La questione del diritto d’autore


Dove, con molta fatica e un grande nervoso, cerco di mettere insieme un po’ di informazioni sulla questione del diritto d’autore. E dove sarei più che mai lieto di essere corretto e migliorato.


Sono nel mio studio, dopo cena, dove conduco una sessione online mediante il servizio web WiZiQ. Alle 21 si apre la sessione e sono già quasi tutti presenti in “aula”, mi accorgo di essere in ritardo e allora metto nel computer un CD facendo partire Mustang Sally (versione di Joe Cocker), così gli studenti mi vedono intento ad armeggiare al computer ma intanto sentono qualcosa … pare una buona idea ma mi viene un dubbio: e i diritti d’autore?

È chiaro che ascoltando un CD (comprato regolarmente) a casa non infrango alcuna legge. Tuttavia le note vengono distribuite attraverso il microfono del computer in una sessione pubblica alla quale partecipano persone in varie parti d’Italia, oltre a qualche straniero di passaggio che chiede “What’s going on here?”. Sono in regola con le leggi sui diritti di autore?

Le problematiche relative ai diritti d’autore già sono emerse, qua e là nel (per)corso. L’ultima che ricordo è la segnalazione fatta da Laura nel suo blog del libro Abolire la proprietà intellettuale. Il suggerimento di Laura viene come il cacio sui maccheroni, perché non sono mai riuscito a liberarmi dal dubbio che, seppur nato con un intendimento condivisibile, il concetto di diritto d’autore sia servito molto più a tutta una serie di intermediari che non agli autori veri e propri. Gli amici che di arte vivono, ma che non sono ai vertici delle classifiche, mi assicurano che il regime di protezione che dovrebbe derivare dall’esercizio dei diritti d’autore, ha procurato loro maggiori spese che non profitti. Come dire: la protrezione dei diritti d’autore funziona per gli artisti al top e tutto il grande indotto commerciale che gravita loro intorno, funziona invece molto meno, se non all’incontrario, per la prevalente massa degli artisti che non sono al top, ma la cui funzione creativa è sicuramente assai più rilevante dal punto di vista culturale e sociale. Giova, dicevo, al grande indotto commerciale ma anche ai carrozzoni burocratici che si sono arroccati in comode posizioni di privilegio nutrendosi materialmente della creatività altrui, e arrivando a perpretare delle pratiche abominevoli, come quella del blitz della Siae ad una festicciola informale dove sono stati multati dei bambini di Cernobyl che volevano ringraziare per l’ospitalità con delle canzoni popolari bielorusse emesse da un paio di casse collegate a un computer. Un episodio che fa andare il sangue alla testa. Il parassitismo praticato da tante organizzazioni che per un verso o per l’altro riescono a lucrare sulla creatività altrui, procurando un valore aggiunto nullo, se non negativo, alla società, si presenta in varie forme, quale per esempio, in un altro contesto, quella dell’editoria scientifica accademica, che avevo descritto nel post I signori della scarsità.

Laura fornisce due link che consentono di farsi un’idea del contenuto del libro: un post di Laterza e uno di post di LAVOCE. Gli autori distribuiscono liberamente la versione digitale dell’originale in inglese. Come in tanti altri casi, lo leggerò e poi ne acquisterò una copia.

È importante che noi tutti ci rendiamo più consapevoli delle questioni inerenti ai diritti d’autore, e non solo nella veste di consumatori, ma soprattutto di autori, quali tutti oggi siamo, grazie al supporto delle tecnologie di rete. E non è facile, perché la materia è intricata e si è evoluta in maniera complessa nel tempo e non uniformemente nei vari paesi. Basti pensare che le espressioni, sovente considerate una la traduzione dell’altra, copyright e diritto d’autore, sono di fatto piuttosto diverse, restringendosi la prima ai diritti di riprodurre un’opera, ed estendosi l’altra anche al concetto di diritti morali degli autori.

Nei riferimenti che vi darò potrete anche approfondire questo, se volete, ma prima delineiamo la materia con il minor numero possibile di parole, al fine di fissare un paio di concetti che spesso vengono fraintesi.

In tutte le legislazioni attuali, il diritto d’autore è assegnato automaticamente a chiunque crei un opera che sia fissata su di un supporto stabile. In altre parole, i diritti in questione nascono insieme all’opera stessa, senza il bisogno che l’autore faccia o dichiari alcunché a chicchessia. Per esempio senza che apponga diciture del tipo ©PincoPallino. Con l’avvento massificato delle tecnologie di rete, che azzerano o quasi i tempi e i costi delle comunicazioni, una simile concezione “assoluta” dei diritti d’autore, rischia di risolversi in un grave impedimento alla creatività e alla innovazione, perché viene meno un delicato e importante equilibrio fra l’esercizio dei diritti sulle proprie opere e la libertà di fruizione delle opere altrui, necessarie a creare le proprie. Ecco che così sono comparsi strumenti come le licenze Creative Commons (o altre similari) mediante le quali, qualsiasi autore, ognuno di voi, può decidere esattamente a quali diritti rinunciare per facilitare la fruizione della propria opera da parte della comunità. È importante rendersi conto che le licenze del tipo Creative Commons non asseriscono quali siano i diritti di proprietà, perché questo lo fanno le leggi vigenti in materia, ma forniscono uno strumento agli autori per modulare i propri diritti, a seconda dei propri ideali e delle proprie esigenze.

Versione originale in inglese
Traduzione in italiano

Questi sono i fatti essenziali. Quasi certamente molti di voi sentiranno la necessità di approfondire. Vi propongo due principali riferimenti. Il primo è Bound by Law, un fumetto creato da Keith Aoki, cartoonist e professore della Oregon School of Law, James Boyle, giornalista del Financial Times online e professore alla Duke Law School, Jennifer Jenkins, documentarista e direttrice del Duke’s Center for the Study of the Public Domain.

Ho conosciuto questo fumetto come testo da studiare per un corso online che ho frequentato come studente nell’autunno 2007: Introduction to Open Education, tenuto dal prof. David Wiley (ora alla Brigham Young University) presso la Utah State University. È un’opera interessante sia per il contenuto, volto a far capire concetti poco commestibili – per me lo sono pochissimo – ad un pubblico non preparato in materie giuridiche, ma anche per il metodo, con il quale dei professori universitari affidano il loro messaggio ad un fumetto. Un’avvertenza è tuttavia doverosa, prima che affrontiate questa lettura: non fate molto caso ai dettagli, come potrebbero essere le date di entrata in vigore delle leggi, perché queste si riferiscono al contesto statunitense, ma focalizzatevi sui concetti generali, che sono esposti molto efficacemente nel fumetto.

More about Capire il copyrightSe la lettura di Bound by Law può essere un ottimo modo per introdursi all’argomento, per un maggiore approfondimento, nonché per un riferimento specifico al contesto italiano, è ottimo Capire il Copyright di Simone Aliprandi.

Ambedue i testi sono scaricabili da Internet in formato pdf e ambedue possono essere acquistati in formato originale per cifre modeste. A suo tempo, io li ho letti nella versione digitale free e poi li ho acquistati, per prestarli in qua e là a amici poco avvezzi o poco formati alle frequentazioni del cyberspazio. Qui di seguito scrivo due righe per coloro che sul momento non hanno il tempo di andarsi a leggere i suddetti riferimenti.

La storia del diritto d’autore è relativamente recente. Un tempo, artisti, autori e scienziati vivevano in buona parte grazie al fenomeno del mecenatismo. Negli ultimi due secoli, in modo progressivo e di concerto con lo sviluppo dell’economia moderna, sono comparsi strumenti giuridici in grado di assicurare a queste figure i proventi necessari per vivere. Il diritto d’autore quindi, sebbene oggi da molti visto come un impedimento per il libero fiorire della creatività, è stato concepito come una tutela del potenziale creativo della comunità.

Oggi il diritto d’autore è “automatico”: Chiunque crei un’opera originale di qualsiasi tipo acquisisce automaticamente i diritti d’autore. Questo sembra essere un meccanismo lodevole ma l’applicazione estrema e sistematica del meccanismo di protezione crea un grosso problema. Infatti, in varie forme di espressione artistica, è inevitabile utilizzare parti di opere preesistenti. Del resto questo è un tratto essenziale della creatività umana: nessuno crea dal niente o, come scrive Nelson Goodman, il fare è un rifare.

Il concetto è illustrato molto bene nel fumetto Bound by Law, dove la protagonista Akiko vorrebbe realizzare un documentario sulla vita di New York ma presto si rende conto che è praticamente impossibile evitare di includere immagini e brani sottoposti a diritti di autore, pena lo svuotamento di significato della stessa opera che vorrebbe realizzare.

La questione critica oggi è trovare il compromesso ottimale fra la tutela dei diritti sulle opere ed il libero accesso alle medesime. In altre parole, ogni autore da un lato ha bisogno che i diritti sulle proprie opere siano salvaguardati ma dall’altro ha anche bisogno di accedere alle opere altrui liberamente oppure a fronte di costi sopportabili.

In realtà, proprio a causa di questo problema, le legislazioni dei vari paesi prevedono degli strumenti che sono concepiti proprio con il fine di aggiustare un compromesso del genere. Nella legislazione statunitense, il Copyright Act prevede lo strumento del Fair use che esime gli utilizzatori dall’assolvimento degli obblighi previsti dai diritti d’autore, per scopi di discussione, critica, giornalismo, ricerca, insegnamento o studio. Il regime di Fair use dipende dalla valutazione congiunta di quattro elementi: oggetto e natura dell’uso, natura dell’opera protetta, quantità e rilevanza della parte utilizzata, conseguenze dell’uso sul mercato potenziale o sul valore dell’opera protetta. La storia raccontata in Bound by Law riporta un certo numero di esempi famosi di Fair use negli Stati Uniti.

In Italia la materia in questione è regolata dalla legge n. 633 del 22 aprile 1941 sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio. In particolare è nell’articolo 1, comma1, che si determinano le eccezioni agli obblighi derivanti dai diritti d’autore:

1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.

Questo comma, presente già nella stesura del 1941, nella pratica è stato interpretato sempre in modo molto restrittivo. Nel 2007, a fronte di un’interrogazione del senatore Bulgarelli sull’opportunità di dotarsi di uno strumento analogo al Fair Use statunitense, il governo ha risposto sostenendo che l’articolo 70 della legge n. 633

riproduce nella sostanza la disciplina statunitense sul fair use. Infatti, i quattro elementi che caratterizzano tale disciplina, come rinvenienti nella Section 107 del Copyright Act, e cioè: – finalità e caratteristiche dell’uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro); – natura dell’opera tutelata; – ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all’intera opera tutelata; – effetto anche potenzialmente concorrenziale dell’utilizzazione ricorrono a ben vedere anche nell’articolo 70 della legge sul diritto d’autore.
Pertanto, a giudizio di questa amministrazione l’ordinamento civile italiano in materia del diritto d’autore risulta oggi conforme, negli assetti fondamentali, non solo a quello degli altri paesi dell’Europa continentale ma anche a quello dei Paesi dell’area del copyright anglosassone.

Successivamente il Parlamento ha approvato una modifica dell’articolo 70 della suddetta legge per tenere conto dell’impiego di Internet nelle pratiche didattiche e scientifiche. La modifica è stata apportata con la legge n. 2 del 9 gennaio 200 che, nell’articolo 2, recita

(Usi liberi didattici e scientifici)

1. Dopo il comma 1 dell’articolo 70 della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, è inserito il seguente:

«1-bis. È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all’uso didattico o scientifico di cui al presente comma».

Ora, malgrado il fatto che questo nuovo comma 1-bis, nel secondo capoverso, stabilisca chi debba definire i “limiti all’uso didattico e scientifico di cui al presente comma”, in realtà non è stato fatto più nulla, generando così una grande confusione su cosa si debba intendere per “immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate”. Per esempio: quand’è che un’immagine inizia ad essere sufficientemente degradata per rientrare nell’applicazione di questo comma?

In altre parole, abbiamo la legge che stabilisce il concetto ma manca il regolamento attuativo che consenta di calare il medesimo nella realtà. Ho provato a vedere se nel frattempo la situazione si fosse evoluta ma non mi pare che sia successo un granché. Ricapitolo.

Nel mese di gennaio 2008 il giurista Guido Scorza lancia l’iniziativa per una bozza di Decreto Ministeriale per definire le disposizioni del comma 1 bis dell’art. 70. In marzo si aggrega e collabora il giornalista Luca Spinelli. Potete leggere la bozza in questo documento (pdf). In tale bozza, oltre a chiarire cosa si possa intendere per immagini e musiche, nell’articolo 3 si precisano i concetti di bassa risoluzione e di degrado:

Art. 3. Formati di pubblicazione.
g

  1. Ai fini del comma 1 bis dell’art. 70 della legge 21 aprile 1941, si intende per immagine in bassa risoluzione:
    1. Per le opere delle arti figurative di cui al comma 1, art. 1 del presente Decreto: qualsiasi riproduzione non eccedente i 72 punti per pollice (dpi).
    2. Per le opere della cinematografia di cui al comma 1, art. 1 del presente Decreto: qualsiasi riproduzione non eccedente i 384 kbit/s.
  2. Ai fini del comma 1 bis dell’art. 70 della legge 21 aprile 1941, si intende per immagine degradata ogni opera di cui al comma 1, art. 1 del presente Decreto che, rispetto all’originale, presenti elementi di alterazione significativi, ivi compresa l’apposizione di marchi o scritte, ovvero effetti di alterazione della qualità visiva percepibile o dei colori e di distorsione.
  3. Ai fini del comma 1 bis dell’art. 70 della legge 21 aprile 1941, si intende per musica in bassa risoluzione o degradata qualsiasi riproduzione non eccedente i 96 kbit/s.
  4. Il Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, aggiorna annualmente tramite decreto ministeriale i criteri e parametri di cui al presente articolo, tenendo in considerazione lo sviluppo tecnologico.

Il fatto più rilevante da registrare, successivamente, è costituito dalla presentazione di uno schema di un regolamento (pdf) approvato il 6 luglio 2011 dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AgCom), presieduta da Corrado Calabrò, in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronicaQui (pdf) trovate il testo della consultazione pubblica su tale regolamento, dell’8 luglio 2011. Stiamo quindi ancora discutendo su di uno schema, quindi non un documento preciso e esaustivo della materia, che è ciò che occorrerebbe, né più né meno. In sostanza un modo per protrarre la fumosità della questione, o peggio per fumosamente portare avanti posizioni restrittive, come ha scritto Guido Scorza sul sito dell’espresso l’8 luglio 2011. Dopodiché, per quanto io sappia, non è accaduto più niente, a parte il fatto che ogni tanto qualcuno ci riprova, come nel caso dell’emendamento Fava, presentato e bocciato recentemente.

Per chiosare la situazione di confusione nella quale ci troviamo, riporto qui di seguito alcune osservazioni che Claude mi ha gentilmente inviato, a seguito delle mia richiesta di revisionare la prima bozza di questo post, considerato che mi sembra più preparata di me e che io faccio fatica a scriverne perché è una materia che mi fa venire il nervoso. Allora, scrive Claude:

Scopo di lucro: purtroppo sembra prevalere nei paesi europei distinzione pubblico/privato: vedi Blitz della Siae alla festa multati i bimbi di Cernobyl e l’intervista di Roger Lévy a Poto Wegener della Suisa.

Ora è vero come dici tu che in Italia c’è la modifica 1-bis che parla di immagini e musiche a bassa risoluzione per uso scientifico e didattico ma come aggiungi, quell’uso non è gratuito.

E ancora su “senza scopo di lucro”, non basta che il TUO uso non abbia scopo di lucro: se ci lucra YouTube tramite pubblicità a lato ad es, è un problema.

Infine che un uso sia autorizzato dalla legge non significa che sia autorizzato gratuitamente. Ad es la legge stipula anche disposizioni sui diritti da pagare alle società di riscossione dei diritti come la SIAE.

Conclusione?

E cosa possiamo concludere allora? In particolare, che deve fare un educatore, che sia maestro, professore, professore d’università o altro, e che voglia utilizzare testi, immagini, musiche o video riprodotti a fini didattici?

Per avere un criterio mi rifaccio all’interessante descrizione delle fonti del diritto proposta da Simone Aliprandi in Capire il copyright ad uso dei non addetti, quali molti dei lettori ed io siamo. Orbene, le fonti del diritto sono quattro:

  1. la legge, composta da testi normativi emanati da apposite istituzioni politiche, quali lo Stato o le Regioni;
  2. la giurisprudenza, determinata dalle pronunce dei giudici su questioni specifiche;
  3. la dottrina, formata dalle opinioni autorevoli più o meno condivise degli studiosi del diritto;
  4. gli usi e le consuetudini che sono generalmente riconosciute nella realtà sociale.

Aliprandi spiega che i problemi di rilevanza giuridica vengono risolti attingendo alle quattro fonti secondo questa gerarchia.

Per quanto tale quadro possa apparire articolato e flessibile non è facile trovare riferimenti in un contesto che vive una così rapida espansione; come spesso si verifica, la complessità della realtà mette a dura prova i nostri costrutti.

In una situazione del genere e nel contesto che qui ci interessa, io credo che si debba considerare un altro elemento: la coscienza. Vi sono attività, come per esempio quella del medico e quella dell’insegnante, che hanno l’uomo come soggetto, la sua salute in un caso, la sua formazione nell’altro.

Ricordo che, in una situazione estremamente difficile e dolorosa, un medico che ricordo con affetto mi confortò dicendomi: “Non si preoccupi, ci sono i protocolli ma prima c’è l’uomo”.

Ecco, la professione dell’insegnante non presenterà le criticità che può incontrare un medico ma la posta in gioco è altrettanto importante. Credo che un insegnante, qualsiasi insegnante, possa tranquillamente determinare cosa sia giusto fare in quelle circostanze dove la normativa non è ancora esplicita; ovvero, credo che per un insegnante non sia così difficile determinare ragionevolmente e secondo coscienza che

  1. la riproduzione di un’opera di cui intende servirsi abbia finalità non commerciali, educative e non abbia fini di lucro
  2. la natura dell’opera riprodotta sia appropriata per la propria azione didattica
  3. l’ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all’intera opera tutelata sia adeguata e non ridondante
  4. con la riproduzione non si causino effetti anche potenzialmente concorrenziali dell’utilizzazione.

Non possiamo immaginare che se un simile atteggiamento costituisse pratica corrente per la maggioranza degli insegnanti e pratica condivisa e supportata dai vari organi di dirigenza scolastica e universitaria, allora si finirebbe per contribuire a formare, nell’ambito della vita scolastica, quegli usi e consuetudini della realtà sociale che costituiscono una delle fonti del diritto?

Io credo di sì e, in modo più generale, penso che le regole che le comunità si danno derivino da un’articolata dialettica fra la loro espressione formale e la realtà complessa e sempre mutevole alla quale esse devono alfine attagliarsi. Il legislatore non potrà non tenere conto di usi e consuetudini palesemente volti a fini formativi, che in concreto non intaccano gli interessi dei detentori dei diritti sulle opere utilizzate ma anzi, forse rappresentano anche una promozione delle opere medesime.


12 pensieri riguardo “La questione del diritto d’autore”

  1. @ Claude: ok, ma la risposta mirava a precisare i contenuti nel mio post che, per il motivo scritto sopra, erano effettivamente un pò confusi.

  2. Ehi Laura, c’è stato un malinteso: i casini che nascono dall’uso della locuzione “proprietà intellettuale” mica ho detto che li avevi causato tu, al contrario: tu hai sollevato la questione e hai fatto benissimo. D’altronde, oltre ai due professori di economia alla Washington University di St Louis, anche Robin Gross ha creato IP Justice che mira a promuovere un equilibrio tra “Intellectual Property Laws” e libertà di espressione. Se la locuzione viene usata ufficialmente con effetti deleteri, non si possono combattere questi effetti senza nominarla.

  3. @Claude, hai ragione, probabilmente nella foga del discorso, mi succede spesso quando mi agito, ho messo troppi argomenti insieme generando casino (tra l’altro ho fatto anche un sacco di ripetizioni!)
    Non era però mia intenzione fare una lezione né di diritto né di economia e quando ho parlato di vaccini mi riferivo ad un passo del libro che parlava dei brevetti di Big Pharma.
    Penso che tu abbia capito che a me Stallman piace molto, ho presente che a tale proposito dice: “Editori e avvocati amano descrivere il diritto d’autore come proprietà intellettuale – un termine che include anche i brevetti, marchi registrati e altre più oscure aree della legge. Tali leggi hanno così poco in comune, e differiscono così tanto, che è sconsigliato fare generalizzazioni. È meglio parlare specificatamente di “copyright”, “brevetti” o “marchi registrati”. (tratto da GNU, le parole da evitare).
    Il testo è stato però scritto da due professori di economia alla Washington University di St Louis e loro lo hanno intitolato: “abolire la proprietà intellettuale”, come facevo a cambiare il titolo?
    Il mio intento era comunque mettere in evidenza come il nostro diritto non risponda più alle mutate esigenze della società o meglio di quella parte di società che crede nella costruzione collettiva della conoscenza e nella condivisione.
    Anche su altri temi il diritto, o la ratio che sottende a certe norme, è ampiamente superato ma questo è un discorso che ci porterebbe molto lontani.
    Chiediamoci piuttosto a chi giova tutto questo, Medea avrebbe detto “cui prodest”, Falcone, “segui i soldi” io ogni tanto “che schifo”…

  4. Scrivere post su argomenti del genere mi pone in uno stato di schizofrenico sdoppiamento della personalità: mi becco l’instabilità ma mi tengo caro lo sdoppiamento, eccome se me lo tengo caro! Nel post ho fatto i compiti, con molta fatica e qualche sbavatura, come sempre. Qui invece sono l’altro, cioè io, un commentatore qualsiasi venuto dal cyberspazio.

    Esiste l’economia ma esiste anche l’utopia, perdio.
    Esistono i ragionamenti calibrati, sulle opportunità e sulle sostenibilità e sui rapporti di forza e tutte queste razionalissime cose, ma esiste anche il proprio incoercibile essere, sentimento, anelito. Esiste la poesia, perdio.

    Non mi riferisco alle strofette da imparare a memoria ma a quella luce particolare nella quale ti può capitare di vedere le cose, a quella luce particolare che ti fa sentire che una cosa è giusta, bella, desiderabile, quella luce particolare che ti fa stare bene. Mi riferisco a quei magici corto circuiti che la mente di ciascuno di noi, se sufficientemente libera, produce in dovizia. E mi riferisco all’insopprimibile libertà di condividere tutto questo con chi voglio e se voglio, a prescindere dagli ingredienti che mi hanno nutrito. E voglio che tutti abbiano tale diritto.

    Ci sono, sia fra i grandi che fra tutti gli altri, quelli di cui mi fido e quelli di cui non mi fido. Quelli di cui mi fido sono i veri autori, creatori, chiamateli come vi pare, possono essere pittori, scultori, scrittori, musicisti, poeti o quello che volete, comunque Poeti. E non solo grandi, ma anche piccoli piccoli, magari incontrati per strada, magari conoscenti deliziosi, persone “comuni”. Di tutti questi mi fido.

    Non mi fido degli intermediari, anche se so che ce ne può essere bisogno, forse, ma non me ne fido. Intermediari sono coloro che nel 900 anno reso disponibili alle masse i prodotti della cultura, sotto forma di libri, dischi di ogni tipo, mostre, manifestazioni e tutto ciò, o che si sono occupati di distribuire a comunità ristrette la linfa per esse vitale e da esse stesse prodotta, come nel caso dell’editoria scientifica. Accetto l’idea che l’opera di tutti questi intermediari sia stata importante e meritoria ma ciò non toglie che io di essi non mi fidi. Includo nella categoria anche le affascinanti nuove forme di intermediazione, alla Google o alla Apple, per esempio. Sono felice che anche queste intermediazioni esistano, e posso anche pensare che siano inevitabili elementi strutturali del progresso, ma ciò non toglie che non me ne fidi ed eserciti un atteggiamento vigile e critico. Fra gli intermediari metto anche l’accademia con i suoi operatori, me compreso. In pratica non mi fido di tutti coloro che possono ricavare un vantaggio economico o di posizione e, conseguentemente, di potere, dalle loro attività di intermediazione.

    E non mi fido di tutto l’indotto, ivi incluse quelle frange di terziario che gestiscono i diritti di proprietà, i brevetti eccetera. Lo so, l’economista ride commiserando, lo so bene ma non me ne importa niente. E anzi, gli consiglierei di ridere un po’ meno, considerato che le cattedrali di pensiero razionale erette in un paio di secoli hanno prodotto dei tragici fenomeni del tutto imprevedibili razionalmente, sui quali nessuno sa dove metter le mani.

    E non mi fido di tutta la zona grigia di “creativi” in generale, prodighi di tante belle trovate ma dubitabilmente mossi da ispirazione poetica. E come faccio, direte a distinguerli da quelli che prima ho chiamato Poeti? Dal fatto che collegano la creatività ai denari, molto semplicemente. Posso anche essere contento della loro esistenza e forse della loro necessità, badate bene, ma non me ne fido.

    Einstein sosteneva che non si poteva far bene ricerca in cambio di denaro. Aveva perfettamente ragione. Non è detto che talvolta, in cambio di denaro, non sorta fuori qualcosa di buono, ma se il sistema è tarato sulla remunerazione della creatività, in tutte le forme possibili, allora si generano con la massima facilità enormi sacche di parassitismo, e su questo bisogna sorvegliare. Questo vale tanto per l’arte che per la scienza. Ho visto tante ideuzze che non erano affatto da gettar via, ma che sono state stiracchiate ridicolmente per decenni, in tutti i contesti e in tutte le salse possibili, al fine di alimentare con relativamente poca fatica rendite di posizione.

    Diffido di tutto ciò che si avvicina al denaro, utilissimo, forse indispensabile in una società così grande, ed anche interessante – giusto stamani ho imparato finalmente cosa siano i Credit Default Swaps, in uno di quei strepitosi video della Khan Academy – menzionata anche in un articolo sul sole 24 Ore, domenica scorsa. Ma diffido di tutto ciò che si avvicina al denaro, non perché ne condanni l’uso, ma perché nei suoi pressi prosperano con grande facilità intenzioni che niente hanno a che vedere con la meraviglia per il mondo e l’anelito per la conoscenza, che muovono invece i Poeti, artisti o scienziati, non fa differenza.

    E che dire di tutto ciò che orbita intorno al mondo delle licenze tipo Creative Commons e simili? Sono felicissimo che esistano e provo grande ammirazione per l’ingegnosità di coloro che le hanno concepite, per esempio di Lawrence Lessig, del quale ho letto con grande interesse diversi scritti. Sono soprattutto felice per il grande valore pedagico insito nel rendere grandi masse di persone consapevoli della possibilità di essere anche autori e non solo consumatori, non solo consumatori passivi dei prodotti elargiti da semidei e mediati dalle corporations, non solo mera carne da macello.

    Sono veramente felice che esistano, ma personalmente non so che farmene. Sì, nel mio blog ho dichiarato di utilizzare la licenza Attribuzione – Condividi allo stesso modo 2.5 Italia (CC BY-SA 2.5), ma l’ho fatto principalmente per contribuire a diffondere la notizia dell’esistenza di una diversa e più ampia prospettiva della quale i più sono ancora ignari, per diffondere una consapevolezza che intanto è un primo passo al di là di una visione assolutamente stereotipata.

    Ho scelto questa licenza dove si dice che chiunque può riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare ciò che io metto nel blog, e che può anche modificarne i contenuti e addirittura usarli per fini commerciali. È una licenza che richiede l’attribuzione della paternità delle opere nei modi indicati dall’autore, ma io non ho indicato nulla perché non mi interessa. È un Licenza che richiede inoltre che, alterando o trasformando le opere, o usandole per crearne altre, queste si possono distribuire solo con una licenza identica o equivalente a questa, clausola che mi piace perché induce alla diffusione dell’idea.

    Di tutti i diritti, su cui tale licenza non ha effetto, ma che la legge mi assegna, io non so che farmene, ivi compresi i diritti morali. È per me ridicolo pensare di dover proteggere una cosa prima di sapere se questa cosa è buona o no. Per di più una cosa prodotta da un microbo che pesa un settemiliardesimo! Non so che farmene di un simile ridicolo diritto. Desidero solo che, se dal piccolo lavoro che io faccio, emerge qualche buona idea che serve a qualcuno, nel senso che io auspico, ebbene che questa idea se ne voli per conto suo.

    Non so che farmene quindi del concetto di paternità di qualsivoglia opera. Ho invece certamente ben presente il dovere di rispondere a chi mi faccia domande su qualche idea che ho espresso e che mi ronza ancora vicino.

    È per questo che ho sbarrato nervosamente con una croce rossa il simbolo del copyright nei bricovideo, pubblicati qualche post fa.

  5. @laura Sollevi il problema dei casini gravissimi che nascono quando si sbattono assieme cose che non c’entrano l’una con l’altra (musica-vaccini) a nome della “protezione della proprietà intellettuale” . Da decenni Stallman chiede che non si usi l’espressione “proprietà intellettuale” ma si indichi di coasa si parla: diritto d’autore, brevetti, marchi registrati. L’idea è giusta ma non basta: in effetti trattati internazionali come ACTA, proposte di leggi nazionali come SOPA e PIPA negli US, creano di proposito questa confusione.

    @grandipepe: non sei tu ad essere confusa: è la situazione del diritto d’autore ad esserla: vedi i Bound By Law citato e linkato da Andreas, che menziona rivendicazioni di copyright per musiche accidentalmente registrate per strada mentre lo scopo della registrazione era altro, e più recentemente: “The Architecture of Access to Scientific Knowledge” di Lawrence Lessig (versione con sottotitoli italiani di Roberta Ranzani).

    @andreas: aneddoto sulla “qualità degradata”: il mese scorso avevo fatto sottotitolazioni “a karaoke” (1) di due preghiere cantate in urdu su richiesta di un partecipante pakistano a una lista di discussione sulla sottotitolazione. Ho immediatamente ricevuto notifiche di possibili violaziioni dei diritti di The Orchard, il distributore, e all’inizio quei video sottotitolati sono stati deturpati da annunci pubblicitari, perché anche se le preghiere sono nel dominio pubblico, sono protette le esecuzioni.
    The Orchard è un avente diritto simpatico che ha fatto una pagina YouTube Copyright Claims sul suo blog dove dichiara che non intenterà processi né chiederà mai la rimozione dei video fatti su opere che gestisce, spiega la procedura per contestare l’identificazione Content ID di YouTube e dà alla fine un indirizzo di contatto. Quindi ho scritto chiedendo se considererebbero la possibilità di togliere le pubblicità – indecorose per preghiere e comunque di poca rendibilità probabile su video che verranno visti da poche persone che poco probabilmente vi cliccheranno sopra – in cambio dell’aggiunta di un link nella descrizione a una pagina dalla quale gli utenti potessero acquistare legalmente l’audio originale. E ho anche fatto un messaggio Google+ suggerendo che Google offrisse agli aventi diritto, una volta rivendicato un video derivato, la possibilità di aggiungere tale link loro stessi per comprare l’audio originale nella descrizione.
    Da allora le cose cambiano di continuo: prima su questi 2 video sono stati tolti gli annunci (e io avevo aggiunto come promesso nella descrizione i link alle pagine per l’acquisto). Alcuni giorni fa, invece, gli annunci erano tornati e c’erano in più link ufficiali ai label e alle pagine per l’acquisto (anche sui video derivati da altri degli stessi brani), e l’audio era notevolmente degradato. Mentre scrivo non ci sono più né le pubblicità sui video, né quei link ufficiali, e la qualità audio è tornata normale.
    Non sono così megalomane da credere che il mio messaggio Google+ sia la causa della breve apparizione di quei link ufficiali nei video derivati da questi brani: sarà piuttosto una coincidenza con prove che Google sta facendo per conto suo. Il fatto sta che per un label, degradare fortemente l’audio e deturpare con annunci sul video “fan versions” derivate dall’audience verosimilmente limitata è controproducente per la promozione dell’originale, mentre persino con solo poche decine di visualizzazioni, c’è una possibilità maggiore che alcuni utenti decidano di avvalersi di un link nella descrizione per comprare l’originale, comunque migliore che la versione YouTube anche non artificialmente degradata. Sarebbe carina una soluzione intermedia: con i link ufficiali ai label e alle pagine di acquisto, ma con audio normale e senza pubblicità sui video stessi.
    Ultima cosa re “Bound By Law”: doveva uscire nella stessa serie un secondo fumetto degli stessi autori, intitolato “Theft! a History of Music” (Furto! Una storia della musica). Purtroppo il disegnatore, Keith Aoki, è morto ad aprile 2011. Però alcune parti in progress si trovano su Opensource.com: Theft! A History of Music—Part 1: Plato and all that jazz, Theft! A History of Music—Part 2: Copyright jams e Theft! A History of Music —Part 3: If I could turn forward time….

    (1) cioè una sottotitolazione dove il colore del sottotitolo cambia quando una parola viene cantata, ma con il canto, a differenza del karaoke vero dove rimane solo la traccia degli strumenti. I due video sono Lab pe aati hai dua di Allama Iqbal e Khabar E Tahayyur E Ishq Sunn.

  6. Mi sono interessata al diritto d’autore recentemente perchè , deciso il tema della futura tesi, ho iniziato a reperire fonti e libri che mi agevolassero nel costruirla, così mi sono imbattuta in una casa editrice, La morlacchi editore , che non solo esibiva una collana di testi ad hoc per il mio caso specifico, ma proponeva anche la possibilità di stampare scritti/ricerche/documenti attinenti al tema.
    “Ho fatto trenta”, mi son detta, “Posso fare anche trentuno!”, perchè non cogliere l’opportunità di inviare il mio elaborato a una casa editrice e vedere se poteva avere un riscontro? Bella idea, ma chi mi garantisce il diritto d’autore? Perchè io ho un diritto d’autore?
    A una mia amica sono stati riconosciuti 8,00€ (!) per aver inviato al sito di tesi on line 4 contributi tra appunti e tesine da da 12-15 pagine l’uno: ha rifiutato la pubblicazione e lo avrei fatto anch’io, quindi , a maggior ragione, chi tutela il mio lavoro se lo invio a una casa editrice?
    Cercando in rete ho trovato il “deposito opere inedite”, l’opera viene considerata inedita finché non esce dalla sfera di controllo dell’autore.

    ” Devono senz’altro considerarsi pubblicati:

    un’opera letteraria pubblicata a stampa;

    un sito web già immesso in rete;

    uno studio presentato in pubblico in occasione di un congresso;

    un dipinto pubblicato su biglietti augurali;

    lo schema di una manifestazione già realizzata;

    qualsiasi opera abbia partecipato a concorsi, selezioni, letture pubbliche, ecc.

    mentre può essere efficace il deposito cautelativo di

    tesi di laurea non ancora discusse (anche se note al relatore);

    poesie lette nell’ambito della stretta cerchia familiare;

    musiche composte nell’ambito ristretto di un corso di strumento;

    Le opere consegnate alla SIAE come inedite vengono chiuse in un plico sigillato sul quale viene indicata la data di decorrenza del deposito. Il plico può essere aperto solo su decisione di un giudice (quando c’è una controversia sulla titolarità dei diritti sull’opera) oppure su richiesta del depositante (o dei suoi rappresentanti, se questi decide di rinunciare al deposito per riprendere possesso dell’opera. Si deve però tener presente che, una volta aperto il plico sigillato, si perde il valore probatorio del deposito SIAE. Pertanto, se durante i cinque anni sono apportate modifiche o integrazioni tali da trasformare l’opera originale, l’autore valuterà l’opportunità di procedere ad un nuovo deposito avente ad oggetto la versione più recente dell’opera.”

    Può senz’altro essere una soluzione che potrei suggerire a chi come me pensa di pubblicare in futuro, ma c’è un problema … non so ancora quanto costa …

  7. @Andreas, sono confusa…
    se io canto la canzone gettonata del momento camminando per strada… e racconto di un pittore contemporaneo… se leggo delle pagine di libri ad alta voce (ma preso a prestito…), per il gusto dell’intrattenimento… se “penso” a qualsiasi cosa sia frutto della proprietà intellettuale di altri… è violazione dei diritti di autore? sembra banale, ma se “debbono essere sciolti i capannelli – che condividono arte – anche qualora si formino occasionalmente per strada” allora tutto ciò che soggiace ai diritti di autore ha una diffusione univoca e non “di massa”. Non so… mi sembra una “questione sottile”…

  8. Chapeau, Andreas, come sintetizzi tu le cose, non lo sa fare nessuno!
    Voglio dire un paio di cose:
    La prima: forse l’utilizzo di una musica può apparire, in prima analisi, superfluo ma quando c’è di mezzo la vita di milioni di persone a causa del protezionismo del marchio di un vaccino, io mi porrei seri problemi di etica.
    Il secondo: la giurisprudenza dovrebbe rispondere alle esigenze, anche di innovazione, della società, siamo sicuri che sia così? A chi giova la cristallizzazione del diritto? A chi risponde l’esigenza di proteggere la proprietà intellettuale? A quanto pare non al mercato, allora a chi?
    Nella gerarchia delle fonti, gli usi e i costumi appaiono in ultima posizione e richiedono l’opinio juris di chi li applica. Esistono ancora nel sistema agrario dove qualche galantuomo esiste ancora, siamo sicuri che esistano per le grandi corporation o per chi entra in contatto con loro?
    Esistono come fonte giuridica solo sulla carta, sono venute meno le condizioni di attuazione.
    Il libro che ho segnalato esiste, come hai detto tu, on-line in lingua inglese; io l’ho prenotato e dovrebbe arrivarmi in settimana; segnalerò brani che potrebbero interessarci.
    Per quanto riguarda il sito: “la voce”, io lo utilizzo da anni con i miei studenti; ogni tanto i fatti devono essere commentati da opinioni autorevoli.

  9. L’ossessione della proprietà d’autore è parossistica: forse si è anche affetti da una sindrome del “presunto creatore compulsivamente possessivo”… qualunque “protuberanza” scritta o prodotta si tende a circondarla di un diritto d’autore.
    Recentissimamente, al museo Prado di Madrid, è stata rinvenuta una Gioconda che, a quanto pare, fu dipinta da un allievo dello stesso Leonardo… e copiandola dal Maestro: mi vien da sorridere. Il genio avrà inarcato il sopracciglio d’autore davanti alla prova del suo allievo?
    Boh! Altri tempi!

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