Ma questo è il grid, la griglia! – sbottò l’anziano professore, matematico napoletano, in una riunione di circa quindici anni fa dove si doveva decidere l’impostazione di un progetto di ricerca per gli anni successivi. Il grid, o più precisamente il computing grid (griglia computazionale) era il nome di quella cosa che, sulle ali dell’immaginazione, stavo tratteggiano sulla scorta di alcuni risultati che avevamo ottenuto recentemente insieme. Successivamente, nella veste di utente di internet, mi sono accorto anche dell’esistenza del cloud computing e che questo è parente del grid computing, anzi, ci è cresciuto intorno. Semplificando le cose, con il grid computing si rendono disponibili rilevanti risorse di calcolo e memorizzazione in particolari circostanze e a richiesta. Con il cloud tali risorse vengono rese disponibili in modo ubiquitario e pervasivo.
Avevo già menzionato il cloud in Una particolare introduzione alla nuvola con l’intento di dare un pur minima e superficiale idea di come la proliferazione dei codici stia alla base del mutamento del web, mutamento che ha poi condotto a fenomeni del tipo web 2.0 e cloud. Andiamo ora all’altro estremo.
Fra le notizie recenti del nostro quotidiano, troviamo che l’agenda digitale rientra fra le priorità del Governo Italiano – almeno a parole, fino ad ora nemmeno quelle – e che tale agenda pare sia composta da quattro capitoli:
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Open data
Consiste nel processo che consente di rendere disponibili al pubblico in internet l’immensa mole di dati detenute dalle pubbliche amministrazioni, quando tali dati non creino specifici problemi di privacy a singoli individui. La tendenza è quella di arricchire questi repositori pubblici con delle sofisticate tecniche di rappresentazione grafica dinamica, mediante la cui manipolazione l’utente può estrarre dai database set di dati diversi. Ecco un esempio relativo ai pignoramenti di beni ipotecati nella città di Lowell, nel Massachusetts. Si tratta di una demo del progetto open source Weave descritto in un post che ho scoperto ieri grazie a questo twit:
In questa lista di bookmark ho riunito con il tag “opendata” alcuni siti web particolarmente interessanti. Annessa a ciascun bookmark trovate una mia brevissima descrizione. - Banda larga Ovvero, oggi lo sviluppo economico ha bisogno di banda, e l’Italia è in ritardo. Come ho scritto in un altro post, nella classifica di banda disponibile in MBPS (Mega Bit Per Second) pro capite siamo al trentesimo posto, laddove l’Italia si trova all’ottavo posto nel ranking del PIL, secondo i dati della World Bank. A mo’ di riferimento, la Svizzera si trova al 19-esimo posto nella classifica del PIL ma al settimo in quella della banda disponibile per cittadino.
- Cloud computing, di cui stiamo giusto parlando.
- Smart communities Comunità di cittadini che si aggregano sulla base di problematiche di interesse comune. Per esempio uno spazio internet nel quale le persone segnalano disagi o danni al territorio utilizzando una mappa tratta da open data resi disponibili dalle amministrazioni. Oppure comunità che discutono aspetti di assetto del territorio in cui vivono, dalle quali gli amministratori possono trarre indicazioni utili relativamente alle orientazioni predominanti degli abitanti. Può essere interessante questo articolo per avere alcune notizie su quello che sta accadendo in Italia. Molto interessante l’offerta dell’ISTAT, già attiva in I.Stat; vale la pena di scaricare Guida utente (pdf), per capire quello che si può fare.
Buone notizie, almeno sul piano del lessico, che fino ad ora non ci saremmo nemmeno sognati di leggere. Naturalmente, dovranno seguire i fatti, e questo potrebbe essere un altro discorso. E perché i governi dei paesi industrializzati vedono il cloud computing fra gli elementi strategici dei loro programmi? Semplicemente perché la nuvola è già ampiamente arrivata nel mondo del business, in modo massiccio e a livello internazionale. E il mondo del business esercita la sua influenza, eufemisticamente parlando, sulle amministrazioni. Si veda per esempio il documento Promoting Cross‐Border Data Flows – Priorities for the Business Community (pdf) che è stato firmato da diversi giganti dell’Information Technology, uniti nel chiedere ai governi regole che garantiscano il libero scambio delle informazioni attraverso le frontiere. Detta così sembra una cosa davvero bella, e lo è anche, ma non solo, perché poi le corporation fanno di tutto per colonizzare i territori del cyberspazio. In realtà è tutta una guerra di natura commerciale, perché a questi protagonisti del cloud planetario, si contrappongo quelli che operano sui cloud nazionali, che invece hanno interesse a spuntare trattamenti normativi specifici per i propri rispettivi paesi. Tutto questo significa che il cloud è ormai una realtà concreta per le aziende, che stanno intravedendo ingenti vantaggi economici nella migrazione dei loro servizi verso le nuvole. Si stima che (Centre for Economics and Business Research via Sole 24 Ore) l’adozione del cloud potrebbe comportare un beneficio di 150 miliardi di euro nel periodo fra il 2010 e il 2015, qualcosa che corrisponde a circa l’1.8% el Pil. Gli operatori che provano a valutare trasformazioni del genere si rendono conto dei vantaggi cospicui. In Italia il 31% delle aziende impiegano qualche forma di cloud ed è un dato destinato a crescere. Crescerebbe ancora più rapidamente di quanto non faccia, se tutte le imprese ne fossero informate, specialmente le più piccole, ma anche se alcuni legittimi timori potessere essere mitigati, in merito alla sicurezza dei dati, alle questioni di privacy e agli aspetti legali connessi. Questi ultimi sono particolrmente preoccupanti a fronte di un ritardo cronico nell’adeguamento delle normative, peraltro in contesti che sono diversi nei vari paesi.
L’offerta di soluzioni cloud sta crescendo e si sta complessificando in maniera vertiginosa, attraverso la sedimentazione velocissima di successivi strati di codice. Un’organizzazione che voglia affidare al cloud la gestione dei propri dati, oggi può accedere a varie soluzioni possibili, notevolmente diverse fra loro. Le soluzioni in primo luogo si possono distinguere in cloud pubblico e privato.
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Cloud privato
In pratica si tratta di spostare i servizi informativi gestiti dall’organizzazione ad un provider che fornisce una soluzione dedicata, una sorta di nuvola privata, assimilabile tuttavia ad una normale esternalizzazione. Massima sicurezza, ma anche massimi costi.
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Cloud pubblico
Il provider gestisce un unico grande cloud offrendo una varietà di servizi. Le organizzazioni li possono usare con costi valutati sull’impiego effettivo delle funzionalità. Diminuiscono i costi, ma le soluzioni sono più rigide, a meno di personalizzazioni specifiche – tuttavia i costi si rialzano – e aumentano le preoccupazioni per sicurezza, privacy e magari questioni legali, se i server del cloud sono localizzati all’estero. Sono di solito preferiti dalle piccole organizzazioni
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Soluzioni miste
Molte organizzazioni optano per soluzioni miste, utilizzando un cloud privato per la gestione dei dati più sensibili. Oppure utilizzano le diverse tipologie in funzione delle diverse tipologie di clienti. Questo è per esempio il caso di Docebo, un’azienda che offre soluzioni per l’E-Learning, che alcuni di voi hanno utilizzato all’interno del progetto Il bambino autore in un’esperienza che è stata citata in una delle riunioni online.
Oppure, le soluzioni di cloud computing possono essere distinte in maniera più analitica in base ad aclune grandi categorie di servizi offerti.
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SAAS: Software As A Service
Queste sono soluzioni utilizzabili attraverso il browser, senza che l’organizzazione-cliente debba acquistare, installare, configurare e mantenere nulla. Per esempio, il prodotto Docebo E-Learning Platform As a Service è un servizio SAAS, basato molto sulla suite di servizi Google, Gmail, Google Docs eccetera.
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PAAS: Platform As A Service
Qui invece si offre una piattaforma personalizzata, localizzata nei server dell’azienda che offre il servizio oppure nei server dell’organizzazione cliente. Un esempio è il prodotto Docebo Premium è un servizio PAAS, con il quale l’azienda erogatrice del servizio installa un sistema adattato alle esigenze del cliente.
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IAAS: Infrastructure As A Service
E qui siamo veramente nella nuvola. Vediamo l’esempio dell’ Amazon Elastic Computing Cloud (Amazon EC2). Con EC2, chiunque, dal singolo individuo alla grande corporation, può acquistare una qualsiasi “quota di infrastruttura informatica”, a partire da una piccola applicazione web, come potrebbe essere quella che io mi sono fatto per gestire la blogoclasse, per finire ad un complesso servizio web che necessiti di super prestazioni, in termini di calcolo o in termini di storage di informazione. Lo puoi dimensionare al volo, se le esigenze cambiano improvvisamente. Puoi scegliere esattamente l’ambiente che vuoi: una macchina 32 bit? 64bit? doppia o quadrupla CPU? Un cluster (gruppo) di macchine HPC (High Performance Computing)? Windows? Linux Debian? O Ubuntu? O Linux Redhat Enterprise?
Non ha costi minimi, se consumi zero paghi zero, poi paghi quanto usi: quanto tempo CPU, quanto storage, quanto trasferimento dati in e out, quanti IP. Le tariffe sono lì, puoi progettare esattamente la tua applicazione, con costi e prestazioni. C’è anche un calcolatore dei costi mensili, dove puoi mettere i parametri che ti aspetti e lui ti fa una previsione dei costi. Ho provato, immaginando di porci la mia applicazione web. Salvo errori, sono venuti 6.25 $ al mese, anche se in realtà per il primo anno di uso ti danno tutto gratis.
All’altro estremo delle possibili applicazioni, possiamo menzionare quella del The New York Times, che grazie al sistema EC2, si ritrova la potenze di un sistema di High Performance Computing, ovvero di uno di quei sistemi di calcolo che vengono utilizzati per applicazioni di supercomputing scientifico, per esempio previsioni meteorologiche, simulazione di folding delle proteine, ricostruzione di immagini mediche eccetera. Con questo sistema il The New York Times può processare un archivio dell’ordine dei terabyte (migliaia di miliardi di byte, o diciamo circa 1000 volte il disco rigido di questo muscoloso laptop) in 36 ore, laddove con un sistema informativo aziendale, pur potente, lo stesso lavoro avrebbe potuto richiedere giorni o mesi.
Infatti, il cloud di Amazon ha iniziato a scalare il famoso (in ambito scientifico) ranking dei 500 supercomputer più veloci del mondo, trovandosi in 42-esima posizione all’ultimo rilevo di novembre scorso. Questa prestazione è stata ottenuta realizzando un cluster 17024 CPU e oltre 60 TB di memoria. Alcune di queste realizzazioni sono usate dall’industria farmaceutica, per esempio.
Ma il fatto che non mi perito di definire mirabile, è che la stessa infrastruttura possa essere scalata a livello di una minima applicazione web dal costo infimo, il tutto sostanzialmente attraverso un servizio web.
E com’è che si fabbricano questi straordinari sistemi? Con montagne di codice. Tutto e solo codice. Sì, sotto c’è l’hardware, sempre più performante, ma le magie si fanno pricipalmente con il software. Ormai le macchine sono virtuali: posso avere un server su cui installo un sistema qualsiasi e poi in questo faccio girare uno o altri sistemi. Per rimanere al livello minimo dell’utente privato: posso creare una macchina Windows in una Linux Ubuntu o viceversa una Linux Ubuntu in una Windows, o qualsiasi altra combinazione. Sono link trovati al volo giusto per dare l’idea, di come oggi il software consenta di modellare qualsiasi contesto.
Ed è questo il punto: con il codice oggi si determina il mondo nel quale vivamo, di fatto. Tutti gli strumenti, molti assolutamente portentosi – tutti i Google-strumenti, i social network, gli innumerevoli servizi web per fare qualsiasi cosa – non sono altro che codice. E tutto quello che si può fare e non si può fare, viene determinato da chi ha scritto quel codice. Se volete, è come un enorme videogioco dove il programmatore ha definito le possibilità dei personaggi.
E chi decide quello che codificano i codificatori? In questa fase, ormai, le corporation. Le visioni alla Stallman, che io nel cuore condivido, sono minoritarie, percentualmente. Intendiamoci il mondo degli utenti-autori liberi e competenti – insomma degli hacker, che sono buoni – è vivo e vegeto, per fortuna. Ma le forze messe in campo dalle corporation sono immense e sono oggi fra le più grandi del pianeta, in termini economici. La capitalizzazione di mercato della Apple, che si aggira intorno ai 400 miliardi di dollari, supera il Pil di paesi come la Svezia (354 miliardi di dollari), l’Austria (332) o la Svizzera (324). Guardate questo grafico selezionando l’estensione temporale di 10 anni.
Un tempo le regole delle relazioni commerciali e dei sistemi economici in generale, erano determinate attraverso gli strumenti legislativi degli stati nazioni, raccordate fra loro mediante opportuni accordi internazionali. Oggi, sono le corporation che di fatto determinano le regole e lo fanno perché
- hanno una forza economica paragonabile a quelle delle nazioni (la capitalizzazione Apple supera il Pil dei 50 paesi più piccoli del mondo)
- sono di gran lunga più veloci delle amministrazioni pubbliche nella creazione di nuove regole
- non possono aspettare perché il modello di sviluppo prevalente è quello determinato dal libero mercato
Snocciolo questi numeri affinché tutti abbiano ben chiaro che in questi territori si stanno giocando le partite essenziali del pianeta. Sono perfettamente d’accordo che le partite essenziali dovrebbero essere tutt’altre, ma questo è ciò che noi, e non i marziani, abbiamo costruito. E comunque è un’altra storia.
In tutto questo scenario si inquadrano anche gli innumerevoli strumenti web che tutti possono usare individualmente, e che hanno finito per influenzare addirittura la vita privata delle persone. Ogni strumento web esprime una sua nuvola ed è là che appoggiamo le nostre email, i nostri file, è là che intrecciamo innumerevoli dialoghi ed è là che talvolta lavoriamo. E tutto questo ci sembra straordinario perché scopriamo di poter fare cose che prima erano inimmaginabili. Ci vengono regalati spazi enormi per memorizzare i nostri dati e modi inusitati per condividere con intere vaste comunità i prodotti del nostro lavoro. E tutto questo gratis! Sembra un miracolo, un vento buono e generoso, frutto della conoscenza e delle conquiste tecnologiche.
Stallman non è per nulla di questo avviso – È stupidità: è peggio che stupidità, è una montatura pubblicitaria … Qualcuno dice che questo è inevitabile; quando sentite dire qualcosa di simile è molto probabile che abbia a che vedere con una campagna pubblicitaria volta a far credere che ciò sia vero.
Gli argomenti principali di Stallman e di tutto il mondo che gira intorno agli “smanettoni puri” sono che le persone potevano fare anche prima ciò che ora fanno con il cloud, che hanno perso il controllo degli strumenti e dei propri dati e che si vedono minacciata gravemente la propria privacy.
In buona parte tutto ciò è vero ma è anche irrealistico pensare che uno scenario come quello che abbiamo trattegiato fin qui, e che è dominato da potenti spinte economiche, possa essere invertito in forza di simili argomenti. Stallman, e tanti smanettoni che conosco, tendono a identificare la propria visione del mondo informatico con la propria, ma questa in realtà è un’estrapolazione assai ardita. Stallman dice che tutto quello che si fa nel cloud si poteva fare anche prima, perché le sue competenze gli consentono di immaginare subito delle soluzioni “fatte a mano”. Ma questa è una condizione nella quale si ritrovano pochissimi, in termini percentuali. D’altro canto, la proliferazione dell’infrastruttura di rete insieme alla tecnologia del browsing degli ipertesti, ha reso possibile l’accesso delle masse a internet. Le masse non risolvono i problemi scrivendo codice. È vero che tanti brillanti coders sono persone insospettabili – conosco un brillantissimo coder che è un umanista, laureato in filosofia, dottorando il lettere – ma sono pur tuttavia molto rari, in un qualsiasi campionamento trasversale della popolazione. Ed è tipico che questi individui particolari tendano a proiettare le possibilità che viene loro spontaneo intravedere, su tutti gli altri.
Se teniamo conto di questo, non è più vero che quello che si può fare nel cloud si poteva fare anche prima, assolutamente. Una grandissima massa di persone fa cose che prima non avrebbe potuto fare, in nessuna maniera. Naturalmente questo ha un prezzo, che consiste effettivamente in una perdita del controllo e in una perdita della privacy. Verissimo, ma non una novità. La condizione dell’hacker che è in grado – talvolta – di aggiustarsi le cose da sé e di sapere esattamente cosa fa il proprio software, è molto particolare. Se si guasta l’automobile a un meccanico è più probabile che lui intraprenda delle iniziative utili per cavarsela, rispetto a un automobilista comune. Anzi, forse era meglio scrivere questa frase al passato, perché essendo oggi le automobili governate dall’elettronica, nella quale gira software, l’affermazione non è più tanto vera. È bello raccomodarsi le cose da sé e c’è chi è molto bravo ma è raro. È l’organizzazione della società medesima che impedisce alle masse di avere il controllo di ciò che usano. Il cloud non è una grande novità in questo senso.
Lo stesso dicasi per la privacy. A me già il telefono di bachelite sembrava costituire una seria minaccia all privacy:
L’ideale sarebbe che il libro cominciasse dando il senso di uno spazio occupato interamente dalla mia presenza, perché intorno non ci sono che oggetti inerti, compreso il telefono, uno spazio che sembra non possa contenere altro che me, isolato nel mio tempo interiore, e poi l’interrompersi della continuità del tempo, lo spazio che non è più quello di prima, perché è occupato dallo squillo, e la mia presenza che non è più quella di prima perché è condizionata dalla volontà di questo oggetto che chiama. Forse l’errore è stabilire che in principio ci siamo io e un telefono in uno spazio finito come sarebbe casa mia, mentre quello che devo comunicare è la mia situazione in rapporto con tanti telefoni che suonano, telefoni che magari non chiamano me, non hanno con me nessun rapporto, ma basta il fatto che io possa essere chiamato a un telefono a rendere possibile o almeno pensabile che io possa essere chiamato da tutti i telefoni.
Devo a Marvi la riscoperta di questo brano scritto da Italo Calvino nel 1979, nel romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, che qui viene a pennello.
E allora che fare? Imparare a minimizzare i danni, educarsi, educare. Vedremo di raccogliere qualche indicazione pratica, magari aiutandosi a vicenda. Per ora rimaniamo con questa riflessione, consci che l’uomo ha sempre venduto l’anima al diavolo e che il progresso, in fondo è un po’ un vendere l’anima al diavolo, forse.
@ Andreas grazie, devo migliorare anche io lo studio 🙂
Caro Andreas, i tuoi post sono sempre molto interessanti, il problema vero per me è trovare il tempo non solo di leggerli, ma anche di raccogliere due idee per intervenire.
A proposito del Cloud Computing mi viene in mente che senza accorgercene abbiamo in parte già accettato la dislocazione di alcuni servizi sul Web 2.0, basti pensare alle foto inserite su Flickr.
Non solo, stiamo anche cambiando la modalità di fruizione dei contenuti multimediali che produciamo: avvertiamo sempre meno, ad esempio, la necessità di stampare una foto digitale che possiamo invece vedere sul portatile, sul cellulare, sull’ IPad, che sono ormai oggetti di uso quotidiano.
Le tecnologie richiedono un cambiamento nei paradigmi di riferimento e la necessità di una formazione specifica per non subire il processo di cambiamento, ma per governarlo.
“Quando comincia a soffiare il vento deil cambiamento, qualcuno costruisce muri per ripararsi e altri, invece, costruiscono pale eoliche” Anonimo.
Modus, naturalmente e scusatemi
oGnu tanto tengo del tempo per rimettermi in carreggiata; ci sono argomenti che seguo bene e altri che,causa una mia preparazione a macchie di leopardo, mi risultano ostici e che riprenderò con calma, facendo quelle esercitazioni che mi permetterebbero di comprenderle.
Comunque nell’insieme sono molto contento di stare con tutti voi; pensavo proprio l’altro giorno, durante la videoconferenza, che è un bel passare il tempo: educativo, gentile e produttivo.
Forse dovremmo riuscire a condividere questo modua operandi.
Un grosso ringraziamento a tutti quanti.
Costantino
Un blog per il SID 2012 http://kidblog.org/SID2012esuccessiviLB/
e uno per M’Illumino di meno http://kidblog.org/LBaroneMilluminodimeno11/
giusto per lasciare traccia … ma un segno privo di contributo, ahimè.
Spero che i cloud mentali e non che sto andando costruendo non siano una bolla, come quella economica che 1990 ma che mi portino ad uno start-up magari attorno al tema della docenza,scuola, apprendimento… chiassà…
@Andreas: sin da quando ho cominciato ad usare l’internet, i link vengono a me e non viceversa 😀 . Cioè: nel 98 ho cominciato a tradurre cose per un progetto di formazione a distanza con le TIC nella Svizzera italiana, poi oltre: loro avevano fretta, io l’internet lo usavo un filino a scuola, ma così, senza saper bene cosa fosse un browser, un provider ecc.l, quindi l’accordo è stato che potevo fare tutte le domande sulle cose che non capivo: così ho cominciato a disanalfabetizzarmi.
A un certo punto mi hanno mandato dei testi su una piattaforma di apprendimento che stavano allestendo. L’idea mi piaceva un sacco, e ho chiesto se l’avrei potuta utilizzare per uno scambio di corrispondenza tra 2 classi di scuola media: una a Bellinzona dove insegnavo io, e quella di Catherine Bourquin, nello Giura. Risposta: “Spiacenti, ma la piattaforma è solo per le scuole professionali”. Vabbé.
Qualche giorno dopo, noto nel mio account hotmail – e già, allora non sapevo di software etici e non – noto una scheda “Chat & People”. Sapevo in teoria cos’era una chat, ma non avevo mai provato. Beh, la chat era bloccata sui computer della scuola, però “people” portava alle comunità MSN, di cui sopra. “Uè che bello,” ho pensato, la nostra piattaforma di apprendimento Catherine ed io ce la facciamo lì. Ma prima mi sono iscritta ad una che si chiamava World Teachers, per imparare.
E da lì, sono stata invitata a una mailing list che si chiamava “Triumph of Content”, da James Beniger, che insegnava alla University of Southern California. E così ho conosciuto Bonnie Bracey (adesso Sutton), che ha continuato la mia disanalfebetizzazione. Mi ha suggerito di iscrivermi alla lista WWWEDU, poi al Digital Divide Network, e così ho cominciato a ricevere info sull’apprendimento con il Web e sulle questioni politiche e legali legate all’uso dell’internet.
Poi nel 2006 c’è stato il progetto per l’accessibilità del Web in Ticino, lanciato da Luca Mascaro che, come membro anche di IWA Italia, aveva partecipato all’elaborazione della legge Stanca e di diversi testi applicativi: visto che c’era tutta questa documentazione in italiano, sembrava una buona idea sfruttarla nella parte italofona della Svizzera. Il progetto non è mai veramente decollato, per mancanza di fondi, però di nuovo, è stato occasione di contatti: in particolare con Roberto Ellero e Alessio Cartocci, anche loro dell’IWA, che avevano iniziato il progetto WebMultimediale.org, dove Luca mi aveva mandato per imparare cos’era l’accessibilità del multimedia. Ed è così, ad es. che ho seguito la vicenda del trattato OMPI per i ciechi e per le persone con “disabilità di stampa”.
Poi con Luca – e Anna Veronese – avevamo anche fatto un altro progetto, “Noi Media”, per diffondere l’uso del Web 2.0 in Ticino. Luca non era tanto d’accordo sul nome, ma avevo già iniziato un podcast che si chiamava noimedia.podspot,de, e “noimedia” era un nome utente di solito libero. Allora ci siamo fatti un campeggio di tutte le applicazioni Web 2.0 gratuite che ci capitavano sotto tiro con noimedia come nome utente. Ivi compresa Ning, che però sin dall’inizio (2007) non c’era piaciuta: troppo polivalente (noi preferivamo collegare diverse applicazioni dedicate a uno scopo), niente back-up allora. Da qui le informazioni sui casini quando Ning è diventata pay-only.
E così via. All’inizio, quando seguivo Triumph of Content senza avere una connessione a casa, mi ero creato un mucchio di account hotmail dove smistavo i messaggi per categoria. Poi ho usato le bookmark. Poi le bookmark sociali (delicious, diigo). Adesso… è diventato così facile ritrovare la roba con i motori di ricerca (soprattutto quando le info ti arrivano prima su gmail) che sono diventata pigra.
Su WordPress che mi butta i messaggi in pattumiera spam: mi capita con tutti i blog WordPress salvo i miei: proprio perché faccio troppi link. Quindi sta volta ho provato a non farne, per vedere se akismet, il filtro antispam di WP, me lo lascia passare.
@Claude
Grazie, sei un archivio vivente, il, anzi la più tentacolare cybernauta che io conosca. La domanda sorge spontanea, che potrebbe interessare gli studenti di Editing Multimediale: ma tutti codesti link dove e come li tieni? Forse l’hai già detto, ma sai, qui i rivoli iniziano davvero a esser tanti.
Un’altra cosa: scusa che se alcuni dei tuoi commenti vanno automaticamente in moderazione ma non sono riuscito a spiegare a WordPress che sei buona …
@Mariaserena
È un gran buon segno essere seguiti da te, e se non arrivi non sei tu che non arrivi, ma vuol dire che qui c’è da migliorare …
@Laura
Non sei sola ad avere dubbi. Sono andato a rivedere un’intervista al direttore della Polizia Postale, che avevo letto qualche tempo fa. Niente da segnalare di utile, affermazioni sensate ma quasi ovvie riassumibili in: la situazione è molto complessa e in rapidissima evoluzione, dobbiamo attivarci con altrettante rapidità, stiamo già lavorando …
E codesti dubbi rappresentano il maggior deterrente a frenare le aziende che altrimenti vi si butterebbero a pesce nelle nuvole, anzi a piccione … perché l’abbattimento dei costi pare sia cospicuo, però …
Per quanto riguarda la tutela dei dati personali, di noi Woodstock nelle nuvole, cercherò riunire qualche elemento pratico nel prossimo post.
@Andreas, ho letto con molto interesse e qualche divagazione, (ho subito fatto un giro nel sito openspending e qui mi fermo) , tutto quello che hai scritto rispetto al cloud computing.
Alcune curiosità sono state soddisfatte.
Alla domanda riguardante la disponibilità futura dei dati, ha risposto Claude, mi rimane il dubbio sulla tutela dei dati a livello internazionale, allorché si tratti di dati sensibili riguardanti aziende o amministrazioni pubbliche.
Mi permetto un’osservazione che mi sta’a cuore, quando parli delle corporation che oggi dettano le regole non solo economiche poiché “il modello di sviluppo prevalente è quello determinato dal libero mercato”, non posso dimenticare le parole pronunciate da Kofi Annan, allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, a Davos 1999 in occasione del Global Compact:
“Scegliamo di unire il potere dei mercati all’autorevolezza degli ideali universalmente riconosciuti. Scegliamo di riconciliare la forza creativa dell’iniziativa privata con i bisogni dei più svantaggiati e le esigenze delle generazioni future.”
La nostra generazione può anche aver fallito ma io, nei giovani, nutro ancora qualche speranza che possano cambiare le cose in meglio.
Io leggo, cerco di capire, lascio questa traccia per affetto, seguo fin dove arrivo… 🙂
@Ciambello: è affascinante codeacademy.com. Però quanto a tradurlo, occorrerebbe il loro permesso: la traduzione è un’opera derivata per la quale ci vuole il permesso dell’avente diritto sull’opera principale.
@Andreas: su Stallman e gli “smanettoni puri” : è che loro applicano rigidamente la logica, perché così funziona la programmazione – o forse viceversa. Questo li può rendere irritantissimi a volte. Esempio: quando, ad aprile 2009, la Authors’ Guild sostenne che la sintesi vocale del Kindle2 creava “audio libri”, quindi opere derivate per le quali andavano negoziati accordi specifici, Bezos, il capo della Amazon calò le braghe e diede agli aventi diritto la possibilità di disabilitarla sui loro libri, avvalendo così pericolosamente questa premessa. Chiaramente i ciechi non apprezzarono. Nella mailing-list A2K (per Access to Knowledge) ci furono diverse discussioni su azioni da effettuarsi in merito. E Stallman manteneva, con ferrea logica, che era il concetto del Kindle con il suo DRM ad essere malvagio in generale e da denunciare, e che la possibilità di disabilitare la sintesi vocale era solo un caso particolare di questa malvagità (vedi Kindle Controversy Continued: “Exit” and “Voice” di leonidobusch. Governance Across Borders, 15 aprile 2009).
Aveva ragione: a luglio 2009 Amazon usò quello stesso DRM per rimuovere da tutti i Kindle 2 e-libri di Orwell regolarmente acquistati dagli utenti, ivi compresi gli appunti che avevano preso: vedi Teen sues Amazon: The Kindle ate my homework di Caroline McCarthy (CNET: 31 luglio 2009). Però alla fine, quel che ha definitivamente protetto tutti gli studenti US dal rischio che le università e i colleges americani adottassero il Kindle è stata un’altra azione settoriale delle associazioni di ciechi, la causa intentata – e vinta – da esse contro una delle università che lo avevano adottato in un progetto pilota. Da qui una lettera congiunta dei dipartimenti dell’educazione e della giustizia americani a tutti i rettori delle università e dei colleges per vietare l’adozione del Kindle e di altri device che discriminano i disabili.
Amazon poi ha di nuovo calato le braghe con lo stesso entusiasmo quando si è trattato di disabilitare il sito di Wikileaks, ospitato nella sua nuvola, a dicembre del 2010: vedi WikiLeaks row: why Amazon’s desertion has ominous implications for democracy di John Naughton (Guardian: 11 dicembre 2010).
Non intendo demonizzare Amazon (anche se la cosa è tentante per la delusione delle speranze che aveva suscitato come impresa “Web 2.0”). Alla fine degli anni 90, ben prima che si parlasse di Cloud o di Web 2.0, Microsoft offriva un servizio gratuito, le comunità MSN, poi ribattezzate gruppi. Funzionavano egregiamente come piattaforme di progetto o di apprendimento: c’era un forum suddivisibile in vari boards, una chat, ci potevi fare pagine web, ospitarvi file diversi. Poi con il passaggio a Windows Live, Microsoft ha deciso che non valeva la pena aggiornarne il software e li ha chiusi, con disperazione di molti utenti che non erano mai usciti dal microcosmo MS. Ma va detto che MS aveva annunciato la chiusura con sufficiente anticipo e predisposto accuratamente la migrazione verso un’altra piattaforma.
E quando Ning – dov’è tuttora ospitata La scuola che funziona – decise ad aprile 2010 di cancellare la sua versione gratuita e di trasformarsi, da rete di reti, in servizio di hosting di reti separate, la transizione fu molto più caotica, con un file di back-up illeggibile salvo con applicazioni specifiche, e difficoltà notevoli nella migrazione su altre piattaforme.
E adesso, Google chiuderà sia Wave sia i Knol a fine aprile 2012: vedi More Spring Cleaning Out of Season (Official Google Blog: 22 novembre 2011). Vabbé, con i servizi Google si è avvertiti che sono in perpetual beta, però lo stesso, c’è stata gente che pensava che sarebbero durati: vedi il progetto Didasca.org, tutto fatto con roba Google: sites, documents, e in particolare knols: strano che su didasknol.it non dicano niente della chiusura annunciata dei knol.
Il nonno del Cloud, Aristofane, ci può dare qualche dritta su come usarlo senza venirne usati e fregati noi: “Le Nuvole” (articolo Wikipedia con link al testo completo in italiano) è un po’ radicale, con l’incendio finale. Però in “Gli uccelli” (articolo Wikipedia – come sopra), i protagonisti Pistetero ed Evelpide si creano la loro Nubecuculia (città delle nuvole e dei cuccù) nel mondo dei pennuti con un obiettivo chiaramente circoscritto – riformare la politica corrotta di Atene – e lo implementano con un misto di programmazione e di improvvisazione.
Così conviene fare anche con le risorse del Cloud attuale: servirsi della roba che ci è utile ma senza troppo fidarci della sua durevolezza. E se serve la durevolezza, allora assicurarsi che i nostri input possano essere archiviati (back up) in modo acilmente riutilizzabile.
Grazie Ciambello 🙂
L’ho consosciuto proprio grazie a una tua segnalazione su google+, mi pare. Grazie per la proposta, ma non vorrei che generasse fatica sprecata. Gli studenti che possono capitare a me è poco probabile che siano interessati alla programmazione in un particolare linguaggio. Le escursioncine nel codice che abbiamo fatto in questo corso erano giusto per far sapere che il codice esiste, che è molto importante oggi, che chiunque se vuole può imparare a usarlo, e anche per spostare un pochino la prospettiva sotto la quale viene solitamente visto il mondo della tecnologia informatica. Magari, a studenti tipo quelli della IUL, può interessare la metodologia didattica proposta in Codecademy, ma questo forse lo possono apprezzare anche in inglese.
È tardi e finalmente riesco a ripassare dal suo blog, professore. Come sempre apprezzo moltissimo il suo modo di scrivere e ciò che ci racconta. Non so se ha sentito parlare dell’iniziativa codeyear: si tratta di un sito dove con lezioni settimanali viene insegnato agli utenti la programmazione a partire da javascript. Ovviamente il tutto è in inglese, ma se le interessa potremmo tradurre le lezioni in italiano. Il sito è questo: http://www.codecademy.com