Sacco appare subito totalmente ridicola.

Domani queste sei persone conseguiranno una votazione di 30/30. Non si tratta di un “30 politico”. Non è nemmeno vero che tutti abbiano svolto lo stesso lavoro, anzi hanno lavorato, sia in termini quantitativi che qualitativi, in modi molto differenti. Ma è proprio perché le loro attività sono così diverse che è insensato volerle misurare con una singola cifra. Quello che conta è che ciascuno, a partire dalla propria posizione, in dipendenza delle proprie necessità (professionali) e delle proprie inclinazioni, abbia ricavato dal (per)corso un valore aggiunto; un valore aggiunto che non può tuttavia ridursi a Sapere Fare Questo e poi Sapere Fare Anche Quello, perché magari fra un paio di anni qualcuno di loro dovrà Sapere Fare Una Cosa Che Prima Non C’Era mentre Quella Cosa Imparata Due Anni Fa Non La Usa Più Nessuno.

Il valore aggiunto risiede nello stato d’animo con il quale si affronta una novità in un determinato contesto; nel fatto che quella che prima era ritenuta roba impossibile, roba da specialisti, ora invece è qualcosa che forse si può fare; nell’avere scoperto nuove possibilità; nell’avere scoperto cosa e come hanno scoperto i propri pari. La votazione piena vuol dire che lo studente che la ottiene ha lavorato, penato, cercato, chiesto, risposto abbastanza per creare una significativa quantità di valore aggiunto. Non c’è altro da misurare.

E quel valore aggiunto lo sentono per primi gli studenti stessi e sono proprio loro che me lo comunicano con le loro attività, i loro entusiasmi e talvolta direttamente con le loro parole, senza che siano stati sollecitati in tal senso. Quindi domani, con ognuno di loro, discuteremo brevemente di tali sensazioni, le leggeremo se sono state scritte e poi io chiederò loro di provare a individuare i difetti di questa esperienza e i possibili miglioramenti che potrebbero immaginare.

Chiudo quindi gli appunti che avevo iniziato a prendere, dopo averli ridotti ai minimi termini, chiudo gli editori di testo spersi in giro per lo schermo, anche tutti i fogli di lavoro dove volevo catalogare chissà cosa e, prima di spedire il post e spengere tutto, riaggiusto un po’ l’immagine di quell’intreccio di rami, così normale in natura, tutta fatta d’intrecci.

 

 

 

La consapevolezza della propria identità nella rete


Dove invece chiudo con il discorso pratico sulle nuvole e chiudo anche a malincuore il flusso di post per questa blogoclasse, molto insoddisfatto per non essere riuscito a fare tutto quello che volevo.

Aggiornamento 23 febbraio: questo NON è un post su Facebook, che ho preso ad esempio solo perché ben noto ai più; le considerazioni svolte riguardano invece TUTTI i servizi Web in qualche modo “social”: GoogleTutto, Twitter, Linkedin, eccetera.


Fotografia di foglie di leccio dove si mostra l'identità (fatta verde) di una di queste (fatte grige)
Una foglia di un leccio in una piazza di Firenze

Avrebbero mai potuto immaginare Marlowe, Goethe o Thomas Mann, che quel tema a cui si erano appassionati così tanto avrebbe riguardato l’uomo comune, anziché scienziati, filosofi, artisti? Come avrebbero potuto immaginare che quegli uomini che loro vedevano tribolare per la sopravvivenza quotidiana, oppure che vedevano completamente assorbiti dalle loro esistenze piccolo borghesi, si sarebbero trovati, un giorno nemmeno troppo lontano, a negoziare lo stesso diabolico patto, come loro avevano immaginato che solo uomini di scienza o artisti potessero fare? Certo, non che oggi la grande massa sia consapevole di trovarsi nel bel mezzo di un tale grave frangente, tutt’altro, ma è proprio questo il punto: rendersi consapevoli.

È diabolica la lusinga innocente, complice anche l’ignoranza e la sottovalutazione dei fenomeni che hanno luogo nel cyberspazio: – Eh ma la vita reale è qua! Quella virtuale è fittizia…
Niente affatto amici, la vita reale è di qua e di là. Perché gli innumerevoli servizi e benefici che tutti danno ormai per scontati, nativi digitali, immigrati digitali e anche non-digitali, nascono di qua, ma poi in qualche forma passano di là, nel cyberspazio dove vengono accelerati e potenziati, per poi tornare a sostanziarsi di qua, in quello che chiamiamo mondo reale.

È diabolica la lusinga nella sua semplicità: – Guarda ho scoperto un servizio incredibile e non costa nulla! Basta una semplice iscrizione… – ed è vero, non costano nulla tutte queste meraviglie, e salvo alcune eccezioni, che comunque sono marginali, non si riducono al solito trucchetto con il quale ti si fa abituare ad una cosa gratis e poi, quando ti sembra di non poterne fare più a meno, si inizia a fartela pagare. No, sono sempre gratis e il bello è che migliorano tutti i giorni, quello che ieri non si poteva fare oggi si può, anzi, si può fare anche meglio di quello che ieri avremmo potuto immaginare di chiedere, quasi un po’ imbarazzati: – Non è che potrei fare anche questo … ? – certo che puoi, anzi di più!

Miracoli della tecnica? Meravigliose ricadute collaterali della conoscenza scientifica che cresce a perdiesponenziale? – Ah sarà un bel sollazzo! ne vedremo ancora delle belle! Qua ce n’è per tutti ragazzi! – è vero, ce n’è per tutti, ma c’è anche dell’altro. Prendiamo Facebook – giusto a titolo d’esempio.

Per iscriversi ci vogliono pochi secondi e non si paga nulla. Con questo semplice atto ci troviamo un paese popolato da 850 milioni di persone. Se non si va troppo per il sottile nell’accettare nuove amicizie, in quattro e quattr’otto ci si ritrova con qualche centinaio di contatti. Si possono condividere pensieri, immagini, video, ci si può scrivere privatamente, si possono formare gruppi per lavorare su obiettivi comuni, vi si posso sviluppare applicazioni e tante altre cose. Virtualmente, grazie alla legge dei 6 gradi di libertà, in pochi colpi puoi raggiungere uno qualsiasi degli altri 850 milioni di iscritti. Ci ritrovi tutte le persone che hai incontrato in giro per il mondo, ritrovi anche il fratello emigrato in Canada con il quale non ti parlavi più da vent’anni – magari per scoprire che era meglio non ritrovarlo. Scopri diverse iniziative interessanti e perfino lodevoli, ma ti rendi conto che si tratta prevalentemente di una mostruosa happy hour. Tu puoi reagire con maggiore o minore entusiasmo, magari con fastidio, ma certo non ti sfugge l’enorme facilità con cui questa semplice mostruosità ti facilita i contatti con il prossimo. Poi cosa siano i contatti per davvero è un’altra storia ma non hai nemmeno tempo per pensarci, sei ubriacato dalla quantità, dalla contattabilità a gogò. Ti può piacere o non ti può piacere, ma riconosci che è tanta roba che ti viene data per niente, per una mera iscrizione.

Ma che c’entra il diavolo con tutto questo? Stiamo parlando di una mera applicazione tecnologica, in fin dei conti, no? No, stiamo parlando di una transazione di natura economica fra due soggetti che si accordano su di uno scambio di valori, uno ben consapevole di stare facendo un gran business, l’altro che si concede un piacevole sollazzo, ma del tutto ignaro del patto che va stringendo con il diavolo. Perché il diavolo? Come perché? E che si è sempre venduto al diavolo se non l’anima, se non se stessi? Ecco, ora lo potete fare, lo passiamo fare, lo faccio anch’io, e reiterate volte, magari con la scusa che devo perlustrare nuovi territori, anche quelli occupati dal nemico, ma lo faccio, ovvero li abito. Li abitiamo tutti quanti.

Vendere se stessi vuol dire qui vendere la propria identità, e anche questo può parere esagerato: – In fin dei conti ho dato un nome di login e una password, e poi nome e cognome. Sennò come fanno a trovarmi gli amici? Ma insomma, non ho poi dato così tante informazioni. In fin dei conti il mio nome e cognome si trova anche sull’elenco telefonico, forse da una quarantina d’anni!
Vediamole un po’ più da vicino queste informazioni.

Innanzitutto il “sistema dall’altra parte” individua il numero IP del mio computer, e quindi la mia localizzazione geografica. Poi identifica i cookie presenti sul mio computer, ovvero quei pezzetti di codice, che i siti web lasciano sui computer dei visitatori, come molliche di Pollicino, per ritrovare la strada nelle informazioni che consentono di svolgere il servizio verso ciascun utente. Poi prende nota del sistema operativo e del browser che sto usando, quindi traccia tutti i miei click e le relative destinazioni, accumulando una mappa delle mie preferenze e dei miei contatti. Tutte queste informazioni vengono condensate e associate ad un codice alfanumerico che mi viene appioppato. Tutto ciò che farò successivamente verrà similmente agganciato a quel numero che mi identifica in modo univoco nel mondo degli utenti di quel servizio, nel mondo degli 850 milioni di utenti di Facebook per esempio.

È così che quando faccio un nuovo account, io baratto la mia identità a fronte di un certo numero di servizi. Un’identità che all’inizio è composta da un numero relativamente modesto di informazioni, anche se magari piuttosto rilevanti, quali nome e cognome, ma che con il passare del tempo va arricchendosi costruendo un profilo che mi identifica sempre più accuratamente.

Ma cosa potrà valere mai la mia identità, uomo comune, privo di particolari attrattive, non povero ma nemmeno ricco, privo di informazioni critiche o strategiche, uno come tanti? Non tanto, quasi nulla effettivamente, ma qualcosa. Facciamo i conti. Pare ormai certo che prossimamente Facebook verrà quotata in borsa, si dice in primavera o in estate. Le stime che circolano parlano di una capitalizzazione dell’ordine di 100 milliardi di dollari. Prendiamola per buona, se poi saranno 50 o 150 la sostanza non cambia. Se gli utenti sono 850 milioni, allora ciascuno di essi “vale” 118 dollari. Vale perché Facebook non ha che le loro identità. Non ha fabbriche che producono scarpe, o montature per occhiali. Non ha stabilimenti nei quali entrano materie prime e escono prodotti, o parti di prodotti. Non ha camion, navi o aerei che trasportano prodotti. Non ha niente. Sì, ha dei capannoni pieni di server, o li affitta da altri. Ma non ha niente altro. Possiede solo le nostre identità, ed ognuna di queste vale 118 dollari, in media. Se andiamo a prendere i dati di fatturato e di utile, ebbene allora scopriamo che ciascuno di noi, in media, contribuisce al fatturato di Facebook con 5 dollari e produce un dollaro di utile all’anno, una miseria. È una situazione incredibile: Facebook siamo noi e solo noi! Senza quegli 850 milioni di manciate di informazioni da 118 dollari l’una, svanirebbe come una bolla di sapone, anzi rimarrebbe un considerevole buco sotto forma di server e infrastrutture inutili. Ciascuno di noi conta pressocché zero ma tutti insieme diventiamo un business colossale, uno dei più grandi business che si siano visti sul pianeta. Una genialata.

Il motivo per cui si genera tutto questo valore è semplice: chiunque voglia mettere sul mercato prodotti o servizi ha grande interesse in qualsiasi mappatura delle preferenze, magari messa in relazione con riferimenti geografici, sociali, anagrafici, professionali, solo per menzionarne alcuni. La pubblicità è l’anima del commercio, ma la pubblicità ideale è quella che consente a me venditore di concentrare il messaggio pubblicitario su chi è più maturo per recepirlo. Facebook vende esattamente questa roba.

E io, povero individuo, di quali opzioni dispongo in questo gioco, inizialmente innocente e un po’ trendy, ma poi inquietante mostruosità? Proviamo a individuarne alcune, graduandole in base alle possibili inclinazioni dell’utente.

  1. Non ne voglio sapere niente. È molto semplice: non mi sono mai iscritto e non mi iscriverò mai. Vivo benissimo senza, dicono che pago il prezzo di essere fuori dal mondo. Non so che farmene di quel mondo, non mi interessa quell’oceano di banalità.
  2. Ormai mi sono iscritto, ma poi mi sono accorto di una serie di cose che non mi piacciono per niente. A un certo punto ho cancellato il mio account con tutte le informazioni che ci avevo messo, e ho provato come un sollievo per essermi ritirato da una cosa che non mi interessa e anzi mi sembra preoccupante. Poi un giorno, ho appreso da un articolo sul giornale che sì, avevo cancellato tutti i miei dati ma solo per me! Facebook li conserva tutti e li conserverà finché esisterà, magari più a lungo di me! Mi posso consolare con l’idea che quel pezzetto di identità venduta sia rimasta lì, congelata, e che essa sia minima rispetto a quella che sarebbe potuta diventare se fossi rimasto dentro al sistema. Rimango tuttavia disturbato dall’irreversibilità del baratto, effettivamente un po’ diabolico.
  3. Mi sono iscritto e ho dato vita a un’iniziativa interessante e utile: ho creato un gruppo di collegamento con i miei compagni di corso al I anno del corso di laurea. Siamo più di trecento e l’organizzazione dell’università non è il massimo. Il gruppo si è rivelato utilissimo per lo scambio dei materiali didattici, per l’ottimizzazione dei gruppi nei laboratori, per la diffusione delle informazioni sugli appelli d’esame e varie altre cose. Un amico geek mi aveva detto che tutte queste cose si potevano organizzare tecnicamente anche in altri modi, ma io, che devo anche studiare e non è che posso fare l’amministratore di un sistema informatico a tempo pieno, grazie a Facebook ho potuto contattare e coinvolgere in pochissimo tempo quasi tutti i compagni di corso. Mi sono poi accorto di vari aspetti negativi del social network che non mi piacciono per niente e questo mi ha messo in difficoltà. Per ora ho risolto il problema usando Facebook solo per il gruppo, trascurando tutto il resto. In questo modo limito l’espansione incontrollata della mia identità digitale, limitandola agli aspetti connessi con la vita del gruppo di coordinamento degli studenti.
  4. ekkeppalle siete vekki vekki solo problemi vedete problemi problemi ma mai ke 1 cs vi piace
    quello di informatica peggio di tutti fa lo ye ye e poi riski qua riski la vekkio bacucco anke lui
    ma kissenemporta fb fa le buke e c s diverte appalla

Questi atteggiamenti esemplificano quattro possibili livelli di partecipazione, aventi valore diverso dalla media di 118 dollari che abbiamo calcolato poc’anzi. Tirando un po’ a indovinare e scartando ovviamente i non-utenti del tipo 1, gli utenti del tipo 2 potrebbero ad esempio valere 10 dollari, quelli del tipo 3 120 e quelli del tipo 4 1000, o qualcosa del genere.

Non c’è quindi una ricetta ideale. Tutto quello che si può fare è determinare il compromesso fra l’estremo Non Ne Voglio Sapere Niente all’altro Ma Ke Vuoi Ke Succede. Concludo con un elenco minimo di consigli, ricordando che ho utilizzato il riferimento a Facebook solo a titolo di esempio.

  • Evitare di fornire tutti i dati facoltativi.
  • Non inserire dati su famigliari e soprattutto minori. Questo non significa non narrare fatti occorsi realmente, ma abbiate cura di decontestualizzare e di usare pseudonimi.
  • Limitare l’inserimento di preferenze personali.
  • Ricordarsi che questi siti mantengono le vostre informazioni anche se voi le cancellate.
  • Se accade qualcosa di strano al vostro account, contattate il servizio clienti – questo nel caso di Facebook; e qui ci sono le istruzioni per recuperare fare un download dei propri dati.
  • La rete è piena di informazioni a riguardo, ma segnalo agli insegnanti le slide che Caterina Policaro ha pubblicato recentemente nel suo blog sul tema dei giovani e dei social network. Nello stesso blog potete trovare anche molte altre informazioni utili sull’impiego degli strumenti 2.0.

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Dove invece di chiudere con un discorso pratico sulle nuvole ci perdo l’orientamento, una giornataccia …


Colpa anche di Claude e del nonno del Cloud…

LESINA:
Oh me lo dici, in nome di Dio, chi son costoro,
Socrate mio, che intonano cosí nobile coro?
Eroine?
SOCRATE:
Chè! Nuvole celesti, sono, Dee
solenni degli sbucciafatiche. Esse le idee
ci dànno, la dialettica, la ciurmeria, l’ingegno,
la chiacchiera, il ghermire concetti, il dar nel segno!
LESINA:
Per questo, al solo udirle, sembra che metta piume
il mio spirito, e cerca di parlar con acume,
di dir fumose ciance, di bucare concetti
con piú fini concetti, di opporre detti a detti.
Sicché, vorrei, se posso, veder come son fatte!


Due passi all’aria aperta ci vogliono, i pensieri ormai invischiati nell’intrico di frammenti e video non finiti, ritagli di giornale, bookmark, link sbarazzini…

Foto di nuvole notturne

Cupe, minacciose, stasera le nuvole. Torno a quella lucina là in mezzo, forse ritroverò la via.
Foto dello studio la sera

Da fuori pareva luce, da dentro sono bagliori fluorescenti, sinapsi della nuvola. Mi sento intrappolato.


Mi viene in mente quella macchina, incrociata due volte qualche mese fa, lì vicino, proprio come quella in questa foto. All’andata, in velocità, m’era parso che fosse una di quelle che portano flipper e slot machine ai bar, o una diavoleria del genere. Al ritorno invece ho fatto in tempo a leggere Google maps! Ma come, anche qui? In mezzo ai boschi? E mi viene ora in mente Scroogle, motore di ricerca che, usando le ricerche di Google, ne elude però la capacità di tracciare gli utenti. “Did Google Just Disable Privacy-Friendly Scroogle?”. L’hanno richiuso, chi, in che modo? Google? Gli hacker reazionari?

 

 

 


Processo con il quale Google accumula dati sul territorio facendo il rilievi fotografici ma anche quelli wifi

Ho fatto appena in tempo a scaricare queste immagini da Scroogle, prima che svanisse, spero per poco. Non ho fatto in tempo a vederne la licenza d’uso, non importa, le propago volentieri, visto che Scroogle per ora non c’è. E spero di non vedermi volare sulla testa qualcosa del genere, prossimamente …

Cloud e dintorni


Ma questo è il grid, la griglia! – sbottò l’anziano professore, matematico napoletano, in una riunione di circa quindici anni fa dove si doveva decidere l’impostazione di un progetto di ricerca per gli anni successivi. Il grid, o più precisamente il computing grid (griglia computazionale) era il nome di quella cosa che, sulle ali dell’immaginazione, stavo tratteggiano sulla scorta di alcuni risultati che avevamo ottenuto recentemente insieme. Successivamente, nella veste di utente di internet, mi sono accorto anche dell’esistenza del cloud computing e che questo è parente del grid computing, anzi, ci è cresciuto intorno. Semplificando le cose, con il grid computing si rendono disponibili rilevanti risorse di calcolo e memorizzazione in particolari circostanze e a richiesta. Con il cloud tali risorse vengono rese disponibili in modo ubiquitario e pervasivo.

Avevo già menzionato il cloud in Una particolare introduzione alla nuvola con l’intento di dare un pur minima e superficiale idea di come la proliferazione dei codici stia alla base del mutamento del web, mutamento che ha poi condotto a fenomeni del tipo web 2.0 e cloud. Andiamo ora all’altro estremo.

Fra le notizie recenti del nostro quotidiano, troviamo che l’agenda digitale rientra fra le priorità del Governo Italiano – almeno a parole, fino ad ora nemmeno quelle – e che tale agenda pare sia composta da quattro capitoli:

  1. Open data
    Consiste nel processo che consente di rendere disponibili al pubblico in internet l’immensa mole di dati detenute dalle pubbliche amministrazioni, quando tali dati non creino specifici problemi di privacy a singoli individui. La tendenza è quella di arricchire questi repositori pubblici con delle sofisticate tecniche di rappresentazione grafica dinamica, mediante la cui manipolazione l’utente può estrarre dai database set di dati diversi. Ecco un esempio relativo ai pignoramenti di beni ipotecati nella città di Lowell, nel Massachusetts. Si tratta di una demo del progetto open source Weave descritto in un post che ho scoperto ieri grazie a questo twit:

    In questa lista di bookmark ho riunito con il tag “opendata” alcuni siti web particolarmente interessanti. Annessa a ciascun bookmark trovate una mia brevissima descrizione.
  2. Banda larga Ovvero, oggi lo sviluppo economico ha bisogno di banda, e l’Italia è in ritardo. Come ho scritto in un altro post, nella classifica di banda disponibile in MBPS (Mega Bit Per Second) pro capite siamo al trentesimo posto, laddove l’Italia si trova all’ottavo posto nel ranking del PIL, secondo i dati della World Bank. A mo’ di riferimento, la Svizzera si trova al 19-esimo posto nella classifica del PIL ma al settimo in quella della banda disponibile per cittadino.
  3. Cloud computing, di cui stiamo giusto parlando.
  4. Smart communities Comunità di cittadini che si aggregano sulla base di problematiche di interesse comune. Per esempio uno spazio internet nel quale le persone segnalano disagi o danni al territorio utilizzando una mappa tratta da open data resi disponibili dalle amministrazioni. Oppure comunità che discutono aspetti di assetto del territorio in cui vivono, dalle quali gli amministratori possono trarre indicazioni utili relativamente alle orientazioni predominanti degli abitanti. Può essere interessante questo articolo per avere alcune notizie su quello che sta accadendo in Italia. Molto interessante l’offerta dell’ISTAT, già attiva in I.Stat; vale la pena di scaricare Guida utente (pdf), per capire quello che si può fare.

Buone notizie, almeno sul piano del lessico, che fino ad ora non ci saremmo nemmeno sognati di leggere. Naturalmente, dovranno seguire i fatti, e questo potrebbe essere un altro discorso. E perché i governi dei paesi industrializzati vedono il cloud computing fra gli elementi strategici dei loro programmi? Semplicemente perché la nuvola è già ampiamente arrivata nel mondo del business, in modo massiccio e a livello internazionale. E il mondo del business esercita la sua influenza, eufemisticamente parlando, sulle amministrazioni. Si veda per esempio il documento Promoting Cross‐Border Data Flows – Priorities for the Business Community (pdf) che è stato firmato da diversi giganti dell’Information Technology, uniti nel chiedere ai governi regole che garantiscano il libero scambio delle informazioni attraverso le frontiere. Detta così sembra una cosa davvero bella, e lo è anche, ma non solo, perché poi le corporation fanno di tutto per colonizzare i territori del cyberspazio. In realtà è tutta una guerra di natura commerciale, perché a questi protagonisti del cloud planetario, si contrappongo quelli che operano sui cloud nazionali, che invece hanno interesse a spuntare trattamenti normativi specifici per i propri rispettivi paesi. Tutto questo significa che il cloud è ormai una realtà concreta per le aziende, che stanno intravedendo ingenti vantaggi economici nella migrazione dei loro servizi verso le nuvole. Si stima che (Centre for Economics and Business Research via Sole 24 Ore) l’adozione del cloud potrebbe comportare un beneficio di 150 miliardi di euro nel periodo fra il 2010 e il 2015, qualcosa che corrisponde a circa l’1.8% el Pil. Gli operatori che provano a valutare trasformazioni del genere si rendono conto dei vantaggi cospicui. In Italia il 31% delle aziende impiegano qualche forma di cloud ed è un dato destinato a crescere. Crescerebbe ancora più rapidamente di quanto non faccia, se tutte le imprese ne fossero informate, specialmente le più piccole, ma anche se alcuni legittimi timori potessere essere mitigati, in merito alla sicurezza dei dati, alle questioni di privacy e agli aspetti legali connessi. Questi ultimi sono particolrmente preoccupanti a fronte di un ritardo cronico nell’adeguamento delle normative, peraltro in contesti che sono diversi nei vari paesi.

L’offerta di soluzioni cloud sta crescendo e si sta complessificando in maniera vertiginosa, attraverso la sedimentazione velocissima di successivi strati di codice. Un’organizzazione che voglia affidare al cloud la gestione dei propri dati, oggi può accedere a varie soluzioni possibili, notevolmente diverse fra loro. Le soluzioni in primo luogo si possono distinguere in cloud pubblico e privato.

  • Cloud privato

    In pratica si tratta di spostare i servizi informativi gestiti dall’organizzazione ad un provider che fornisce una soluzione dedicata, una sorta di nuvola privata, assimilabile tuttavia ad una normale esternalizzazione. Massima sicurezza, ma anche massimi costi.

  • Cloud pubblico

    Il provider gestisce un unico grande cloud offrendo una varietà di servizi. Le organizzazioni li possono usare con costi valutati sull’impiego effettivo delle funzionalità. Diminuiscono i costi, ma le soluzioni sono più rigide, a meno di personalizzazioni specifiche – tuttavia i costi si rialzano – e aumentano le preoccupazioni per sicurezza, privacy e magari questioni legali, se i server del cloud sono localizzati all’estero. Sono di solito preferiti dalle piccole organizzazioni

  • Soluzioni miste

    Molte organizzazioni optano per soluzioni miste, utilizzando un cloud privato per la gestione dei dati più sensibili. Oppure utilizzano le diverse tipologie in funzione delle diverse tipologie di clienti. Questo è per esempio il caso di Docebo, un’azienda che offre soluzioni per l’E-Learning, che alcuni di voi hanno utilizzato all’interno del progetto Il bambino autore in un’esperienza che è stata citata in una delle riunioni online.

Oppure, le soluzioni di cloud computing possono essere distinte in maniera più analitica in base ad aclune grandi categorie di servizi offerti.

  • SAAS: Software As A Service

    Queste sono soluzioni utilizzabili attraverso il browser, senza che l’organizzazione-cliente debba acquistare, installare, configurare e mantenere nulla. Per esempio, il prodotto Docebo E-Learning Platform As a Service è un servizio SAAS, basato molto sulla suite di servizi Google, Gmail, Google Docs eccetera.

  • PAAS: Platform As A Service

    Qui invece si offre una piattaforma personalizzata, localizzata nei server dell’azienda che offre il servizio oppure nei server dell’organizzazione cliente. Un esempio è il prodotto Docebo Premium è un servizio PAAS, con il quale l’azienda erogatrice del servizio installa un sistema adattato alle esigenze del cliente.

  • IAAS: Infrastructure As A Service

    E qui siamo veramente nella nuvola. Vediamo l’esempio dell’ Amazon Elastic Computing Cloud (Amazon EC2). Con EC2, chiunque, dal singolo individuo alla grande corporation, può acquistare una qualsiasi “quota di infrastruttura informatica”, a partire da una piccola applicazione web, come potrebbe essere quella che io mi sono fatto per gestire la blogoclasse, per finire ad un complesso servizio web che necessiti di super prestazioni, in termini di calcolo o in termini di storage di informazione. Lo puoi dimensionare al volo, se le esigenze cambiano improvvisamente. Puoi scegliere esattamente l’ambiente che vuoi: una macchina 32 bit? 64bit? doppia o quadrupla CPU? Un cluster (gruppo) di macchine HPC (High Performance Computing)? Windows? Linux Debian? O Ubuntu? O Linux Redhat Enterprise?

    Non ha costi minimi, se consumi zero paghi zero, poi paghi quanto usi: quanto tempo CPU, quanto storage, quanto trasferimento dati in e out, quanti IP. Le tariffe sono lì, puoi progettare esattamente la tua applicazione, con costi e prestazioni. C’è anche un calcolatore dei costi mensili, dove puoi mettere i parametri che ti aspetti e lui ti fa una previsione dei costi. Ho provato, immaginando di porci la mia applicazione web. Salvo errori, sono venuti 6.25 $ al mese, anche se in realtà per il primo anno di uso ti danno tutto gratis.

    All’altro estremo delle possibili applicazioni, possiamo menzionare quella del The New York Times, che grazie al sistema EC2, si ritrova la potenze di un sistema di High Performance Computing, ovvero di uno di quei sistemi di calcolo che vengono utilizzati per applicazioni di supercomputing scientifico, per esempio previsioni meteorologiche, simulazione di folding delle proteine, ricostruzione di immagini mediche eccetera. Con questo sistema il The New York Times può processare un archivio dell’ordine dei terabyte (migliaia di miliardi di byte, o diciamo circa 1000 volte il disco rigido di questo muscoloso laptop) in 36 ore, laddove con un sistema informativo aziendale, pur potente, lo stesso lavoro avrebbe potuto richiedere giorni o mesi.

    Infatti, il cloud di Amazon ha iniziato a scalare il famoso (in ambito scientifico) ranking dei 500 supercomputer più veloci del mondo, trovandosi in 42-esima posizione all’ultimo rilevo di novembre scorso. Questa prestazione è stata ottenuta realizzando un cluster 17024 CPU e oltre 60 TB di memoria. Alcune di queste realizzazioni sono usate dall’industria farmaceutica, per esempio.

    Ma il fatto che non mi perito di definire mirabile, è che la stessa infrastruttura possa essere scalata a livello di una minima applicazione web dal costo infimo, il tutto sostanzialmente attraverso un servizio web.

E com’è che si fabbricano questi straordinari sistemi? Con montagne di codice. Tutto e solo codice. Sì, sotto c’è l’hardware, sempre più performante, ma le magie si fanno pricipalmente con il software. Ormai le macchine sono virtuali: posso avere un server su cui installo un sistema qualsiasi e poi in questo faccio girare uno o altri sistemi. Per rimanere al livello minimo dell’utente privato: posso creare una macchina Windows in una Linux Ubuntu o viceversa una Linux Ubuntu in una Windows, o qualsiasi altra combinazione. Sono link trovati al volo giusto per dare l’idea, di come oggi il software consenta di modellare qualsiasi contesto.

Ed è questo il punto: con il codice oggi si determina il mondo nel quale vivamo, di fatto. Tutti gli strumenti, molti assolutamente portentosi – tutti i Google-strumenti, i social network, gli innumerevoli servizi web per fare qualsiasi cosa – non sono altro che codice. E tutto quello che si può fare e non si può fare, viene determinato da chi ha scritto quel codice. Se volete, è come un enorme videogioco dove il programmatore ha definito le possibilità dei personaggi.

E chi decide quello che codificano i codificatori? In questa fase, ormai, le corporation. Le visioni alla Stallman, che io nel cuore condivido, sono minoritarie, percentualmente. Intendiamoci il mondo degli utenti-autori liberi e competenti – insomma degli hacker, che sono buoni – è vivo e vegeto, per fortuna. Ma le forze messe in campo dalle corporation sono immense e sono oggi fra le più grandi del pianeta, in termini economici. La capitalizzazione di mercato della Apple, che si aggira intorno ai 400 miliardi di dollari, supera il Pil di paesi come la Svezia (354 miliardi di dollari), l’Austria (332) o la Svizzera (324). Guardate questo grafico selezionando l’estensione temporale di 10 anni.

Un tempo le regole delle relazioni commerciali e dei sistemi economici in generale, erano determinate attraverso gli strumenti legislativi degli stati nazioni, raccordate fra loro mediante opportuni accordi internazionali. Oggi, sono le corporation che di fatto determinano le regole e lo fanno perché

  • hanno una forza economica paragonabile a quelle delle nazioni (la capitalizzazione Apple supera il Pil dei 50 paesi più piccoli del mondo)
  • sono di gran lunga più veloci delle amministrazioni pubbliche nella creazione di nuove regole
  • non possono aspettare perché il modello di sviluppo prevalente è quello determinato dal libero mercato

Snocciolo questi numeri affinché tutti abbiano ben chiaro che in questi territori si stanno giocando le partite essenziali del pianeta. Sono perfettamente d’accordo che le partite essenziali dovrebbero essere tutt’altre, ma questo è ciò che noi, e non i marziani, abbiamo costruito. E comunque è un’altra storia.

In tutto questo scenario si inquadrano anche gli innumerevoli strumenti web che tutti possono usare individualmente, e che hanno finito per influenzare addirittura la vita privata delle persone. Ogni strumento web esprime una sua nuvola ed è là che appoggiamo le nostre email, i nostri file, è là che intrecciamo innumerevoli dialoghi ed è là che talvolta lavoriamo. E tutto questo ci sembra straordinario perché scopriamo di poter fare cose che prima erano inimmaginabili. Ci vengono regalati spazi enormi per memorizzare i nostri dati e modi inusitati per condividere con intere vaste comunità i prodotti del nostro lavoro. E tutto questo gratis! Sembra un miracolo, un vento buono e generoso, frutto della conoscenza e delle conquiste tecnologiche.

Stallman non è per nulla di questo avvisoÈ stupidità: è peggio che stupidità, è una montatura pubblicitaria … Qualcuno dice che questo è inevitabile; quando sentite dire qualcosa di simile è molto probabile che abbia a che vedere con una campagna pubblicitaria volta a far credere che ciò sia vero.

Gli argomenti principali di Stallman e di tutto il mondo che gira intorno agli “smanettoni puri” sono che le persone potevano fare anche prima ciò che ora fanno con il cloud, che hanno perso il controllo degli strumenti e dei propri dati e che si vedono minacciata gravemente la propria privacy.
In buona parte tutto ciò è vero ma è anche irrealistico pensare che uno scenario come quello che abbiamo trattegiato fin qui, e che è dominato da potenti spinte economiche, possa essere invertito in forza di simili argomenti. Stallman, e tanti smanettoni che conosco, tendono a identificare la propria visione del mondo informatico con la propria, ma questa in realtà è un’estrapolazione assai ardita. Stallman dice che tutto quello che si fa nel cloud si poteva fare anche prima, perché le sue competenze gli consentono di immaginare subito delle soluzioni “fatte a mano”. Ma questa è una condizione nella quale si ritrovano pochissimi, in termini percentuali. D’altro canto, la proliferazione dell’infrastruttura di rete insieme alla tecnologia del browsing degli ipertesti, ha reso possibile l’accesso delle masse a internet. Le masse non risolvono i problemi scrivendo codice. È vero che tanti brillanti coders sono persone insospettabili – conosco un brillantissimo coder che è un umanista, laureato in filosofia, dottorando il lettere – ma sono pur tuttavia molto rari, in un qualsiasi campionamento trasversale della popolazione. Ed è tipico che questi individui particolari tendano a proiettare le possibilità che viene loro spontaneo intravedere, su tutti gli altri.

Se teniamo conto di questo, non è più vero che quello che si può fare nel cloud si poteva fare anche prima, assolutamente. Una grandissima massa di persone fa cose che prima non avrebbe potuto fare, in nessuna maniera. Naturalmente questo ha un prezzo, che consiste effettivamente in una perdita del controllo e in una perdita della privacy. Verissimo, ma non una novità. La condizione dell’hacker che è in grado – talvolta – di aggiustarsi le cose da sé e di sapere esattamente cosa fa il proprio software, è molto particolare. Se si guasta l’automobile a un meccanico è più probabile che lui intraprenda delle iniziative utili per cavarsela, rispetto a un automobilista comune. Anzi, forse era meglio scrivere questa frase al passato, perché essendo oggi le automobili governate dall’elettronica, nella quale gira software, l’affermazione non è più tanto vera. È bello raccomodarsi le cose da sé e c’è chi è molto bravo ma è raro. È l’organizzazione della società medesima che impedisce alle masse di avere il controllo di ciò che usano. Il cloud non è una grande novità in questo senso.

Lo stesso dicasi per la privacy. A me già il telefono di bachelite sembrava costituire una seria minaccia all privacy:

L’ideale sarebbe che il libro cominciasse dando il senso di uno spazio occupato interamente dalla mia presenza, perché intorno non ci sono che oggetti inerti, compreso il telefono, uno spazio che sembra non possa contenere altro che me, isolato nel mio tempo interiore, e poi l’interrompersi della continuità del tempo, lo spazio che non è più quello di prima, perché è occupato dallo squillo, e la mia presenza che non è più quella di prima perché è condizionata dalla volontà di questo oggetto che chiama. Forse l’errore è stabilire che in principio ci siamo io e un telefono in uno spazio finito come sarebbe casa mia, mentre quello che devo comunicare è la mia situazione in rapporto con tanti telefoni che suonano, telefoni che magari non chiamano me, non hanno con me nessun rapporto, ma basta il fatto che io possa essere chiamato a un telefono a rendere possibile o almeno pensabile che io possa essere chiamato da tutti i telefoni.

Devo a Marvi la riscoperta di questo brano scritto da Italo Calvino nel 1979, nel romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, che qui viene a pennello.

E allora che fare? Imparare a minimizzare i danni, educarsi, educare. Vedremo di raccogliere qualche indicazione pratica, magari aiutandosi a vicenda. Per ora rimaniamo con questa riflessione, consci che l’uomo ha sempre venduto l’anima al diavolo e che il progresso, in fondo è un po’ un vendere l’anima al diavolo, forse.

Due parole terra terra sugli ebook


Scrivo due righe sugli ebook, perché il tema è emerso spontaneamente nella blogoclasse, per esempio con l’estesa disanima delle fonti fatta da Gaetano in occasione dell’ultimo incontro online, oppure con il divertente post segnalato da Alessandra. Ma scrivo terra terra, esclusivamente della mia esperienza pratica con gli strumenti che ruotano intorno all’idea di libro, o poco più. Non scrivo di ebook a scuola, perché mi esprimerei per sentito dire e per ipotesi. Dico solo che mi fanno paura i tanti squali che ruotano intorno ad alcuni ghiotti bocconi, in una scuola che avrebbe bisogno di altri rinnovamenti prima di quelli tecnologici, magari contestuali, non certo successivi.

Asce preistoriche, Museo della Storia di Oslo
Asce preistoriche, Museo della Storia di Oslo, Licenza Creative Commons 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)
I libri sono un pezzo di tecnologia fantastica, specialmente quelli tascabili. Sì, proprio quelli di carta. La tecnologia è nata quando l’uomo ha iniziato a fabbricare strumenti a partire da materiali trovati in natura; quindi quella del libro stampato è una tecnologia sofisticatissima e relativamente recente. Il libro spesso è così piccolo che può stare anche in tasca, funziona senza corrente, ci si può scrivere sopra con il lapis, si può ereditare dalla nonna con le sue annotazioni, si può dare a figli e nipoti con le proprie annotazioni, si può regalare a un amico – regalare un libro letto e amato è come dare una parte di sé – se ne possono anche tagliuzzare le pagine per fare un collage. Insomma se ne può fare quello che si vuole e, riposto in uno scaffale – chiuso, per gli asmatici, eh … – se ne sta lì zitto e fedele, disponibile anche dopo cinquant’anni, o dopo cento, nella libreria della nonna.

I lettori di ebook sono un pezzo di tecnologia fantastica. Non tanto perchè scimmiottino sempre meglio il libro, ma perchè consentono nuove possibilità di accesso ad alcuni tipi di testo, in senso generale, e non solo. L’equazione libro=ebook è restrittiva, direi quasi sterile, anche perché le varie realizzazioni, via via escogitate dalle nuove rampanti corporation, si rivelano alquanto deludenti, preoccupanti e quindi insopportabili, tutte tese a fidelizzare la maggior quantità di consumatori possibile, avvalendosi di vari accorgimenti che la natura digitale dell’informazione rende possibile, genericamente noti sotto il nome di Digital Right Mangement (DRM).

Insomma, libri o ebook, tutte magnifiche tecnologie, più o meno nuove, con i rispettivi pro e contro. Ogni volta che ne appare una nuova dovremmo esplorarne gli impieghi, magari scoprendone alcuni del tutto imprevisti, e cercando di non spaccare il mondo in due.

Ho parlato subito di lettori di ebook e non di ebook, non a caso. Senza un lettore, l’ebook è una mera digitalizzazione, un file codificato in PDF, o in qualche altro formato. Ma se tutto si deve ridurre a leggere sul computer, cosa scomodissima e inefficiente, c’è ben poco di nuovo. La differenza la fanno i nuovi attrezzi, altamente portatili, immediati nell’uso e capaci di accedere al cyberspazio con canali e prestazioni ottimizzati per la fruizione di testi molto lunghi, come sono i libri appunto.

Scendiamo subito nella pratica. Ho acquistato, a suo tempo, un iPad e un Kindle. L’ho fatto perchè per il mestiere che svolgo devo cercare di sapere cosa siano e per capire cosa siano devo usarli. Orbene, questi due oggetti sono degli straordinari pezzi di tecnologia, con delle possibilità smisurate ma con alcuni gravissimi difetti, dovuti alla commercializzazione congegnata in modo da chiudere gli utenti in un recinto, togliendo loro la libertà. Di alcune caratteristiche di questi due oggetti avevo discusso a caldo, dopo poco tempo che avevo iniziato ad usarli, in un post scritto nel settembre 2010. Con l’impiego ho iniziato a capire meglio la logica di marketing di Apple e Amazon e mi sono fatto un quadro più articolato e a tratti più fosco. Questo post corregge quindi il tiro di quello vecchio. Era una cosa che dovevo fare da tempo, questa è l’occasione buona.

In realtà ho acquistato pochissimi libri tramite Kindle o Apple, tre o quattro, all’epoca in cui scrissi quel post. Non ho smesso di acquistarne perché i libri si leggano male su tali apparecchi, anzi. Io trovo che si leggano benissimo. Talvolta leggo più volentieri sul lettore digitale, altre preferisco il libro, dipende dalle circostanze e dal tipo di testo. La possibilità di ricercare frammenti di testo in modo istantaneo può essere una manna in certe occasioni, per esempio cosultando un manuale. Non è dunque per questi motivi che non ho continuato ad acquistare ebook, bensì perché a fronte di un costo più o meno simile, questi mi impediscono di disporre dell’acquisto come se fosse un libro, a causa dei vincoli che i produttori vi fabbricano sopra. E in effetti, in quei tre o quattro casi, non ho certo comprato classici, ma solo alcuni libri tecnici, quelli che una volta letti e usati per un periodo relativamente breve, diventano solo un ingombro. Finché le cose stanno così, io compro libri, li ricevo dagli amici, li regalo.

Il Kindle conseguentemente è finito in un angolo, e nel mio caso, i residui spazi del nuovo se li è mangiati quasi tutti l’Ipad, per ora. Poi, chissà … Vediamo quindi per cosa uso l’iPad.

  • Leggo molto con l’iPad, ma non propriamente libri, bensì tutte quelle cose che capita di leggere ad uno che lavora nel terziario, ovvero montagne di carta: relazioni, prospetti, documenti vari, soprattutto quando sono lunghi, per esempio tesi di laurea. Le tesi di laurea, che rappresentano un tipico inutile spreco di carta, si leggono benissimo con l’iPad.
  • Poi lo uso per leggere alcuni quotidiani. È molto utile quando non si ha la possibilità di andare a acquistare il giornale che si vuole leggere, o che non è facilmente disponibile, come per esempio un giornale estero. Alcune testate offrono il giornale attraverso un’applicazione apposita per iPad, cosiddetta app. Io leggo egualmente bene il giornale di carta come la versione digitale. In certe situazioni è molto più comoda la versione digitale, per esempio puoi leggerla a letto senza farti venire i crampi alle braccia e senza svegliare chi dorme con te. Costa anche meno, in certi casi la metà, più o meno. Se hai sentito la rassegna stampa del mattino e vuoi leggere tre o quattro articoli su quotidiani diversi, invece di andare all’edicola e tornartene con un pacco di carta mostruoso – anche i quotidiani sono logorroici oggi – schiaffi tutto sull’iPad e poi fai svanire tutto come e quando vuoi.
  • Per mesi ho usato solo l’iPad per scrivere testi. Sembra strano ma con un leggerissima tastiera Bluetooth l’iPad diventa un formidabile attrezzo per scrivere. Usavo – in questo periodo vivo abbarbicato al laptop con Linux – una web applicazione libera, My Writing Spot, che offre un sistema di scrittura minimale, accessibile da qualsiasi browser o con app per iPad, iPhone e Android. Quindi via via che scrivi su iPad, di tanto in tanto spari in un’email al tuo indirizzo il testo, del quale nel computer puoi fare quello che vuoi. L’autore di questo sistema è uno scrittore che si è costruito l’applicazione che aveva sempre desiderato, e già che c’era l’ha resa disponibile a tutti: bravo. La descrive così:

    My Writing Spot gira nella Google’s App Engine infrastructure, e questo vi garantisce che il sistema sia sicuro e protetto. I vostri dati non vanno a giro e sono giusto vostri – nessuno vi può accedere. E per mettervi ancora di più l’animo in pace, potete fare backup dei vostri documenti scaricandoli sul vostro disco rigido, o spedendone una copia al vostro indirizzo email.

  • L’iPad mi serve poi come sistema di riserva per accedere a internet, quando mi assento per periodi di una certa lunghezza. Normalmente lavoro con il laptop con Linux, tuttavia, se dovesse succedere qualcosa al computer, avendo l’iPad dietro, ho buone probabilità di cavarmela. Non male come ruota di scorta. Oppure, se non voglio stare ad accendere il computer per dare un’occhiata alla posta elettronica, allora uso l’iPad.
  • Lo utilizzo come dizionario, per le lingue che balbetto. Ottimo, ma con le riserve che dico dopo.
  • Ogni tanto ci provo le app che mi incuriosiscono, se sono gratis – non free alla Stallman, giusto gratis … – ma quasi sempre per breve tempo, per via delle solite riserve che dico dopo.
  • Ma insomma, e gli ebook, a parte i documenti di cui si diceva sopra? Niente, sugli splendidi scaffali di legno dell’app iBooks nel mio iPad c’è solo Winnie-the-Pooh, che l’Apple ti fa trovare quando compri l’iPad. Sì lo so che ci sono tanti ebook scaricabili liberamente, ma non so perché, quello che cerco io non c’è mai…

Passiamo allora alle ombre.

Le app offrono tipicamente tutta una serie di funzionalità aggiuntive, corredate di solito da grafiche molto attraenti. Le app di lettura dei quotidiani per esempio offrono la possibilità di memorizzare gli articoli preferiti, magari assegnando loro dei tag, come si fa per esempio in sistemi di bookmarking e tagging come Delicious. Sono caratteristiche attraenti e anche utili.

Ma sono un pacco, perché non è roba che puoi controllare completamente. È roba che hai comprato ma, se ci lavori per davvero, ciò che produci ti può sparire da un giorno all’altro, per esempio a causa di un semplice cambio di revisione. A me è successo con l’app Oxford Dictionary of English. Comodissima e come al solito, molto cool. Puoi taggare, puoi condividere, inviare per email, twittare, FB-are eccetera. Ma un bel giorno, non ricordo più se per un aggiornamento dell’app medesima o dell’intero sistema IOS, mi sono perso tuti i bookmark e tutti i tag, che io avevo iniziato a prendere sul serio. E questo mi è successo con varie altre app che ho sperimentato.

Non mi scandalizza certo l’episiodio in sé, seppur irritante, perché gli incidenti sono all’ordine del giorno quando si lavora con informazione digitalizzata, intrinsecamente volatile. Quello che è insostenibile è piuttosto il fatto che con le app non puoi mettere in atto una qualche strategia di prevenzione, tipo un backup su qualche altro supporto. Ogni app appare isolata dalle altre e gli eventuali dati che hai prodotto rimangono chiusi nell’app, come se tutto fosse in un’unica scatola. E se per esempio vuoi cancellare per qualche motivo l’app, attento: con essa se ne vanno anche i dati!

La gestione dei dati infatti è strettamente associata alle app, e i dati possono viaggiare da una app all’altra solo se queste lo prevedono. Per esempio, se con l’app di mail, ricevo un documento PDF allegato ad un’email, allora compaiono i comandi per indirizzare l’allegato solo a certe altre app abilitate a gestire i PDF, se ce ne sono. Altrimenti, il documento si può vedere solo con il visualizzatore interno dell’app di mail … che magari non funziona proprio con tutti i PDF possibili, e se non funziona, pace all’anima tua. In altre parole, siamo all’estremo opposto di quel mondo del quale abbiamo cercato di grattare la superficie in questo (per)corso, dove i dati sono roba nostra che ci possiamo scambiare con standard universali (XML), dove possiamo intervenire nella rappresentazione delle pagine, a vari livelli, con HTML, eccetera. Esattamente all’altro estremo.

Non solo, voi penserete – Ho comprato questo software che ora è mio e lo uso come mi pare! – E invece no, con queste nuove tecniche di distribuzione del software, voi più che acquistare un programma, avete fatto una specie di contratto con il venditore, perché lui può ficcare il naso nella vostra macchina e nei vostri dati. Se lo ritenesse importante, potrebbe soffiarvi i dati, per esempio un ebook comprato in modo apparentemente scorretto, oppure un’intera app, per esempio per motivi di strategia industriale, oppure politici.

Questi apparecchi sono veramente fantastici e hanno potenzialità affascinanti, ma sono commercializzati con strategie finalizzate al profitto di singoli attori privati che rischiano di ledere gravemente la libertà degli individui.

Chiudo ritornando un’attimo sul tema dell’ebook a scuola, rifacendomi al commento di Claude: come fai ad adottare un ebook digitale se i tuoi studenti hanno tutti lettori diversi? Ma peggio mi sento quanto si parla di usare tablet in tutte le scuole. Quali tablet? Mandiamo tutta la scuola italiana nelle fauci di un singolo venditore? O segmentiamo le scuole del Paese in scuole Android, Apple e Amazon? O costruiamo alternative 2.0 fai-da-te che consistono nel dare a tutti gli studenti un laptop con dentro dei PDF? Magari i PDF sono fatti anche bene, ma tutto il 2.0 lo comprimiamo in una manciata di file PDF in un computer? Ho capito bene? Spero di no.


Considerazioni pratiche sulle riunioni online


Non è affatto un male che le riunioni online siano sofferte. Le difficoltà temprano e sono molto più utili gli incontri gestiti dagli studenti, anche se costellati d’ogni sorta d’incidenti, piuttosto che una fila di monologhi tecnicamente fluidi del sottoscritto. Dalle nostre parti i professori parlano sempre troppo e gli studenti fanno sempre troppo poco. Mi sembra invece che queste riunioni “autogestite” rivelino un grande valore, perché favoriscono la condivisione di preziose esperienze personali e regalano spunti interessanti e imprevisti. È davvero un bel contributo quello che state dando, al di là delle dinamiche ristrette di un corsetto universitario. Allo stesso tempo è utile riflettere sulle difficoltà incontrate, per trasformare i problemi in occasioni di crescita. Proviamo dunque a discutere alcuni punti emersi fino ad ora, andando al sodo e senza tanti giri di parole. Che nessuno si adombri, provare serve a migliorare, soprattutto se poi si riflette criticamente sull’avvenuto.

Sia ieri che nella prima riunione è successo che, ad un certo punto, improvvisamente tutti si siano trovati sbalzati fuori del’aula che si è chiusa loro in faccia; sarebbe buffo vedere un’instantanea dei volti basiti! È un inconveniente spiacevole, soprattutto perché causa non poca ansia nel poveretto che, avendo già durato una discreta pena a mettere tutto insieme, si vede sparire ogni cosa sotto il naso, la classe con tutti i ninnoli faticosamente fabbricati insieme a tutti gli uditori, in un colpo solo! Come quando al protagonista de Lo Zen e l’arte della manutenzione della Motocicletta si spezza la vite, che rimane incastrata nella sede senza testa: uno shock, una specie di vuoto della coscienza! Vediamo dunque di organizzarsi per ridurre le probabilità che l’inconveniente si verifichi nuovamente.

Le cause, fino ad ora sono state due.

  1. Mancata estensione della durata della classe

    Posizione dell'icona per la determinazione della durata di una classe WiZiQ
    Posizione dell'icona per la determinazione della durata di una classe, in basso a destra dello spazio schermo di WiZiQ

    Non solo potete determinare a priori la durata della classe all’atto della sua creazione, ma la potete anche alterare mentre questa è in corso. In questa figura, è raffigurato l’angolo in basso a destra della finestra WiZiQ. L’icona indicata dalla freccia è il tasto di attivazione della finestra che consente di alterare la durata della classe.

    Finestra per la determinazione della durata di una classe WiZiQ
    Finestra per la determinazione della durata di una classe. Con il menu a sinistra si determina la durata della classe e con quello di destra l'anticipo dell'avvertimento di fine sessione.

    Nella figura successiva vedete la finestra dove potete cambiare la durata della sessione (Extend session:), da 5 a 240 minuti, ma anche con quale anticipo volete che il sistema vi avverta (Alert:), da 5 a 30 minuti. Quindi, appena vi rendete conto di avere la probabilità di sforare, provvedete subito a risolvere il problema.

  2. Chiusura erronea della classe

    Può succedere di dover uscire dalla classe per rientrarvi, anche in veste di amministratore della medesima. Questo può succedere se il sistema si impalla oppure pasticciando con gli account come stiamo facendo noi. Se questa cosa accade all’amministratore, quest’ultimo deve stare attento a non chiudere la classe anziché il browser. Chiariamo subito la faccenda dal punto di vista operativo con le figure.

    Posizione dell'icona di chiusura del browser
    Posizione dell'icona di chiusura del browser, operazione che lascia inalterata la classe nel cyberspazio

    Qui si vede l’angolo in alto a sinistra della finestra del browser, non di WiZiQ, che sta al suo interno; non dimenticate che WiZiQ vi viene offerto attraverso un browser, che nel caso in figura, come vedete, si tratta di Mozilla Firefox. È l’icona indicata dalla freccia che dovete cliccare per chiudere il browser! Così facendo, chiudete la finestra del browser ma l’istanza della classe rimane viva e vegeta sospesa nel cyberspazio e raggiungibile con il suo URL. La chiusura del browser è un fatto che avviene localmente. Quando riaprite il browser e digitate nuovamente l’indirizzo URL, ritroverete la classe al suo posto con tutte le cose che ci avevate lasciato dentro, compresi i vostri uditori che si staranno domandando dove siate finiti, a meno che, previdentemente, non li abbiate avvertiti prima.

    Voce di menu per la chiusura della classe, in alto a sinistra dello spazio schermo di WiZiQ
    Voce di menu per la chiusura della classe, in alto a sinistra dello spazio schermo di WiZiQ

    Se invece cliccate la voce di menu File in alto sinistra e, nel relativo menu a tendina, End Class, allora chiudete proprio la classe lassù nel cyberspazio, e conseguentemente il sistema WiZiQ procederà all’housekeeping della chiusura, fra cui l’eventuale registrazione della classe.

    Icona di chiusura della classe, in alto a destra dello spazio schermo di WiZiQ
    Icona di chiusura della classe, in alto a destra dello spazio schermo di WiZiQ

    Analogamente potete fare cliccando sull’icona di chiusura rossa in alto a destra. Attenzione, questa icona, è simile a quella del browser: quest’ultima si trova nella cornice esterna, che è del browser, mentre quella della classe WiZiQ fa parte dell’armamentario grafico della classe WiZiQ, che sta dentro. spesso suggerisco agli over-qualcosa di imparare a cliccare un po’ selvaggiamente, ok, ma questo non singifica a caso! Ovvero, quando guardate tutte queste finestre, abituatevi ad appioppare loro dei significati, tipo: qual è l’area dello schermo all’interno dei quali i comandi concernono WiZiQ? E cosa vuol dire agire su WiZiQ? Quali sono invece le aree che concernono il browser?

    Finestra di chiusura di una classe WiZiQ
    Finestra di chiusura di una classe WiZiQ: rispondendo Yes la classe sparisce per sempre ...

    Quando poi, cliccate su uno dei due comandi succitati di chiusura della classe, si apre una finestra, nella quale WiZiQ cautelativamente vi chiede se siete proprio sicuri, e lo chiede proprio perché è notorio che questi sono errori comuni. Anche qui, se il sistema si prende la briga di chiedervi – Do you want to end the class? – soffermatevi a riflettere su cosa possa voler dire questo.

Avendo accennato alla durata delle sessioni, ne approfitto per una considerazione più generale. La tendenza a eccedere nelle presentazioni è assolutamente generalizzata. La si ritrova massimamente fra gli accademici, solitamente convinti che chiunque sia disposto a massacrarsi per attingere a cotanta messe di sapere, così generosamente elargita. Vedi mai capitasse da queste parti un amico accademico, mi faccio accompagnare da un personaggio di ben maggior statura del sottoscritto, lo storico Paolo Rossi, e invito tutti a dare una letta ai suoi Consigli a un giovane conferenziere (chi non potesse raggiungere il testo con questo link, mi scriva un’email e io provvederò a inviargli il testo). Ma la tendenza all’eccesso la si ritrova un po’ ovunque, anche nelle piuttosto penose sedute di tesi di laurea, che finiscono non poco spesso in un frettoloso appiccicaticcio di cose dette male perché dette in ristrettezza di tempo: programmate sempre una durata inferiore a quella aspettata, il vostro messaggio ne guadagnerà molto. La lunghezza non giova mai, a meno che, come scrive Paolo Rossi nel primo punto del suo decalogo, non stiate parlando in un evento politico o sindacale. Questo vale anche per le nostre sessioni, e tutte le altre possibili immaginabili. Capisco perfettamente l’entusiasmo per mostrare i propri risultati, e me ne rallegro molto, ma se eccedete in quantità diluirete il vostro messaggio anziché rinforzarlo. La gente si stanca. Sempre con Rossi:

È un dato sperimentale e scientificamente acquisito che dopo quaranta minuti di ascolto la capacità di attenzione di un qualunque uditore scende paurosamente.

Prudenzialmente, io ridurrei a trenta minuti il tempo utile, tralasciando i casi pietosi come quello del sottoscritto, che già con difficoltà si inerpica sino ai 20 minuti di attenzione reale. Non abbiate mai paura di dire troppo poco, concentratevi piuttosto sul dire bene quel che ci sta in quel tempo di attenzione fisiologico. E se non lo riempite tutto, ancora meglio. Se così facendo, avete la sensazione che vi siano rimaste delle carte inespresse in tasca, probabilmente ve le potrete giocare con maggior profitto nella discussione susseguente, quando l’uditorio non sarà ancora stanco e anzi, sarà rimasto con delle curiosità da soddisfare.

Vorrei poi fare un commento sul broadcasting del video, andando subito al punto: eliminatelo, oppure usatelo in una prima fase di presentazione o in certe fasi intermedie, ma sempre con parsimonia.

In primo luogo, la trasmissione video, per quanto questi sistemi si sforzino di ottimizzarla ben conoscendone l’onere, è estremamente vorace di banda, ovvero di bit trasmessi al secondo. Quel francobollino animato costa molto, e usato a gogò, dà poco.

Tenete presente anche che viviamo in Italia, e che nella classifica di banda disponibile in MBPS (Mega Bit Per Second) pro capite siamo al trentesimo posto, laddove l’Italia si trova all’ottavo posto nel ranking del PIL, secondo i dati della World Bank. Un bell’esempio di miopia da parte di coloro che sono chiamati a disegnare il futuro del Paese! Per dare un’idea della diversa impostazione strategica in altri paesi, la vicina Svizzera si trova al 19-esimo posto nella classifica del PIL ma al settimo in quella della banda disponibile per cittadino. Fortunatamente, l’attuale governo ha messo in agenda nell’ambito del Decreto Sviluppo la questione della distribuzione di banda larga a tutti gli italiani, riconoscendone il valore strategico. Bene, ma siamo in grave ritardo.

In altre parole, noi non viaggiamo sulle autostrade telematiche (banda larga), ma su viottoli di campagna. Ora, se voi volete visitare un luogo ameno in montagna, ve lo portereste dietro, siccome vi piace tanto il pane tostato, il tostapane più la necessaria batteria e il necessario inverter per alimentarlo? Penso di no, perché la gita abortirebbe dopo pochi metri. Ecco, con il video nelle riunioni online è la stessa cosa. Si tratta di eventi nei quali la banda diviene un fattore critico e quindi va amministrata con oculatezza, eliminando tutto il soverchio. E di soverchio, in una faccina che si vede a malapena, che fissa un monitor per un paio d’ore, c’è parecchio. Tutt’altra storia se invece viene gestita in modo dinamico e mirato. Per esempio, farsi vedere all’inizio è molto simpatico, ma tenete presente, che il nostro cervello ha una capacità straordinaria di memorizzare il carattere di una fisionomia, bastano pochi secondi, quindi se tenete il video aperto per qualche minuto iniziale, è più che sufficiente.

Controlli audio e video in WiZiQ
Controlli audio e video in WiZiQ

Potete anche utilizzare i vostri primi piani in modo divertente. Ricordo per esempio quello sketch simpatico di C’eral’H e GranDiPepe, dove quest’ultima faceva la maglia, oppure le fumate di testa di Gaetano, ma l’effetto di queste trovate sarebbe stato molto più intenso se fossero state sparate fra capo e collo nel bel mezzo delle presentazioni. E la banda per così brevi tempi non ne avrebbe sofferto, anzi in quegli sprazzi il suo lavoro principale sarebbe stato proprio quello di convogliare le immagini video, sulle quali tutti avrebbero concentrato la loro attenzione.

In sintesi, riguardo a questi ultimi due punti, sulla durata delle sessioni e dei video online: attenti a non saturare l’input dell’uditorio.

In pratica, la figura mostra la finestra di controllo dei setting audio e video, attivabile in alto a destra dello spazio WiZiQ. all’inizio di ogni sessione, a meno che non vogliate mostrare inizialmente il vostro volto, chiudete subito il video: Stop broadcasting video (A). Lo potrete sempre riattivare all’occorrenza. Poi fate sempre un check del microfono: Device settings (B). Poi chiudete la finestra: Hide (C).


Lo Zen e l’arte della manutenzione della Motocicletta, Robert M. Pirsig, Adelphi, 1990

La questione del diritto d’autore


Dove, con molta fatica e un grande nervoso, cerco di mettere insieme un po’ di informazioni sulla questione del diritto d’autore. E dove sarei più che mai lieto di essere corretto e migliorato.


Sono nel mio studio, dopo cena, dove conduco una sessione online mediante il servizio web WiZiQ. Alle 21 si apre la sessione e sono già quasi tutti presenti in “aula”, mi accorgo di essere in ritardo e allora metto nel computer un CD facendo partire Mustang Sally (versione di Joe Cocker), così gli studenti mi vedono intento ad armeggiare al computer ma intanto sentono qualcosa … pare una buona idea ma mi viene un dubbio: e i diritti d’autore?

È chiaro che ascoltando un CD (comprato regolarmente) a casa non infrango alcuna legge. Tuttavia le note vengono distribuite attraverso il microfono del computer in una sessione pubblica alla quale partecipano persone in varie parti d’Italia, oltre a qualche straniero di passaggio che chiede “What’s going on here?”. Sono in regola con le leggi sui diritti di autore?

Le problematiche relative ai diritti d’autore già sono emerse, qua e là nel (per)corso. L’ultima che ricordo è la segnalazione fatta da Laura nel suo blog del libro Abolire la proprietà intellettuale. Il suggerimento di Laura viene come il cacio sui maccheroni, perché non sono mai riuscito a liberarmi dal dubbio che, seppur nato con un intendimento condivisibile, il concetto di diritto d’autore sia servito molto più a tutta una serie di intermediari che non agli autori veri e propri. Gli amici che di arte vivono, ma che non sono ai vertici delle classifiche, mi assicurano che il regime di protezione che dovrebbe derivare dall’esercizio dei diritti d’autore, ha procurato loro maggiori spese che non profitti. Come dire: la protrezione dei diritti d’autore funziona per gli artisti al top e tutto il grande indotto commerciale che gravita loro intorno, funziona invece molto meno, se non all’incontrario, per la prevalente massa degli artisti che non sono al top, ma la cui funzione creativa è sicuramente assai più rilevante dal punto di vista culturale e sociale. Giova, dicevo, al grande indotto commerciale ma anche ai carrozzoni burocratici che si sono arroccati in comode posizioni di privilegio nutrendosi materialmente della creatività altrui, e arrivando a perpretare delle pratiche abominevoli, come quella del blitz della Siae ad una festicciola informale dove sono stati multati dei bambini di Cernobyl che volevano ringraziare per l’ospitalità con delle canzoni popolari bielorusse emesse da un paio di casse collegate a un computer. Un episodio che fa andare il sangue alla testa. Il parassitismo praticato da tante organizzazioni che per un verso o per l’altro riescono a lucrare sulla creatività altrui, procurando un valore aggiunto nullo, se non negativo, alla società, si presenta in varie forme, quale per esempio, in un altro contesto, quella dell’editoria scientifica accademica, che avevo descritto nel post I signori della scarsità.

Laura fornisce due link che consentono di farsi un’idea del contenuto del libro: un post di Laterza e uno di post di LAVOCE. Gli autori distribuiscono liberamente la versione digitale dell’originale in inglese. Come in tanti altri casi, lo leggerò e poi ne acquisterò una copia.

È importante che noi tutti ci rendiamo più consapevoli delle questioni inerenti ai diritti d’autore, e non solo nella veste di consumatori, ma soprattutto di autori, quali tutti oggi siamo, grazie al supporto delle tecnologie di rete. E non è facile, perché la materia è intricata e si è evoluta in maniera complessa nel tempo e non uniformemente nei vari paesi. Basti pensare che le espressioni, sovente considerate una la traduzione dell’altra, copyright e diritto d’autore, sono di fatto piuttosto diverse, restringendosi la prima ai diritti di riprodurre un’opera, ed estendosi l’altra anche al concetto di diritti morali degli autori.

Nei riferimenti che vi darò potrete anche approfondire questo, se volete, ma prima delineiamo la materia con il minor numero possibile di parole, al fine di fissare un paio di concetti che spesso vengono fraintesi.

In tutte le legislazioni attuali, il diritto d’autore è assegnato automaticamente a chiunque crei un opera che sia fissata su di un supporto stabile. In altre parole, i diritti in questione nascono insieme all’opera stessa, senza il bisogno che l’autore faccia o dichiari alcunché a chicchessia. Per esempio senza che apponga diciture del tipo ©PincoPallino. Con l’avvento massificato delle tecnologie di rete, che azzerano o quasi i tempi e i costi delle comunicazioni, una simile concezione “assoluta” dei diritti d’autore, rischia di risolversi in un grave impedimento alla creatività e alla innovazione, perché viene meno un delicato e importante equilibrio fra l’esercizio dei diritti sulle proprie opere e la libertà di fruizione delle opere altrui, necessarie a creare le proprie. Ecco che così sono comparsi strumenti come le licenze Creative Commons (o altre similari) mediante le quali, qualsiasi autore, ognuno di voi, può decidere esattamente a quali diritti rinunciare per facilitare la fruizione della propria opera da parte della comunità. È importante rendersi conto che le licenze del tipo Creative Commons non asseriscono quali siano i diritti di proprietà, perché questo lo fanno le leggi vigenti in materia, ma forniscono uno strumento agli autori per modulare i propri diritti, a seconda dei propri ideali e delle proprie esigenze.

Versione originale in inglese
Traduzione in italiano

Questi sono i fatti essenziali. Quasi certamente molti di voi sentiranno la necessità di approfondire. Vi propongo due principali riferimenti. Il primo è Bound by Law, un fumetto creato da Keith Aoki, cartoonist e professore della Oregon School of Law, James Boyle, giornalista del Financial Times online e professore alla Duke Law School, Jennifer Jenkins, documentarista e direttrice del Duke’s Center for the Study of the Public Domain.

Ho conosciuto questo fumetto come testo da studiare per un corso online che ho frequentato come studente nell’autunno 2007: Introduction to Open Education, tenuto dal prof. David Wiley (ora alla Brigham Young University) presso la Utah State University. È un’opera interessante sia per il contenuto, volto a far capire concetti poco commestibili – per me lo sono pochissimo – ad un pubblico non preparato in materie giuridiche, ma anche per il metodo, con il quale dei professori universitari affidano il loro messaggio ad un fumetto. Un’avvertenza è tuttavia doverosa, prima che affrontiate questa lettura: non fate molto caso ai dettagli, come potrebbero essere le date di entrata in vigore delle leggi, perché queste si riferiscono al contesto statunitense, ma focalizzatevi sui concetti generali, che sono esposti molto efficacemente nel fumetto.

More about Capire il copyrightSe la lettura di Bound by Law può essere un ottimo modo per introdursi all’argomento, per un maggiore approfondimento, nonché per un riferimento specifico al contesto italiano, è ottimo Capire il Copyright di Simone Aliprandi.

Ambedue i testi sono scaricabili da Internet in formato pdf e ambedue possono essere acquistati in formato originale per cifre modeste. A suo tempo, io li ho letti nella versione digitale free e poi li ho acquistati, per prestarli in qua e là a amici poco avvezzi o poco formati alle frequentazioni del cyberspazio. Qui di seguito scrivo due righe per coloro che sul momento non hanno il tempo di andarsi a leggere i suddetti riferimenti.

La storia del diritto d’autore è relativamente recente. Un tempo, artisti, autori e scienziati vivevano in buona parte grazie al fenomeno del mecenatismo. Negli ultimi due secoli, in modo progressivo e di concerto con lo sviluppo dell’economia moderna, sono comparsi strumenti giuridici in grado di assicurare a queste figure i proventi necessari per vivere. Il diritto d’autore quindi, sebbene oggi da molti visto come un impedimento per il libero fiorire della creatività, è stato concepito come una tutela del potenziale creativo della comunità.

Oggi il diritto d’autore è “automatico”: Chiunque crei un’opera originale di qualsiasi tipo acquisisce automaticamente i diritti d’autore. Questo sembra essere un meccanismo lodevole ma l’applicazione estrema e sistematica del meccanismo di protezione crea un grosso problema. Infatti, in varie forme di espressione artistica, è inevitabile utilizzare parti di opere preesistenti. Del resto questo è un tratto essenziale della creatività umana: nessuno crea dal niente o, come scrive Nelson Goodman, il fare è un rifare.

Il concetto è illustrato molto bene nel fumetto Bound by Law, dove la protagonista Akiko vorrebbe realizzare un documentario sulla vita di New York ma presto si rende conto che è praticamente impossibile evitare di includere immagini e brani sottoposti a diritti di autore, pena lo svuotamento di significato della stessa opera che vorrebbe realizzare.

La questione critica oggi è trovare il compromesso ottimale fra la tutela dei diritti sulle opere ed il libero accesso alle medesime. In altre parole, ogni autore da un lato ha bisogno che i diritti sulle proprie opere siano salvaguardati ma dall’altro ha anche bisogno di accedere alle opere altrui liberamente oppure a fronte di costi sopportabili.

In realtà, proprio a causa di questo problema, le legislazioni dei vari paesi prevedono degli strumenti che sono concepiti proprio con il fine di aggiustare un compromesso del genere. Nella legislazione statunitense, il Copyright Act prevede lo strumento del Fair use che esime gli utilizzatori dall’assolvimento degli obblighi previsti dai diritti d’autore, per scopi di discussione, critica, giornalismo, ricerca, insegnamento o studio. Il regime di Fair use dipende dalla valutazione congiunta di quattro elementi: oggetto e natura dell’uso, natura dell’opera protetta, quantità e rilevanza della parte utilizzata, conseguenze dell’uso sul mercato potenziale o sul valore dell’opera protetta. La storia raccontata in Bound by Law riporta un certo numero di esempi famosi di Fair use negli Stati Uniti.

In Italia la materia in questione è regolata dalla legge n. 633 del 22 aprile 1941 sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio. In particolare è nell’articolo 1, comma1, che si determinano le eccezioni agli obblighi derivanti dai diritti d’autore:

1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.

Questo comma, presente già nella stesura del 1941, nella pratica è stato interpretato sempre in modo molto restrittivo. Nel 2007, a fronte di un’interrogazione del senatore Bulgarelli sull’opportunità di dotarsi di uno strumento analogo al Fair Use statunitense, il governo ha risposto sostenendo che l’articolo 70 della legge n. 633

riproduce nella sostanza la disciplina statunitense sul fair use. Infatti, i quattro elementi che caratterizzano tale disciplina, come rinvenienti nella Section 107 del Copyright Act, e cioè: – finalità e caratteristiche dell’uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro); – natura dell’opera tutelata; – ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all’intera opera tutelata; – effetto anche potenzialmente concorrenziale dell’utilizzazione ricorrono a ben vedere anche nell’articolo 70 della legge sul diritto d’autore.
Pertanto, a giudizio di questa amministrazione l’ordinamento civile italiano in materia del diritto d’autore risulta oggi conforme, negli assetti fondamentali, non solo a quello degli altri paesi dell’Europa continentale ma anche a quello dei Paesi dell’area del copyright anglosassone.

Successivamente il Parlamento ha approvato una modifica dell’articolo 70 della suddetta legge per tenere conto dell’impiego di Internet nelle pratiche didattiche e scientifiche. La modifica è stata apportata con la legge n. 2 del 9 gennaio 200 che, nell’articolo 2, recita

(Usi liberi didattici e scientifici)

1. Dopo il comma 1 dell’articolo 70 della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, è inserito il seguente:

«1-bis. È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all’uso didattico o scientifico di cui al presente comma».

Ora, malgrado il fatto che questo nuovo comma 1-bis, nel secondo capoverso, stabilisca chi debba definire i “limiti all’uso didattico e scientifico di cui al presente comma”, in realtà non è stato fatto più nulla, generando così una grande confusione su cosa si debba intendere per “immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate”. Per esempio: quand’è che un’immagine inizia ad essere sufficientemente degradata per rientrare nell’applicazione di questo comma?

In altre parole, abbiamo la legge che stabilisce il concetto ma manca il regolamento attuativo che consenta di calare il medesimo nella realtà. Ho provato a vedere se nel frattempo la situazione si fosse evoluta ma non mi pare che sia successo un granché. Ricapitolo.

Nel mese di gennaio 2008 il giurista Guido Scorza lancia l’iniziativa per una bozza di Decreto Ministeriale per definire le disposizioni del comma 1 bis dell’art. 70. In marzo si aggrega e collabora il giornalista Luca Spinelli. Potete leggere la bozza in questo documento (pdf). In tale bozza, oltre a chiarire cosa si possa intendere per immagini e musiche, nell’articolo 3 si precisano i concetti di bassa risoluzione e di degrado:

Art. 3. Formati di pubblicazione.
g

  1. Ai fini del comma 1 bis dell’art. 70 della legge 21 aprile 1941, si intende per immagine in bassa risoluzione:
    1. Per le opere delle arti figurative di cui al comma 1, art. 1 del presente Decreto: qualsiasi riproduzione non eccedente i 72 punti per pollice (dpi).
    2. Per le opere della cinematografia di cui al comma 1, art. 1 del presente Decreto: qualsiasi riproduzione non eccedente i 384 kbit/s.
  2. Ai fini del comma 1 bis dell’art. 70 della legge 21 aprile 1941, si intende per immagine degradata ogni opera di cui al comma 1, art. 1 del presente Decreto che, rispetto all’originale, presenti elementi di alterazione significativi, ivi compresa l’apposizione di marchi o scritte, ovvero effetti di alterazione della qualità visiva percepibile o dei colori e di distorsione.
  3. Ai fini del comma 1 bis dell’art. 70 della legge 21 aprile 1941, si intende per musica in bassa risoluzione o degradata qualsiasi riproduzione non eccedente i 96 kbit/s.
  4. Il Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, aggiorna annualmente tramite decreto ministeriale i criteri e parametri di cui al presente articolo, tenendo in considerazione lo sviluppo tecnologico.

Il fatto più rilevante da registrare, successivamente, è costituito dalla presentazione di uno schema di un regolamento (pdf) approvato il 6 luglio 2011 dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AgCom), presieduta da Corrado Calabrò, in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronicaQui (pdf) trovate il testo della consultazione pubblica su tale regolamento, dell’8 luglio 2011. Stiamo quindi ancora discutendo su di uno schema, quindi non un documento preciso e esaustivo della materia, che è ciò che occorrerebbe, né più né meno. In sostanza un modo per protrarre la fumosità della questione, o peggio per fumosamente portare avanti posizioni restrittive, come ha scritto Guido Scorza sul sito dell’espresso l’8 luglio 2011. Dopodiché, per quanto io sappia, non è accaduto più niente, a parte il fatto che ogni tanto qualcuno ci riprova, come nel caso dell’emendamento Fava, presentato e bocciato recentemente.

Per chiosare la situazione di confusione nella quale ci troviamo, riporto qui di seguito alcune osservazioni che Claude mi ha gentilmente inviato, a seguito delle mia richiesta di revisionare la prima bozza di questo post, considerato che mi sembra più preparata di me e che io faccio fatica a scriverne perché è una materia che mi fa venire il nervoso. Allora, scrive Claude:

Scopo di lucro: purtroppo sembra prevalere nei paesi europei distinzione pubblico/privato: vedi Blitz della Siae alla festa multati i bimbi di Cernobyl e l’intervista di Roger Lévy a Poto Wegener della Suisa.

Ora è vero come dici tu che in Italia c’è la modifica 1-bis che parla di immagini e musiche a bassa risoluzione per uso scientifico e didattico ma come aggiungi, quell’uso non è gratuito.

E ancora su “senza scopo di lucro”, non basta che il TUO uso non abbia scopo di lucro: se ci lucra YouTube tramite pubblicità a lato ad es, è un problema.

Infine che un uso sia autorizzato dalla legge non significa che sia autorizzato gratuitamente. Ad es la legge stipula anche disposizioni sui diritti da pagare alle società di riscossione dei diritti come la SIAE.

Conclusione?

E cosa possiamo concludere allora? In particolare, che deve fare un educatore, che sia maestro, professore, professore d’università o altro, e che voglia utilizzare testi, immagini, musiche o video riprodotti a fini didattici?

Per avere un criterio mi rifaccio all’interessante descrizione delle fonti del diritto proposta da Simone Aliprandi in Capire il copyright ad uso dei non addetti, quali molti dei lettori ed io siamo. Orbene, le fonti del diritto sono quattro:

  1. la legge, composta da testi normativi emanati da apposite istituzioni politiche, quali lo Stato o le Regioni;
  2. la giurisprudenza, determinata dalle pronunce dei giudici su questioni specifiche;
  3. la dottrina, formata dalle opinioni autorevoli più o meno condivise degli studiosi del diritto;
  4. gli usi e le consuetudini che sono generalmente riconosciute nella realtà sociale.

Aliprandi spiega che i problemi di rilevanza giuridica vengono risolti attingendo alle quattro fonti secondo questa gerarchia.

Per quanto tale quadro possa apparire articolato e flessibile non è facile trovare riferimenti in un contesto che vive una così rapida espansione; come spesso si verifica, la complessità della realtà mette a dura prova i nostri costrutti.

In una situazione del genere e nel contesto che qui ci interessa, io credo che si debba considerare un altro elemento: la coscienza. Vi sono attività, come per esempio quella del medico e quella dell’insegnante, che hanno l’uomo come soggetto, la sua salute in un caso, la sua formazione nell’altro.

Ricordo che, in una situazione estremamente difficile e dolorosa, un medico che ricordo con affetto mi confortò dicendomi: “Non si preoccupi, ci sono i protocolli ma prima c’è l’uomo”.

Ecco, la professione dell’insegnante non presenterà le criticità che può incontrare un medico ma la posta in gioco è altrettanto importante. Credo che un insegnante, qualsiasi insegnante, possa tranquillamente determinare cosa sia giusto fare in quelle circostanze dove la normativa non è ancora esplicita; ovvero, credo che per un insegnante non sia così difficile determinare ragionevolmente e secondo coscienza che

  1. la riproduzione di un’opera di cui intende servirsi abbia finalità non commerciali, educative e non abbia fini di lucro
  2. la natura dell’opera riprodotta sia appropriata per la propria azione didattica
  3. l’ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all’intera opera tutelata sia adeguata e non ridondante
  4. con la riproduzione non si causino effetti anche potenzialmente concorrenziali dell’utilizzazione.

Non possiamo immaginare che se un simile atteggiamento costituisse pratica corrente per la maggioranza degli insegnanti e pratica condivisa e supportata dai vari organi di dirigenza scolastica e universitaria, allora si finirebbe per contribuire a formare, nell’ambito della vita scolastica, quegli usi e consuetudini della realtà sociale che costituiscono una delle fonti del diritto?

Io credo di sì e, in modo più generale, penso che le regole che le comunità si danno derivino da un’articolata dialettica fra la loro espressione formale e la realtà complessa e sempre mutevole alla quale esse devono alfine attagliarsi. Il legislatore non potrà non tenere conto di usi e consuetudini palesemente volti a fini formativi, che in concreto non intaccano gli interessi dei detentori dei diritti sulle opere utilizzate ma anzi, forse rappresentano anche una promozione delle opere medesime.