Che cos’è che non va?

Questo Tweet mi catapulta in un articolo apparso sull’Harvard Magazine che me ne ricorda un altro che avevo letto qualche anno fa; il collegamento è interessante. L’articolo è lungo da tradurre, sintetizzo.

Un professore di fisica di Harward (Eric Mazur) un bel giorno scopre che la sua fama di insegnante è un’illusione, un castello di carte. L’evento scatenante è la lettura di un articolo pubblicato da un altro professore (David Hestenes) sull’American Journal of Physics. L’articolo riporta i risultati di un test proposto a migliaia di studenti per verificare le loro conoscenze di base di fisica dopo avere seguito i corsi introduttivi. Il test è particolare perché le domande sono formulate con il linguaggio di tutti i giorni. Risultato: i corsi non hanno insegnato quasi nulla. Gli studenti hanno imparato a manipolare formule e equazioni ma quando si chiede loro di calare le descrizioni teoriche nella realtà tornano indietro di migliaia di anni, ai tempi di Aristotele.

Mi è venuto immediatamente in mente un articolo molto interessante scritto nel 1956 dal fisico Enrico Persico, di cui venni sapere grazie ad un post di Carlo Columba. Che cos’è che non va? (pdf) si domandava l’autore, riflettendo sull’esame di una studentessa brava ma incapace di trovare alcun nesso fra la teoria che sa così bene e la realtà cui questa si riferisce:

Perché questa ragazza, che non è stupida, ma che trova tanto difficile descrivere un condensatore, una volta messa sul binario delle formule corre come una locomotiva? Sono sicuro che era in buona fede quando, avendo scritto E=Ri, sosteneva di conoscere la legge di Ohm, ma perché poi non ha saputo calcolare la corrente in quella tale lampadina? E perché non trovava nulla di strano nell’inverosimile risultato? E quello sgorbio informe che era stata la stentata risposta alla richiesta di disegnare un elettroscopio a foglie, era proprio dovuto a inesperienza del disegno, come lei sosteneva, o a mancanza di qualsiasi immagine mentale dell’oggetto da disegnare?

La conclusione dell’articolo pare proiettata nel futuro:
È colpa dei programmi e del famoso abbinamento1? O dipende dal fatto che la matematica accompagna il ragazzo ininterrottamente dalle elementari alla Università, mentre, dopo le elementari, non si parla più di fatti fisici fino agli ultimi due anni di Liceo? È colpa degli insegnanti? O degli insegnanti degli insegnanti? Queste e tante altre possono essere le ragioni, e vorremmo che voi ci scriveste il vostro pensiero in proposito. Diteci, per favore, che cos’è che non va?
Che avrebbe pensato Enrico Persico se avesse letto delle perplessità di Eric Mazur, quando dopo aver proposto un test simile, una studentessa si alza e domanda:
Come devo rispondere a queste domande – nel modo che lei ci ha insegnato o come io penso usualmente a queste cose?
Mazur discute una delle domande poste nel test con gli studenti, spiega il concetto due volte, niente. Poi, una proposta che non  aveva mai fatto:
Perché non ne discutete fra voi?
Tre minuti di caos, poi gli studenti fanno:
Ok, andiamo avanti…
Eric Mazur si appassiona. Nasce l’Interactive learning, dove l’insegnante sfrutta l’interazione fra gli studenti per facilitare l’apprendimento. Pare che imparino tre volte di più, che  si attenui la quasi totale dimenticanza degli argomenti dell’esame precedente, che le ragazze colmino rapidamente il gap nei confronti dei ragazzi nelle materie tecniche.
Vi ricorda qualcosa tutto questo?

[1] Si riferiva all’abbinamento delle cattedre di matematica e fisica per l’insegnamento nei licei.

60 pensieri riguardo “Che cos’è che non va?”

  1. Lo confesso….stavolta l’ho fatto
    Son stato ad ascoltarvi con orecchio peloso (e occhio cisposo…)
    Grazie di condividere queste esperienze, ricordi, soddisfazioni e disagi
    Per chi, come me, nn insegna ma continua ad illudersi di poterlo fare un giorno, i vostri racconti sono come le tessere sparse di un mosaico
    Elementi caotici di una composizione che ancora nn so nemmeno quale tema avrà
    Ognuno di essi splende di una luce propria, che sia una “citazione”, una dissertazione, una contestazione, un’elaborazione di un vissuto
    Ogni azione è valide in sè solo per chi la compie, ma ascoltarla fornisce stimoli di curiosità e di approfondimento
    Questa è la magia che si mette in moto, Corso o Villaggio che sia, quando c’è predisposizione alla relazione
    Un’attitudine che è spesso la vera causa di ogni fallimento quando manca e che invece è propedeutica alla propria crescita interiore quando si trasforma in curiosità di conoscenza
    Nel mio piccolo e modesto “inquieto” vivere nn so ancora se da brande avrò l’opportunità di Insegnare ad apprendere a qualcuno, adulto o giovane che sia
    Sicuramente però, se lo farò, seguirò questa strada per accompagnare altri al loro Villaggio, nel luogo cioè dove incontreranno il loro futuro, in cui contano le competenze e le Conoscenze, ma più ancora il Viaggio
    Vi seguo….andiamo….

  2. Spero di non postare questo commento fuori tempo massimo, ma ho letto il post e relativi commenti solo stanotte. L’argomento mi interessa particolarmente anche perché coinvolge gli aspetti su cui polemizzo da una vita con le mie colleghe…

    Il problema dell’apprendimento effettivo, così come esemplificato dall’articolo di quasi sessant’anni fa citato da Andreas, deriva, secondo me, da qualcosa di profondamente innescato nella cultura occidentale così come si è evoluta nel corso dei secoli. Talmente profondamente che molte/i di voi, pur deplorandolo, mostrano di condividerne implicitamente i fondamenti. Questo “qualcosa” è, a parer mio la separazione tra la tekne (si scrive così?) e l’episteme e la supremazia di quest’ultima nella considerazione generale.
    Su questo tema rifletto da un bel po’ di tempo per due motivi: uno è a proposito del ruolo dell’educazione visiva, in primo luogo il disegno come forma di elaborazione del pensiero, nella formazione globale dei ragazzi; l’altro è nell’evoluzione storica del pensiero europeo così come si vede nella storia dell’arte. Nel quattrocento
    non c’è contraddizione tra osservazione della realtà e strumenti logici. E’ nel secolo successivo che cominciano a contrapporsi un approccio razionale, legato più al disegno, ad uno più empirico espresso attraverso la luce e il colore. Infine l’Illuminismo, due secoli dopo, nella sistematizzazione delle discipline così come l’abbiamo ereditata fino a oggi, sancisce la supremazia della teoria sulla pratica e del pensiero razionale (a questo punto “razionalista”) su quello empirico. La
    razionalità viene fatta derivare dai Greci e dai Romani, con una forzatura storica, e posta a fondamento della civiltà europea. In realtà, contraddittoriamente con la
    vocazione “rivoluzionaria” dell’illuminismo, tutto questo ragionamento è profondamente legittimista: considera inferiore tutto quello che possa ricordare un’attività
    lavorativa, disdicevole per i nobili, casta militare, politica ed ecclesiastica che veniva, istruita a “latinorum” e filosofia. Non a caso, ancora oggi, si insegna nelle scuole una storia prevalentemente politico-militare definendola “generalista”.
    In Italia, per colpa dell’impostazione scolastica neoidealista voluta e imposta dal fascismo, che ci troviamo tuttora sul gobbo (forse per pigrizia? O magari perché costituita da luoghi comuni e quindi facilmente accettabile…), e che ha spazzato via le concezioni pedagogiche positiviste (pensiamo, per esempio, a Vamba) presenti nella parte più avanzata della cultura del periodo post unitario, la preminenza su tutto della cultura “classica” è più forte che nel resto dell’occidente, dove è spesso mitizzata, come negli Stati Uniti, ma temperata da altre forme di pensiero.
    L’intellighenzia “progressista” dell’Italia repubblicana, con qualche illustre eccezione, si è sempre guardata bene dal mettere in discussione questa impostazione.
    Ogni tanto manifestano un guizzo di “modernità”, soprattutto quando si ricordano che il Paese manca di tecnici e figure “intermedie” (perché poi devono essere intermedie?), ma i loro figli li mandano tutti al liceo classico (da pronunciare arrotondando la bocchina).
    La mia ipotesi, e sottolineo “ipotesi” perché non vuole essere una ricetta infallibile, è che nell’istruzione non viene data abbastanza importanza allo sviluppo delle abilità percettive. Lo so che, insegnando “arte”, pensarla così mi conviene, però troppe volte sento ragazzi e, soprattutto, adulti non dare considerazione a ciò che vedono o sentono ma credere a quello che è scritto o detto soprattutto da una fonte ritenuta “autorevole”. Sembrerebbe che più “alto” è il curricolo posseduto e più facile è prendere cantonate. Pensiamo al caso delle “teste di Modigliani”. Era evidente che si trattava di sgorbi abbozzati male, anche solo a guardarle nelle foto sgranate dei quotidiani; tra l’altro, per iniziare una scultura si sbozzano prima i piani pricipali, non si traccia uno scarabocchio da una parte sola, ma l’evidenza non fa parte del percorso di studi di chi è accreditato per esprimere pareri.
    Lo scopo di dare nella scuola più importanza all’arte, alla musica e anche alla tecnologia, che dovrebbe recuperare i fondamenti “pratici” di quando era “educazione tecnica”, non è far diventare i ragazzi artisti, musicisti o inventori, ma abituarli a usare il cervello in modo più completo, a usare il pensiero anche nelle forme non verbali ma legate alle evidenze percettive.
    “…soprattutto della parte preponderante che mostravano di dare nella loro mente alla immagine del fenomeno reale più che alla sua rappresentazione analitica” dice il
    fisico Enrico Persico nel testo citato da Andreas. Come si educa a questa attitudine? E’ questa, secondo me, la domanda fondamentale.

      1. Non conosco “L’uomo artigiano”. Ci faccio un pensierino.
        Del video ho seguito solo la traduzione e con fatica perché troppo veloce. Ho trovato interessante l’ultima parte. Gli argomenti precedenti mi sembrano troppo peculiari degli Stati Uniti, ma, secondo me il deficit dell’attenzione viene trattato con troppa superficialità. Innanzitutto ne ho trovato forti sintomi in tempi e luoghi che escludono eccessi di stimolazione; poi il ritalin non anestetizza ma è un eccitante, una specie di anfetamina, perché certe sostanze, compresa la cocaina, aumentano la concentrazione (in Italia, 50 o 60 anni fa, gli studenti sotto esami prendevano la simpamina che era qualcosa di analogo). Detto questo, sono contrario all’uso di farmaci per studiare, anche perché i danni collaterali (perdita di appetito) sono maggiori dei benefici, ma questo non vuol dire che il disturbo non esiste… ma, soprattutto, trovo una bestialità associarlo al pensiero divergente.
        Infine, che il sistema scolastico ottunda la capacità di usare il cervello sono d’accordissimo. Soprattutto in Italia, ma, come ho detto prima, la fortuna del sistema gentiliano sta parecchio nel fatto che asseconda i luoghi comuni e questi sono presenti anche negli altri paesi. Soprattutto l’autoritarismo che è sempre imposizione dell’ottusità, oltre che profondamente diseducativo.

        1. P.S.
          Il titolo “L’uomo artigiano” mi ha ricordato un racconto lungo di Dick, “L’uomo variabile” che, anche se in modo paradossale, contiene già l’idea di un’intelligenza altra rispetto a quella accademica.

  3. Cosa non va? è meglio che non mi sia chiesto in questo periodo in cui la motivazione a continuare sulla strada intrapresa una decina di anni fa sta scemando drasticamente…
    Andreas ha ragione: si premia troppo spesso la mediocrità. Credo che chi si prodiga in tutti i modi per seguire i propri interessi, approfondire le proprie conoscenze, beh, presto o tardi si ritrovi a fare dei tristi bilanci…
    Vi leggo con interesse ma me ne sto un po’ in disparte, perché ho bisogno di riflettere. Ci sono cose che non riesco più a tollerare in questo sistema-scuola e la voglia di allontanarmi definitivamente si fa sentire forte. Manca, forse, il coraggio.

  4. Reblogged this on anto911 and commented:
    prof sto realmente annaspando cerco di capire come vanno le cose ma mi ci vuole tempo visto e considerato che tengo pure d’occhio le assegnazioni provvisorie e altre cose in famiglia vorrei trovare con il tempo qualche abitante del villaggio con cui discutere sul reperimento dei contenuti giusti a cui applicare con il tempo anche la mia azione

  5. Fortunatamente ci sono cose che ti fanno respirare! Oggi ho seguito due ellissime lezioni sulla didattica della matematica (ed una sulla matematica vedica) che mi hanno restituito un po’ (poca!) di fiducia sulle possibilità dell’insegnamento!
    Da lunedì torno: decisamente ristorato e con una bella carica di idee ed ispirazioni spero

    1. Bene, Francesco: mi fa piacere che tu ti stia accingendo a tornare tra noi mentalmente riposato e un po’, (poco, nèh!), più fiducioso nelle
      “splendide sorti e progressive”” dell’insegnamento… 😉
      Infatti, come ti avevo preannunciato, avrei da chiederti di fare qualcosa nella e per la Scuola che Funziona, il network di cui ora fai anche tu parte…
      Se ricordo bene quello che hai scritto in un tuo intervento, tu non sei un insegnante, ma un genitore che frequenta il mondo della scuola, reale e virtuale, per conoscerla più a fondo nei suoi aspetti positivi e negativi e per contribuire a migliorarla nell’interesse non solo dei suoi figli…
      E allora vorrei:
      1. che tu inserissi in Post del Blog alcuni dei temi che affronti nel tuo
      bellissimo “SusiDiario”;

      2. che partecipassi di tanto in tanto al forum, lanciando qualche nuova discussione, o intervenendo in discussioni che ti sembrassero particolarmente interessanti;

      3. Last but not least, che fondassi e animassi un nuovo gruppo:
      quello dei Genitori.
      Che ne dici???
      Chiedo troppo???

      1. Miiiii…. Mi chiedi se chiedi troppo?! Mi pare che chiedi.. TUTTO! 😉
        Scherzi a parte devo qualche risposta.
        PREMESSA) Non sarò “mentalmente riposato” (5 gg. di full immersion in un mondo solo marginalmente tuo non lo consentono!) ma rinfrancato, che è cosa piacevole ma differente 😉

        1) Sottolineato che si scrive Susy e non Susi (guarda che sono suscettibile eh?! ;-D) chiariscimi (meglio in privato magari) cosa intendi. Strumenti della piattaforma o considerazioni svolte sul blog o altro?

        2/3) La parte più dura: per contare i blog/forum che seguo o animo le dita di una mano non bastano, e per giunta non su UN tema, ma su un ventaglio di impegni e tematiche che va dalla divulgazione scientifica, alla politica attiva, al volontariato sociale, alla scuola. Assumermi l’impegno di altri rischierebbe di diventare una promessa disattesa ed io non amo affatto non mantenere i miei impegni!
        Anche in questo caso sarebbe bene che trattassimo la cosa un po’ più a fondo per chiarire richieste ed impegno.
        Evito di mettere qui la mia mail (solo perchè non diventi accessibile a tutti gli spammatori del mondo!), ma puoi contattarmi via mail da SusyDiario piattaforma oppure blog: prometto risposte anche se forse non rapidissime (fino all’8/7 sono full)

  6. Quanti ricordi e quante riflessioni risvegliano questi post. La scuola e la vita che si intrecciano inevitabilmente.Forse siamo, in parte, “il prodotto” di qualcuno (insegnante, genitore) che ci ha immaginato proprio così, nel bene e nel male.La profe innamorata del Manzoni e di Dante che si emozionava quando ci sentiva riflettere e confrontarci sulle loro opere e il profe di scienze che non perdeva occasione per chiamare alla cattedra la più bella del reame. Ricordi di “insegnantucoli” si alternano a ricordi di persone indimenticabili. Ancora e sempre la scuola come la vita.
    “Ognuno cresce solo se sognato”…mi pare sia più o meno così un bel verso di Danilo Dolci. Penso che la “molla” giusta per ogni insegnante possa essere questa: immaginare, sognare individui migliori e capaci di grandi cose…quando guardo i “miei” bambini provo a farlo.

  7. La nozione di apprendimento a cui si può far riferimento, se pensiamo alla competenza, si caratterizza come esito di attività autentiche a cui il soggetto prende parte e di cui riconosce a pieno il significato, e non come esito di apposita memorizzazione. la sua fondamentale caratteristica è il diretto coinvolgimento dell’individuo ed il prendere parte attiva, tanto da imparare con tutti e cinque i sensi e non soltanto mediante l’ascolto e lo studio solitario ( da Apprendimento e competenze: un nodo attuale http://www.edscuola.it/archivio/antologia/scuolacitta/ajello.pdf)

      1. Beh, non puoi, Andreas, affermare che i corsi di aggiornamento,
        o anche i corsi tout-court, sono dannosi, dopo averne attivati tu stesso
        più d’uno… in my modest opinion… 😉

  8. Molto interessante questa discussione, anche perché dalle materie scientifiche (matematica, fisica…) il discorso si è allargato fino alle discipline classiche, che io insegno, e che presentano lo stesso problema a livello di apprendimento:
    alcuni studenti, pur possedendo perfettamente le conoscenze morfologiche e sintattiche del latino e del greco, non riescono poi ad utilizzarle per decodificare e comprendere un brano di prosa o una poesia; quindi non c’è il passaggio dalle conoscenze teoriche alle competenze e alle abilità, che poi sono il reale obiettivo dello studio,
    spesso noioso e pesante, di tanta grammatica e sintassi.
    Ora non ho tempo, ma appena lo troverò, vi racconterò un piccolo esperimento didattico che, senza aspirare a diventare metodo, pure
    ha dato i suoi frutti… 😉

  9. Mi pare davvero bello che una questione posta nell’insegnamento universitario venga posta con naturalezza anche per l’insegnamento nella scuola primaria e secondaria. Bello e interessante.

  10. In questi giorni (che sono molto latitante!) sto svolgendo gli esami di maturità in un liceo ed il commento ricorrente mio e del mio collega di matematica e fisica di fronte alle risposte dei candidati ai quesiti della seconda prova di matematica ed alle domande di scienze e fisica del colloquio è che gli allievi considerano la loro preparazione scientifica come un qualcosa di completamente avulso dall’esperienza pratica e quotidiana; a fronte di formule e dimostrazioni imparate diligentemente a memoria si perdono appena li poni di fronte ad un banale esempio applicativo.
    Fra una domanda di astronomia ed una di mineralogia rimuginavo su cosa avrei potuto fare il prossimo anno per aiutare i miei allievi ad imparare in modo più consapevole, che cosa avrei potuto applicare delle varie metodologie, delle varie attività imparate in corso d’opera in questi ultimi due anni in cui ho partecipato a tanti aggiornamenti, a corsi sulla LIM, su MOODLE, al cMOOC, ora al LOPTIS, ecc .
    In questa mia “revisione mentale” capita il tuo post “che cos’è che non va?”; mi sono emozionata: Andreas mi ha letto nel pensiero! Se avevo bisogno di conferme le ho avute per l’ennesima volta: no, non potrò proprio più insegnare come si faceva vent’anni fa. Da troppe parti emergono idee, spunti, stimoli.
    Non parto proprio da zero perché qualcosa ho già provato, qualche esperienza tanto per saggiare il terreno, non tutto è andato bene, le variabili sono molte.
    E’ diventato insopportabile anche per me entrare in classe e sciorinare la lezione bla, bla, bla bla: guardo gli occhi dei miei ragazzi e mi sento un’incapace! Mi chiedo se noi insegnanti non dovremmo guardare di più gli occhi dei ragazzi e capire quando sono accesi per quel che stiamo facendo con loro!
    Proprio ieri leggevo di esperienze di SPACED LEARNING e di FLIPPED CLASSROOM, insomma devo saltare il fossato e cercare di rendere quotidiano quello che adesso sembra straordinario , e non solo con l’unica classe 2.0 che posso avere ma anche con le altre otto, se le energie me lo permetteranno.
    La cosa necessaria sarà una seria programmazione, lezione per lezione, perché dovrò centellinare i tempi e gli argomenti ( due ore alla settimana con classi di trenta allievi).
    Altra cosa necessaria saranno le scelte: spaced learning o flipped classroom? Blog di classe o moodle o piratepad o wikiplina o cos’altro? O a turno un po’ ed un po’?
    Terza cosa necessaria il confronto con i colleghi ed il supporto reciproco: da soli non si arriva da nessuna parte ed il villaggio insegna.
    Ultima cosa: devo finire gli esami di maturità, poi mi metto all’opera.
    Provare a rispondersi a “ cos’è che non va” non garantisce di riuscire a “far andare”, ma almeno ci si prova!

    1. Cara Giuliana, sono reduce anch’io dagli esami di maturità in un Istituto Tecnico con specializzazione Biologico-sanitaria e potrei sottoscrivere le tue parole una ad una. E lo stesso vale per il Liceo linguistico-classico dove normalmente presto servizio.
      Noi insegnanti di inglese osserviamo lo scivolone, proprio come racconta M.Antonella per il latino/greco, quando si passa dall’applicazione della regoletta all’esercizietto (uso il diminutivo apposta) al multitasking, ovvero alla produzione scritta. A creare problemi è il passaggio dalla pura applicazione della singola norma alla competenza.
      Nel passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria i nostri studenti, che sono creature strepitosamente capaci di adattarsi, passano da una visione abbastanza unitaria della conoscenza ad una visione estremamente frammentata. Molti docenti di scuola media/superiore si chiudono la porta alle spalle e creano il proprio universo. Anche con le migliori delle intenzioni, talvolta, perché “si fa così”.
      Per questo, proprio per abbattere gli steccati fra le discipline, a prescindere dagli strumenti tecnologici che si sceglie di usare (magari a turno, un anno per ciascuno ;)), penso che la risposta vincente siano i percorsi interdisciplinari, anche per un solo argomento, anche con un solo collega di buona volontà. Meglio se seguiti da una verifica condivisa, tanto per ribadire il punto!

  11. Ho letto con attenzione l’articolo ed i commenti scritti in precedenza….concordo in pieno con tante cose scritte. In realtà nonostante si parli tanto di metodologie innovative, apprendimento significativo..e bla bla bla..ancora oggi la scuola in molti casi continua a rimanere distaccata dalla realtà concreta, a svolgere un semplice ruolo di trasmissione del sapere, a fornire nozioni difficilmente spendibili nella vita concreta. Basti considerare l’enorme gap tuttora esistente tra il linguaggio degli alunni ( nativi digitali), le loro modalità di apprendimento e le metodologie didattiche di molti insegnanti della scuola italiana. Ci sono classi italiane in cui non è mai stato utilizzato un pc ed in cui l’insegnante si limita a spiegare la lezione alla lavagna, ad interrogare ad assegnare esercizi sul quaderno. E’ logico che in questo caso l’alunno non fa altro che memorizzare dati più che sviluppare competenze….dopo un pò questi dati cadono nel dimenticatoio. La vera competenza presuppone la capacità dell’alunno di utilizzare abilità e conoscenze per risolvere problemi in altri ambiti esperenziali. Ma in che modo è possibile ottenere tutto questo? Portando l’alunno fuori dalle quattro mura dell’aula scolastica, ponendolo a diretto contatto con la realtà, guidandolo ad osservare, a sperimentare, a trovare una risposta ai problemi tangibili che man mano emergono …dopo si potrà anche tornare nell’aula ma solo per un approfondimento o un confronto…
    Naturalmente quanto appena scritto si riferisce alla sfera della Scuola Primaria alla quale appartengo….certamente per quanto riguarda il latino, il greco ed altri tipi di apprendimento le cose sono molto diverse.

  12. Tra le tante cose che non vanno, mettiamoci anche quelle su cui gli insegnanti non possono intervenire, ma che ostacolano non poco!
    Durante la prova scritta di matematica all’esame (terza media), di fronte alla quasi disperazione di un alunno in panico perchè non riusciva a capire come trovare la superficie di un cubo, la mia collega sbotta:”Ma ragiona! Se tu dovessi ricoprirlo con della carta…!”
    Ma quando mai questi ragazzi ricoprono qualcosa con la carta? Continuiamo a parlare di “competenze”, ma è difficile quando intere generazioni non hanno mai applicato il ragionamento logico per far volare un aeroplanino di carta!

  13. Anche per l’insegnamento della filosofia c’è il problema della concretezza per evitare che restino solo concetti astratti e anche un po’ astrusi! In alcuni casi come per l’etica si possono costruire casi concreti su cui aprire con gli studenti una discussione. Ho seguito un corso CLIL in Inghilterra l’inverno scorso (progetto Comenius), la prof.ssa Hicks sosteneva la necessità di cambiare in modo sostanziale le modalità di insegnamento. Ce l’aveva in particolare con la lezione frontale – che secondo lei l’uso delle LIM rischiava di rafforzare – ,mentre bisognerebbe che l’insegnante lavorasse soprattutto a casa per preparare materiale, esercitazioni, ecc. su cui far lavorare in classe gli studenti mentre a quel punto in classe l’insegnante può sorseggiare “a cup of tea”. Cambiare le modalità di insegnamento è complicato ma certamente indispensabile per tutte le materie

  14. forse già ho inviato questo commento, ma non lo vedo comparire, quindi ci riprovo.
    Un mio collega, dottissimo e giovane, che insegna greco e latino, l’altro giorno ha postato queste frasi sul suo profilo fb:

    “Sintesi di un anno scolastico: quattro idiozie messe in croce come programma e nemmeno quelle ci si prende la briga di studiare. Se ne ricavano tre conseguenze assai istruttive:

    1) lo studente medio è più attento se il metodo di insegnamento è meramente repressivo e formale;

    2) la cura al contenuto culturale della lezione è una precomprensione del docente, ma non ha attinenza con la realtà;

    3) per quanto si possano abbassare gli standards e gli obbiettivi, lo studente medio si troverà sempre al di sotto di quei medesimi standards e obbiettivi. ”

    Colpisce, in queste affermazioni, l’amarezza e il senso di fallimento. L’analisi mi sembra completamente fuori centro, e non è dettata dalla stanchezza di fine anno, poiché sento fare spesso queste analisi. Gli ho girato l’articolo di sopra. Forse uno dei mali da cui guarire è questo senso di disfatta che attanaglia moltissimi insegnanti, anche giovani, anche coltissimi e potenzialmente molto validi. Questa attività di Iamarf aiuta a vincere lo sconforto; ma già mi immagino la blindata risposta del mio collega ad indirizzi diversi da quello tradizionale ed obsoleto. Questa enorme bufala che interpretano il cambiamento come “abbassamento degli obiettivi”… tante volte mi sono dovuta difendere da queste volgarità quando tento qualcosa di diverso. Insomma: la cosa più difficile è vincere questa omologazione culturale che resiste al cambiamento, che lo spaccia per imbarbarimento

    1. Quando avevo iniziato latino a scuola media, mi annoiava a morte quell’indirizzo “tradizionale ed obsoleto” di cui parli, Paola. Perciò avevo provato a leggere l’Eneide nell’originale. Ma mi ero arenata dopo le prime tre parole: “Arma virumque cano”, perché il dizionario che avevamo a casa dava i verbi all’infinito e a scuola avevamo soltanto visto i verbi in -are che fanno -o alla prima persona e quelli in -êre che fanno -eo, non ancora quello in -ere che fanno -o.

      Perciò per “cano” avevo cercato “canare” che non c’era, “canus” nel caso fosse un ablativo di un nome o aggettivo – c’era ma non c’entrava – e avevo abbandonato, continuando ad annoiarmi sull’appena sufficiente a latino per i 5 anni successivi di scuola media poi liceo. Finché un giorno, per una prova scritta, l’insegnante ci diede un altro passo dell’Eneide. Stupore: capivo tutto senza nemmeno dover fare l’analisi della sintassi. Tutta la roba teorica che (non) avevo studiato prima ad un tratto mi era andata a posto nella testa, una volta realizzato che il latino era una lingua come le altre, che serviva dire cose, e anche cose bellissime – mica soltanto un rompicapo di regole per annoiare gli allievi.

      Non ho mai insegnato latino, solo francese e inglese come lingue 2, però anche lì, ho visto tante volte allievi svogliati avere lo stesso momento di realizzazione.

      Nei primi anni 2000, pensavo: “Con la possibilità di fare manuali digitali, cambierà la didattica anche a latino.” Mica tanto, all’inizio. Un gruppo di insegnanti universitari svizzeri avevano sfornato un corso chiamato “Latinum electronicum” che faceva sembrare il mio manuale delle medie un miracolo di innovazione didattica: esercizi grammaticali di una monotonia ripetitiva da spaccare le pietre, e nel flash di allora, inutilizzabile dai ciechi, e pesantissimi da caricare per tutti.

      Ma è anche nato il progetto Perseus della Tufts University. Non un manuale, ma una digitalizzazione dei classici, con aiuti lessicali e grammaticali, iconografia, saggi, dove ciascuno si può fare il proprio percorso. Oggi se si mette “cano” nel loro dizionario latino, si ottiene subito:
      “cano | Lewis & Short, Elem. Lewis | 19,378 | 1,762 | to utter melodious notes, make music, sing, sound, play” con link di approfondimento su tutte le parti salvo la traduzione. E quello su cano porta a una scheda con statistiche – e anche i significati di “canus”.
      Oppure si può partire direttamente dai primi versi dell’Eneide dove ogni singola parola è linkata a una scheda come prima, ma contestualizzata. Quella per “cano” dice anche che su 302 utenti che hanno votato sul ruolo sintattico della parola, il 78.3% ha optato per il verbo alla prima persona singolare dell’indicativo presente. E chi non è d’accordo può votare anche lui/lei.

      Certo, il tuo collega potrebbe obiettare che l’interfaccia del progetto Perseus è in inglese. Però le sue pagine si traducono comprensibilmente se non elegantemente con Google traduttore. Poi è un progetto Open Source per il software, sotto licenza creative commons “attribuzione, condividi allo stesso modo” per i contenuti, quindi volendo, si potrebbe tradurre collaborativamente, anche coinvolgendo studenti. Ma la cosa più importante è la dimostrazione che i mezzi digitali possono facilitare enormemente la personalizzazione dei percorsi di apprendimento, e non solo a ripetere in più scomodo e barboso l’approccio dei manuali ottocenteschi, come in quel “Latinum electronicum” .

      Però ovviamente, se tiene assolutamente a perpetuare l’approccio del docente della canzone Rosa di Brel (1962), niente lo potrà far demordere. Ma speriamo di no.

  15. Credo che la teoria si debba integrare con la pratica e questo non in ordine sequenziale: è il nostro atteggiamento di fronte al problema ciò che dobbiamo modificare e dobbiamo non insegnarlo, (queste cose non si insegnano si vivono) ma passarlo ai nostri studenti; mi ci butto perchè è comunque una risorsa spendibile, anche se mi porto dietro ( e io ne so qualcosa) un profondissimo senso di inadeguatezza e di inferiorità verso chi è così bravo da far paura e l’ansia di non riuscire ad uscirne. Questo costa fatica e tanta e molto spesso vien da dire: ma chi me l’ha fatto fare! Poi però quando giungi alla meta e quasi manco capisci come hai fatto ad arrivarci ti stupisci di avercela fatta. Questo non mi è mai accaduto prima:è da quando frequento questi percorsi (alla IUL e al cMOOC) che inizio a ragionare così. Avrei voluto scrivere un post intitolato Pesce fuor d’acqua perchè ultimamente non capivo come avrei dovuto interagire e cosa fare per questo percorso che sta continuando; adesso mi sento un po’ più dentro e terminati gli esami IUL e dopo una settimana di disintossicazione informatica ( che ci vuole per tutti credo) sarò pronta a ripartire.

  16. Il titolo di questo post cade a fagiolo: in pieno Esame di Stato, è una domanda ricorrente…se prima del punto di domanda si mette una virgola alla quale far seguire “in matematica”…
    Ok! Sono abbastanza convinta che l’interazione tra studenti possa funzionare …ma è nato prima l’uovo o prima la gallina!? Indubbio che per studiare bisogna prima apprendere ma è anche vero che se non studio…”su che” apprendo!? Ma per studiare non ci sono device, software, web, apprendimento cooperativo che tengano…lo STUDIO è sempre uguale a se stesso: sacrificio, tempo necessario per…, grinta, voglia di…, motivazione, curiosità, interesse etc. etc. Lo studio sembra essere INTERESSANTE solo se concreto…e concretezza va sempre più a braccetto con UTILITA’ (a cosa serve studiare!?). Pare che ormai si debba dare precedenza assoluta a ciò che SERVE…è ancora di moda fare qualcosa per il semplice gusto di farlo!? E’ ancora gratificante risolvere un problema per il solo gusto di risolverlo!?

    Partendo dal presupposto che senza la Matematica si vive benissimo…cos’è che non va se all’Esame di Stato uno studente non sa nemmeno riconoscere che una certa equazione rappresenta una retta!?

    1. Sì ma non si può creare l’interesse dicendo che si deve essere interessati. L’interesse emerge se si creano le condizioni adeguate. È qui che l’insegnante diviene educatore. Fin da piccolo sono stato molto curioso ma la scuola solo una volta su dieci ha fabbricato sulla mia curiosità, le altre nove l’ha ignorata o l’ha soffocata. E ho contraccambiato con una consistente inimicizia, se non disprezzo. Ho studiato in maniera approfondita solo ciò che mi interessava – molto più di quanto richiesto a scuola – e ho trascurato il resto. Un ragazzo sveglio ci mette poco a fornire la sufficienza richiesta dagli insegnanti (quelli burocratizzati) e dalla famiglia, senza imparare quasi nulla. La vera educazione mi è stata impartita dalla pratica – amavo costruire roba – e dal romanzo, di cui ero lettore vorace. Qualche insegnante l’ho amato, uno su dieci, ad esempio quello di scienze.

      Interessante il fatto che ho amato insegnanti che erano fra i più severi. In principio mi sono domandato perché. L’ho capito solo da pochi anni. Sono quelli che erano sì severissimi, ma ci amavano. Quella di italiano-latino-storia, si chiamava Papini (!), ci terrorizzava letteralmente, una donna di un metro e cinquanta con gli occhiali pince-nez, un frammento di storia vivente del primo novecento. Se ora amo la poesia non è per la tortura di studiarle a memoria senza capirne il senso e di ripetere a pappagallo le note, la amo anche e forse molto perché la professoressa Papini si commuoveva declamando certe poesie, ritta presso la cattedra, con quel suo buffo cappelletto. Che un adulto, così lontano da me e così terribilmente austero, potesse infiammarsi e commuoversi a quel modo, mi fece una grande impressione. Mi faceva troppa paura perché potessi contraccambiare, ma l’effetto è stato duraturo e potente. Ora la amo profondamente. E così pochi altri.

      Qua e là leggo di maturità. A me è sempre sembrata una farsa ipocrita. Mi sembrava già tale a diciotto anni. Per l’insopportazione del clima che mi pareva idiota, studiai pochissimo, fra scritti e orali buttai nella borsa da tennis l’unico libro che mi pareva interessante, quello di scienze appunto, e andai a fare un torneo fra gli scritti e gli orali. Il torneo andò male ma alla maturità presi un voto buono, anche se non massimo. La cosa mi parve irrilevante. E mi pare ancora irrilevante, se con dei compagni di liceo ci siamo recentemente rammentati come un altro, scavezzacollo molto incline al furto – oggi dirigente di successo – a tutto interessato fuorché alla conoscenza, abbia preso il massimo.

      Quello che mi ha sempre irritato è il fatto che non si voglia ammettere che basta un po’ di opportunismo e di furbizia per ottenere ottimi risultati scolastici – si riveda il pezzo di Papini. Questo è un sistema che massacra i migliori e premia la mediocrità.

    2. Ormai l’evoluzione delle specie è accettata universalmente da tutta la comunità scientifica. Che senso ha chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina?
      (sempre a proposito di
      “competenze” intese anche come conoscenze trasferibili).

  17. “Che cos’è che non va?” E’ una domanda che alla fine di ogni anno scolastico mi pongo, ritenendomi non pienamente soddisfatta dei risultati raggiunti dai miei alunni. Quanto di vero o quanto di impossibili pretese? In effetti le considerazioni fatte dal prof Mazur e dal prof Persico sono condivisibili e applicabili anche in altre materie e ad alunni di altre fasce di età. Da quando ho avuto la fortuna di insegnare in una classe 2.0, ho cercato di cambiare la metodologia di insegnamento creando, insieme ai ragazzi, nuovi percorsi di apprendimento. Sicuramente è migliorato il rapporto alunno – insegnante, ugualmente però rimane molto difficile, per gli studenti, applicare le conoscenze acquisite in contesti diversi da quelli proposti. Ho maturato la convinzione che il percorso di condivisione e rielaborazione dei contenuti insieme ai ragazzi sia il metodo più efficace, anche se nell’applicazione richiede tempo, costanza e coerenza. Questo nuovo modo di insegnare, ha rappresentato uno stimolo per rimettere in discussione il mio ruolo di docente e gli strumenti utilizzati nella didattica. Sono stata confortata da importanti riscontri in termini di attenzione e applicazione da parte dei ragazzi. Inoltre, l’occasione di apprendimento e confronto all’interno di questo cMOOC ha rafforzato in me il desiderio di perseguire con ogni sforzo questa nuova frontiera.

    1. Che bella quella lettera Andreas!
      E che belli i tuoi ricordi dei prof…ho capito anche perchè mi sento così “assillante” con te: probabilmente è la paura di perderti e il sapere già che non avrò il coraggio di reincontrarti a cena tra un pò di anni!
      😉

  18. Sarà stupido, ma questo post mi fa pensare sempre di più che bisognerebbe cominciare PRIMA a lavorare e viaggiare e POI tornare a studiare, sicuramente con maggior “sete di sapere”, le discipline scolastiche che trovano disinteressati la maggior parte dei ragazzi.
    Mi vengono in mente tre esempi lampanti, oltre la matematica di Valotto: l’inglese, il latino, la storia dell’arte.
    Per non parlare di storia e geografia che spesso sono abbandonate ad insulse reiterazioni anche dagli insegnanti!
    Una volta ho conosciuto un tizio che sosteneva che la vita sarebbe stata più giusta se svolta al contrario: da giovane devi andare in giro e impegnare le tue forze per darti da fare, per fermarti 8 ore in un banco e recuperare tutte le informazioni e le riflessioni di cui hai bisogno c’è tempo…ma la mente avrebbe lo stesso tipo di reazione?
    Che argomento difficile, Prof. sembrava così ovvio, ma sono 10 minuti che sono qui a pensare…rileggo il post e mi chiedo: e se lo studente non riesce a partecipare e si sente inadeguato in tutto quel caos?

    1. Mica si dice di trasformare l’ordine in caos! Si suggersisce di inserire momenti di caos nell’ordine, come fa la natura. Solo la burocrazia pretende di ridurre tutto all’ordine, o un pazzo.

  19. almeno in questo ambito la ricerca didattica, le sperimentazioni in atto anche da parecchi anni e finalmente la riforma hanno ovviato.. penso ai progetti ‘Matematica nella realtà’ e ‘PROFILES’.
    Tanto per fare un esempio, quest’anno in classe (terzo liceo scientifico) abbiamo calcolato il numero di biglietti da vendere necessariamente alla festa di fine anno per poter coprire i costi fissi e variabili di affitto sala, consumazioni, SIAE ECC.

  20. Le formule sono ciò che normalmente la scuola insegna, ciò che invece fa raramente è mettere alla prova le capacità di problem solving e, quando lo fa, tende normalmente a farlo in maniera astratta. Mi viene in mente quando mi chiedevo, al liceo, che senso avesse la trigonometria: se non devi calcolare l’alzo di un cannone o l’altezza di una torre sono solo formule. Ho capito la correlazione lavorando sul software con cui mi sono laureato; la parabola usando un accendino solare a specchio e pensandoci potrei citare innumerevoli altri esempi. Vale anche per l’informatica: ho avuto tirocinanti che conoscevano Java meglio dell’italiano, ma sapevano usarlo quasi solo per fare calcoli,
    Chiudo dicendo che lo stesso vale per i corsi di “informatica per utenti” che ho fatto per quasi trent’anni (e qui rispondo alla domanda che immagino retorica): 4 ore di elenchi di comandi ed esempi di applicazioni servono ad accumulare un bel quantitativo di nozioni atte ad essere scordate entro le 4 ore successive; fare le cose un po’ scoprendo ed un po’ aiutati è certamente più lento, ma ciò che si è appreso difficilmente si dimentica

    1. Ciao Francesco e Andreas,

      La tua conclusione, Francesco, mi ricorda un incidente buffo in una scuola media dove ho insegnato 2 anni alla fine degli anni 90. Il primo anno mi era stata appioppata l’etichetta del tutto immeritata di “donna che di informatica, se n’intende”: io il computer lo usavo solo come macchina da scrivere con memoria, ma avevo racimolato un po’ di concetti eterocliti perché avevo iniziato a tradurre testi sull’uso delle TIC per la formazione e avevo messo come condizione di poter far domande su tutto ciò che non capivo. Più una solida capacità a bluffare in superficie sviluppata durante una formazione di interprete, che mi aveva consentito un intervento per caso mirato in una discussione tra i due docenti – maschi – responsabili dell’aula di informatica.

      L’anno dopo, ad agosto, poco prima dell’inizio delle classi, incontro per strada L., la bibliotecaria della scuola. Mi chiede di darle una mano: aspetta un e-mail importante dal Servizio bibliotecario ticinese (SBT) ma non riesce ad acchiappare la connessione dal computer della biblioteca: “Quando ci provo c’è uno strano messaggio”.

      A L. invece la comunità fallo-didattico-geek locale aveva appioppato l’etichetta di “donna che con l’informatica combina solo casini”, ed è vero che malgrado diversi corsi d’aggiornamento in materia, ne combinava occasionalmente, ma niente in confronto di mio marito. Quindici anni prima, nostra figlia, in seconda elementare, aveva dovuto fare un disegno su “i miei genitori”. Aveva ritratto il babbo seduto davanti al Mac con un fumetto che diceva “Clo-od! Aiuto!! È successo un disastro!!!” e me in piedi con la bocca in giù e un fumetto con “Uffa!!!!”

      E con gli anni aveva sviluppato quella capacità a livelli impressionanti. C’era stata la telefonata furente della responsabile dell’ufficio stampa Rizzoli, nel 96: “Guido è appena passato da me con una prefazione che doveva consegnare su un dischetto, mi ha chiesto di usare il mio computer perché voleva cambiare una frase. Prima ha mandato in tilt quello, poi quelli di due colleghe. Perché non lo porti ogni tanto a Segrate a rovinare i computer della Mondadori?”

      Perciò la fama di cyberdisastro fatta a L. non mi impressionava più di tanto, però lei sì, purtroppo. Andiamo in biblioteca. Lei prova a connettersi. Appare un messaggio che non capisco, salvo che parla di proxy e di una porta con un numero. Ricordo che il bibliotecario di un’altra scuola s’era lamentato che l’SBT aveva fatto bloccare quella porta su tutti i loro computer.

      L. ha già provato a chiamare l’SBT che l’ha rimandata agli admin del server cantonale che l’hanno rimandata all’SBT. Riprovo: idem con l’SBT, ma mi va meglio con la persona del server cantonale:

      – Allora basta disattivare il proxy. In Explorer…
      – Mi scusi, ma l’SBT ha tolto Explorer dai computer dei bibliotecari, loro usano Netscape.
      – Aspetti, devo guardare con Netscape, è da tempo che non lo uso.
      – Senta, se lei ci autorizza a disattivare quel proxy, ci autorizza anche a cercare come? Poi chi trova per primo chiama l’altro?
      – Sì, facciamo così.

      L. mi dice: “Fai tu, io vado a incollare etichette sui nuovi libri.” Io: “Col corno, siediti qui: lo farai tu. Vedi quel punto di domanda in cima a destra di Netscape? È per l’aiuto. Cliccaci sopra, poi scrivi “proxy” nella casella di ricerca e vediamo cosa viene fuori.” E tra i risultati, L., essendo altamente alfabetizzata da bibliotecaria, identifica subito la spiegazione pertinente. Richiamiamo il signore del server cantonale, lui ci dà l’OK. L. disattiva il proxy, legge le sue mail. Poi le dico: “Adesso, perché non mandi una mail a quelli dell’SBT spiegando come hai fatto, perché ci saranno tanti altri bibliotecari bloccati come te, così quelli dell’SBT sapranno rispondere loro – e tu avrai una copia nelle mail spedite.”

      Fa così. Non è che questo le abbia subito scrollato di dosso la fama di cyberdisastro – ci vuole di più a distruggere preconcetti – ma almeno non gliene importava più tanto, adesso che aveva capito come usare quel punto di domanda in cima a destra dei programmi.

      Però a distanza di 15 anni, mi chiedo ancora come mai in tutti quei corsi di aggiornamento di informatica per bibliotecari che aveva subito, nessuno glielo aveva mai mostrato…

      1. Niente di più dannoso delle comunità fallo-didattico-geek, e anche dei corsi di aggiornamento in informatica, e anche dei corsi di aggiornamento, e anche dei corsi…

        1. “Niente di più dannoso delle comunità fallo-didattico-geek, e anche dei corsi di aggiornamento in informatica, e anche dei corsi di aggiornamento, e anche dei corsi…”
          _____________________________

          Attento, Andreas!
          Abbiamo appena terminato, tu e noi, con reciproca soddisfazione,
          un corso cMOOC…

          1. 😀

            Ma se guardi bene, ciò che abbiamo tentato di sperimentare insieme è piuttosto diverso rispetto a ciò che chiamiamo comunemente “corso”, specialmente nel grande danaroso mondo dell’aggiornamento professionale.

            Stavo giusto trascrivendo un passaggio di Ivan Illich:

            L’apprendimento è l’attività umana che ha meno bisogno di manipolazioni esterne. In massima parte, non è il risultato dell’istruzione, ma di una libera partecipazione a un ambiente significante. Quasi tutte le persone imparano meglio stando dentro alle cose.

            I miei sono tentativi goffi di attuare idee del genere, nelle quali mi sono ritrovato.

            Mi accorgo ora del nesso beffardo fra ciò che ho appena scritto e il compito che mi attende domani l’altro: un ciclo di lezioni di aggiornamento. Quattro ore a botta! L’esatto contrario di quello che farei se dipendesse da me. Son giorni che più m’arrovello più capisco di voler solo suggerire l’insensatezza di un metodo, ma dovendo usare quel medesimo metodo. Una beffa diabolica. Affrontare un sentiero da muli con la bici perché lo prevede il regolamento. Non riesco a articolare un programma, una scaletta. Sento il vuoto dentro. Scopiazzo frasi che mi ispirano. Vorrei prima chiedere a quella gente – Chi siete voi? – forse farò così, poi si vedrà.

              1. Continuo a scopiazzare, mi fa bene…

                Quello che lui cercava era sempre davanti a sé, e anche se si trattava del passato, era un passato che cambiava man mano che avanzava nel suo viaggio perché il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto. (Italo Calvino, Le città invisibili)

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