Soverchiato dalla ricchezza che torna indietro. Sessanta elaborati da leggere, fra formazione primaria, educazione degli adulti e educatori. Alcuni compositi, con blog o minimooc da leggere. Poi 240 diari prodotti dal tirocinio diretto online in emergenza covid. E detta così è solo massa, solo un pacco di lavoro brutale da smaltire.
E già al primo lavoro ti trovi travolto da passione, ricchezza, profondità, inebriante riflesso dell’altro. E ci stai mezz’ora, esplorando, riflettendo e rispondendo. Ed è solo il primo. Quando finirò? Non lo so ma non è più fatica, solo meraviglia. E il lavoro si fa leggero.
Qualcosa andrà reso di tutto questo ma ora non ho tempo. Per ora prendo a caso un brano, da uno dei diari del tirocinio, di cui parleremo successivamente. Prima però voglio esprimere gratitudine alle colleghe e ai colleghi di Scienza della Formazione, Raffaella Biagioli, Maria Ranieri e molti altri che non sono qui per avermi offerto nutrimento e opportunità.
Dal diario di Alice, che ho letto qualche giorno fa:
“Finalmente. Finalmente qualcuno mi vede. Finalmente ho avvertito uno spiraglio, un filo d’aria passare in questo senso di isolamento che mi stringeva alla gola. E no, non era un isolamento dovuto solo alla quarantena o alle misure restrittive imposte per il contenimento del virus Covid-19, è un altro tipo di sensazione quella di cui parlo. È una sensazione di solitudine, di smarrimento e di fragilità più ampia. Tutte queste parole sono venute fuori oggi nel primo incontro del laboratorio di riflessione per la costruzione della personalità docente, collegato al tirocinio diretto in emergenza coronavirus. Non mi sento sola solo perché non posso vedere altre persone, almeno non tutte quelle che vorrei. Mi sento sola perché di fronte ad un’emergenza come questa, di fronte ad una pandemia mondiale vedo gente intorno a me che continua a pensare solo ai libri, al capitolo da fare o da eliminare dal programma. Ho letto messaggi di persone giovani, su gruppi di WhatsApp che incitavano a non “polemizzare”, ad usare altri spazi. Sarà che è da quando sono venuta al mondo che provo piacere nel “polemizzare” (certo… non a caso, non per forza), sarà l’effetto dell’isolamento forzato a cui siamo stati sottoposti, ma questa situazione di estrema passività intorno a me in questo preciso momento storico mi ha fatto rabbrividire. Come mi ha fatto rabbrividire il fatto che professori intorno a noi si comportassero come se niente fosse. Ogni giorno mi chiedo se questa enorme crisi che ci ha travolto non sia un’occasione per cambiare le lenti attraverso cui guardiamo il mondo, o perlomeno per renderci conto del fatto che portiamo sopra il naso delle lenti. E allora perchè non discutere di come queste lenti modificano la nostra percezione del mondo? E la nostra percezione è l’unica possibile? Intorno il tempo si è dilatato con il virus per poi riaccartocciarsi su se stesso… a volte ho la sensazione che molti di noi abbiano semplicemente sostituito attività automatiche con altre. Fa troppa paura vivere il senso del vuoto. Fa paura ritrovarsi smarriti, non è simpatico, non è che è una cosa che vai a sbandierare a giro. Meglio avere certezze granitiche, meglio avere schede da caricare su classroom due volte alla settimana, meglio portare avanti il “programma”. Poi oggi uno spiraglio di luce. Oggi ho sentito per la prima volta provenire dall’ambiente universitario delle parole umane. Oggi ho sentito parlare il professore di smarrimento, di contraddizioni, di cercare un senso, dell’importanza di essere una comunità. E mi sono commossa. Perché anche se eravamo tutti su meet, anche se non avevo occhi e non avevo voce, ma ero solo un’iniziale dentro un pallino colorato insieme ad altri 200 pallini, io mi sono sentita vista. Ho sentito che quelle parole erano autenticamente per noi, per noi tutti. Possiamo dirlo quindi che abbiamo paura, possiamo dirlo che il problema va ben oltre questo tirocinio diretto, possiamo dirlo? Sì, oggi abbiamo potuto dirlo. Ed è stata una liberazione. Una liberazione che non mi solleva solo dal senso di oppressione, ma che mi permette di alzare lo sguardo e di pormi nuovi interrogativi rispetto alla didattica. Se tutto questo sta succedendo a me, in questo momento, se mi sento senza riferimenti, senza certezze, ma provo una sensazione di riconoscimento importante attraverso l’incontro su meet di oggi, allora come si sentirà un bambino di scuola primaria di fronte a questo epocale cambiamento? Come si sente un bambino su meet in mezzo agli altri bambini durante una lezione a distanza? Come possiamo pensare a mantenere una didattica tradizionale mentre il terreno ci crolla sotto i piedi? Come trasformare il senso di frustrazione che sicuramente emerge in questo nuovo scenario? Possiamo prenderci il diritto di dire che non sappiamo davvero come fare? Oggi ho capito che non solo è giusto prenderci questo diritto ma forse è un nostro dovere, di fronte alla responsabilità collegate alla nostra professione (ma anche alla nostra natura umana) e di fronte ai bambini.Quindi posso creare uno spazio dentro di me, un giaciglio in cui posso sedermi, dire che no, non va tutto bene, ma posso mantenere la calma e riflettere. E la cosa bella e che posso farlo in un gruppo pieno di altri pallini colorati con l’iniziale nel mezzo (F cosa sarà… Francesca? Magari è la rappresentante. F di Filippo? No..non ci sono abbastanza uomini in questo corso di laurea. Ah no, è F di Federica? Ma chi è, chissà che faccia ha..), che non posso vedere in faccia ma che sento collegati a me nella condivisione, nostro malgrado, di questa situazione.“