English (Traduzione di Ilaria Montagni)
Nel post precedente, Coltivare le connessioni (I), ho cercato di mettere in evidenza il ruolo fondamentale delle reti in un’evoluzione che non ha mai visto soluzioni di continuità.
Le reti sono apparse nella scienza occidentale quando negli anni 20 del secolo scorso gli studiosi di ecologia hanno descritto gli ecosistemi come comunità di organismi connessi fra loro in una rete definita dalle relazioni alimentari fra le specie.
Successivamente le caratteristiche delle reti sono state riconosciute in molti altri contesti: per esempio gli organismi possono essere pensati come reti di cellule, le cellule come reti di molecole e via dicendo.
Le generalizzazioni si susseguono e le terminologie contaminano ambiti molto diversi. Per esempio Google trova più di quattro milioni di siti cercando “economic ecosystem”. Infatti oggi il termine ecosistema è molto comune nella descrizione dei sistemi economici.
Dire che mediante le reti si possono spiegare i misteri della vita è certamente esagerato tuttavia dove c’è vita ci sono reti. Fritjof Capra chiama living networks le reti che formano organismi viventi [1]. Non tutte le reti sono “viventi”. Le reti viventi sono quelle in grado di autogenerarsi, cioè di impiegare i propri componenti per trasformare o costruire nuovi componenti.
Il panorama scientifico si è molto complicato. Gli strumenti della scienza del IXX e del XX secolo si stanno rivelando insufficienti per tentare di comprendere e descrivere il mondo in cui viviamo. Forse, il risultato dell’indagine scientifica più significativo nel XX secolo è stato proprio quello di riconoscere i propri limiti in una grande varietà di campi. Un fatto che ha indotto la comunità scientifica a revisionare l’insieme dei concetti, dei valori e dei metodi condivisi per definire i problemi e ricercare la loro soluzione, il processo che Thomas Kuhn ha descritto come slittamento del paradigma del metodo scientifico.
Ci troviamo così di fronte a vari nuovi campi di ricerca che condividono il tentativo di affrontare in qualche modo la complessità: teoria dei sistemi, sistemi complessi, caos, frattali, dinamica non lineare, sistemi cognitivi, pensiero sistemico per menzionarne solo alcuni.
In misura variabile, in tutti questi ambiti si rinuncia all’approccio riduzionistico, che ha dominato il metodo scientifico prima del XX secolo e mediante il quale si scompone un sistema nelle sue parti confidando di poter dedurre il comportamento dell’insieme a partire da quello delle singole parti.
Questo modo di guardare all’insieme senza recidere le relazioni di ogni sua parte con il contesto rappresenta l’approccio olistico all’indagine scientifica. Come sempre succede quando si presenta una dicotomia bisogna stare attenti a non restarci intrappolati e il rischio è notevole perché oggi le diatribe fra “riduzionisti” e “olisti” abbondano.
Deve essere chiaro che non voglio condurre il lettore né da una parte né dall’altra di questa ennesima dicotomia ma solo sottolineare come nel corso del XX secolo l’uomo sia stato costretto ad accettare un netto cambio di paradigma nella metodologia dell’indagine scientifica e in generale nella visione del mondo.
Si tratta di un cambio di paradigma che è tutt’altro che indolore e che è anche ben lungi dall’essere accettato dalla comunità scientifica e interiorizzato dalla comunità in generale. La via della conoscenza non è lineare. I semi delle novità germogliano quando il terreno che li accoglie è pronto. Una nuova visione che può folgorare alcuni può risultare inaccettabile per altri. Quello che ancora facciamo fatica ad accettare oggi, nel 2009, può essere stato l’oggetto dell’intuizione di un poeta due secoli prima. Ecco per esempio cosa ha scritto Giacomo Leopardi il 4 ottobre del 1821 a pagina 1837 del suo Zibaldone dei Pensieri [2]:
Scomponete una macchina complicatissima, toglietele una gran parte delle sue ruote, e ponetele da parte senza pensarvi più; quindi, ricomponete la macchina, e mettetevi a ragionare sopra le sue proprietà, i suoi mezzi, i suoi effetti: tutti i vostri ragionamenti saranno falsi, la macchina non è più quella, gli effetti non sono quelli che dovrebbero, i mezzi sono indeboliti, cambiati, o fatti inutili; voi andate arzigogolando sopra questo composto, vi sforzate di spiegare gli effetti della macchina dimezzata, come s’ella fosse intera; speculate minutamente tutte le ruote che ancora lo compongono, ed attribuite a questa o quella un effetto che la macchina non produce più, e che le avevate veduto produrre in virtù delle ruote che le avete tolte ecc. ecc. Così accade nel sistema della natura, quando l’è stato tolto e staccato di netto il meccanismo del bello, ch’era congegnato e immedesimato con tutte le altre parti del sistema, e con ciascuna di esse.
Con l’intuizione che solo i poeti possono avere, Leopardi anticipa il cambio di paradigma nella visione del mondo che ancora oggi, nel XX secolo, facciamo fatica ad accettare.
Le reti rappresentano un elemento centrale nella nuova visione del mondo, quasi una risposta all’obiezione fatta da Giacomo Leopardi due secoli fa.
Torniamo dunque a considerare Internet, la rete che ormai rappresenta la principale infrastruttura per la comunicazione, alla quale tutti possono accedere con una varietà di strumenti di uso comune, non solo col computer [3].
Ebbene, internet è una “living network” perché ha capacità autogenerative. Le tecnologie che stanno alla base della gran parte delle funzionalità di internet si sono sviluppate proprio grazie alle caratteristiche della rete stessa. Solo per fare un esempio, il più importante software di gestione delle pagine web che viene utilizzato nei web server è Apache, un prodotto open source e quindi un prodotto di un componente peculiare di internet.
Internet è una cosa viva come vive sono le innumerevoli comunità che ospita. Ve ne sono di buone e di meno buone, ve ne sono di tutti i tipi. Sono vive perché nascono e muoiono, perché hanno tutte una certa tendenza alla sopravvivenza, perché si possono trasformare, scindere e riunire. Sono vive perché sono comunità umane. Se volete, potete stabilire connessioni con una qualsiasi di esse e con quante volete.
La quantità di opportunità offerte da internet è sconvolgente e non era immaginabile fino a 10 anni fa. Eppure sembra prevalere nell’opinione delle persone, e forse con ragione, l’idea di una cosa effimera, dove la quantità prevale sulla qualità, la stupidità sulla profondità.
È veramente così? Laddove c’è massa è inevitabile che la qualità scompaia e prevalga il peggio? Internet, con la sua straordinaria capacità di fluidificare l’informazione, è la chiara dimostrazione di questa triste tesi?
Devo dire che, considerata la nostra situazione su questo pianeta, l’idea che tutto ciò che concerne la massa debba essere negativo mi mette alquanto a disagio. E poi, dobbiamo dimenticare alcuni fenomeni straordinari come il software open source, il sistema operativo Linux, IBM che fa affari con mondo open source, come tutte le altre grandi aziende IT, le multinazionali che fanno ricerca collaborando con la massa, la possibilità per gli autori di decidere quanto e come rendere libero delle proprie opere con le licenze Creative Commons?
Tante persone, dopo avere udito qualche mia descrizione di questi fenomeni, dicono: “Ma queste belle cose riguardano altri, quelli che sanno, quelli che possono … io non ho questi strumenti, non ho le competenze”.
No. Non sono d’accordo. Non è un problema di competenze. Non è un problema di strumenti. Non è perché a potere sono sempre gli altri.
L’esplosione di internet dal 2000 in poi è proprio dovuta al fatto che per esprimersi ed agire in rete bastano competenze elementari e strumenti di bassissimo costo, ubiquitari e che le nuove generazioni usano quasi senza accorgersene.
Quello delle carenza di competenze e di strumenti idonei per partecipare è un alibi che nasconde un disagio più profondo che credo derivi dalla scolasticità dell’istruzione (ahimè, non formazione) e dalla scolarizzazione della nostra società con almeno due gravi conseguenze:
- malgrado il continuo sfoggio di attivismo abbiamo in realtà un atteggiamento molto passivo, conformista e scarsamente creativo
- non siamo ormai più abituati ad avere a che fare con le cose vive, o quasi.
Il primo punto è quello che ho sviluppato in un post precedente dedicato a Facebook dove mi riferivo al cambio di paradigma suggerito da Patch Adams con il quale si sostituisce il so that … al because of …”: ora faccio questo perché ho l’obiettivo di … anziché non posso fare questo per colpa di … Concludevo dicendo che la questione non è su dove “stare”, nel mondo reale o in quello virtuale o da qualche altra parte, ma su quali strumenti impiegare per tentare di realizzare i propri progetti, magari il proprio progetto di vita.
Qui vorrei invece soffermarmi sul secondo punto: abbiamo perso la sensibilità necessaria per comunicare con le entità vive, non le sappiamo più ascoltare, non sappiamo più parlare loro, abbiamo perso la capacità di empatizzare al punto che talvolta non le “vediamo” nemmeno.
Forse qualcuno si sta domandando cosa intenda per cosa viva. Ecco degli esempi: la pianta che tenete in un vaso ma anche la terra che la ospita, il lievito (di birra) che mettete nell’impasto per fare un dolce, tutte le cose per fare le quali chiediamo aiuto a popolazioni di batteri come il pane, il vino, il formaggio, e poi la terra dalla quale proviene tutta la nostra alimentazione, anche un bambino è una cosa viva e anche una classe di studenti, la nostra blogoclasse, una comunità di persone che si riuniscono periodicamente per discutere su un argomento di comune interesse, magari in internet, una comunità di pratica, l’insieme dei feed dei siti che mi interessano.
Alcune delle cose che ho elencato sembrano ovvie ma a giudicare per esempio da come in generale mangiamo, da come parliamo ai giovani, da come insegniamo nelle classi scolastiche, nutro seri dubbi che si sappia ancora parlare alle cose vive.
Carlo Petrini scrive nella presentazione del bellissimo dvd Storie di terra e di rezdore:
Il savoir faire dei bravi artigiani e contadini di tutto il mondo ci racconta di come l’uomo un tempo abbia stretto un’alleanza con la natura , prima di iniziare a distruggerla sistematicamente, credendo di poterla dominare.
Una cosa viva si distrugge allorché non la si capisce più e non si è più in grado di parlarle. Si può distruggere un figlio senza toccarlo. Si possono distruggere parti di mondo (le famigerate materie scolastiche) nella mente dei propri studenti. Accade di norma, salvo splendide eccezioni. Si può distruggere la propria terra.
Perché è accaduto questo? È accaduto per il processo di atomizzazione della società che ha condotto alla disgregazione delle piccole comunità umane, famiglie, paesi, borghi. È accaduto per la conseguente scolarizzazione della società. La famiglia non educa più, appalta l’educazione ad altri e gestisce la giornata dei figli. I genitori sono diventati i manager dei propri figli. In parte perché non hanno tempo ma in parte perché non hanno molto da tramandare.
Si sono interrotti i fili lungo i quali si trasmetteva il sapere, di generazione in generazione. Ora si va a scuola ma questa dà solo un surrogato finalizzato all’inserimento nel mondo del lavoro, peraltro spesso in modo non soddisfacente. La scuola non può dare quella conoscenza che prima fluiva dai vecchi ai giovani per osmosi, per atti osservati e condivisi, che è difficile codificare in forme proposizionali e certamente non in quelle dei manuali scolastici.
In tutta quella parte di sapere che si è estinto nel giro di un paio di generazioni, vi è anche la conoscenza delle cose vive. E mi riferisco solo in minima misura alla conoscenza scolastica eminentemente nozionistica, pur carente, come per esempio non sapere che per produrre il latte le mucche devono partorire un vitello all’anno.
Mi riferisco all’insieme di sensibilità e percezioni che consentono di parlare con la cosa viva. Tutte le cose vive parlano, anche quelle che non conoscono un linguaggio simbolico. Me lo insegnò il mio nonno contadino quando avevo dieci anni:
“Vedi Andrea, le piante parlano”
“Come sarebbe a dire?”
“Le devi osservare per capire quello che ti dicono, devi imparare i loro segni.Per esempio se le foglie pendono e avvizziscono vuol dire che hanno sete. Tutte le cose vive parlano. Bisogna aspettare e osservare, loro ti daranno dei segni. Si può parlare con le piante ma ci vuole tempo”.
Mio padre, laureato, uomo colto e di valore non avrebbe saputo dirmi la stessa cosa. Io ora ho 54 anni, quindi siamo di fronte ad un fenomeno di estinzione.
Nel panorama della generazione dei miei figli non c’è più niente di tutto questo e, ripeto, ciò che non conosciamo, lo uccidiamo senza accorgercene. A onor del vero stanno riemergendo dei segni di attenzione grazie alle iniziative e all’opera di personaggi come Carlo Petrini, ideatore di Slow Food. Dobbiamo esser contenti di questi segni ma sono gocce nell’oceano rispetto a quella che era la cultura di un popolo.
La mia tesi è che non riusciamo a trarre vantaggio dalla ricchezza del mondo online perché abbiamo perso una cultura sviluppata e tramandata da millenni e che, nel processo di scolarizzazione della società iniziato nel IXX secolo, è ormai estinta perché la scuola non è stata in grado di raccoglierla e tenerla viva.
La cultura che abbiamo perso contemplava l’alleanza con la natura citata da Petrini, come tutte le alleanze fondata sul dialogo e sulla comprensione. Si possono fare tanti esempi che possono fungere da metafore utili nella vita online. Il problema è che le metafore funzionano quando portano in un contesto familiare e invece molte di queste portano in un contesto purtroppo già remoto. Per questo ne propongo alcune nella speranza che per ciascuno ve ne sia almeno una congegnale.
Il mezzadro
Inizio con quella che è più congegnale a me e che potrei chiamare del mezzadro. Perché proprio mezzadro e non semplicemente contadino? La mezzadria [4] era un contratto di lavoro fra padrone e contadino che prevedeva che il contadino abitasse con la famiglia sul podere facendosi completamente carico della sua conduzione e cedendo il 50% dei prodotti al padrone.
È la principale forma di conduzione del territorio agricolo nelle zone collinari e montane in Toscana, Umbria, Marche ed Emilia Romagna. In realtà, salvo lodevoli eccezioni, si è trattato di una forma di sfruttamento che ha raggiunto livelli odiosi, soprattutto nei poderi di montagna che sono meno prodighi di frutti.
Un vero peccato perché il mezzadro, un po’ per necessità e ristrettezze, un po’ per la grande varietà di attività che la conduzione di un podere richiedeva era un uomo di grande competenza e versatilità. La competenza del mezzadro, valutata in un mercato del lavoro equo sarebbe come il vin santo fatto per bene: senza prezzo. Peccato che lo sviluppo economico se ne sia andato da un’altra parte.
È lunga la lista di tutto ciò che un mezzadro aveva da controllare, curare, intraprendere, correggere, mantenere, costruire sul suo podere e per i suoi animali. Tutte le cose dalle quali dipendeva la sopravvivenza della sua famiglia erano vive, piante, colture, orti, animali, cacciagione. Doveva per forza saper parlare con esse. Non doveva mai perdere di vista l’insieme ed essere sempre pronto ad intervenire.
È una mentalità molto diversa da quella dominante nel lavoro secondario e terziario, dove prevale la manipolazione, la costruzione, la gestione di entità viste come inanimate, oggetti da assemblare, pratiche da evadere, personale con requisiti predefiniti da reclutare, risorse da allocare, obiettivi da conseguire.
Nel lavoro del mezzadro vi erano momenti di pianificazione e costruzione ma prevaleva la pratica dell’ascolto. Per esempio l’orto – che fa l’uomo morto – richiedeva una visita quotidiana e le cose da fare dipendevano da condizioni sempre variabili e solo in parte predicibili – oggi l’insalata ha bisogno di più acqua perché stanotte c’è stata poca guazza, ai pomodori le erbacce sono cresciute troppo, quei fagiolini vanno colti sennò induriscono … ah le lumache mi mangiano le fragole …
I feed che voi scegliete di seguire sono come gli ortaggi che decidete di seminare e di piantare, lo dovete sapere voi di cosa avete bisogno.
Feed è un termine tecnico ma rappresenta una connessione con un essere umano e tale connessione deve essere seguita come una pianta nell’orto affinché dia i frutti sperati, va coltivata: leggere quando interessa, riflettere, commentare,rispondere, proporre.
L’insieme delle vostre connessioni è il vostro orto.
Non spendo altre parole perché so che più di tanto le parole non possono comunicare. Se avete nella vostra vita reale una connessione di questo tipo, una persona o un ricordo collegati al mondo della terra, ebbene cercate di recuperarla e approfondirla, otterrete di più che dalle mie parole.
La madre
Tracciare le fila di questa metafora dovrebbe essere facile dopo quello che ho detto nella precedente. Inoltre dovrebbe funzionare bene per la metà degli esseri umani, in teoria.
In realtà non ne sono tanto sicuro. Ricordo la conversazione di un’ostetrica che lamentava l’assurdità delle domande fatte da un numero crescente di genitori. Domande che un tempo non sarebbero venute in mente a nessuno e che rivelano l’imbarazzo per non saper che pesci prendere di fronte ad una cosa viva: “Chiediamo al dottore!”, “Iscriviamoci ad un corso!”
Luigi Pirandello, in “Donna Mimma” [5] descrive il sofferto passaggio dall’esperienza della mammana alla professionalità dell’ostetrica e quando donna Mimma è costretta ad andare all’università per ottenere il diploma necessario per continuare la professione che di fatto aveva esercitato da 35 anni
… mano a mano che quella famosa conoscenza implicita, di cui il professor Torresi ha parlato, le diviene esplicita, donna Mimma – veder più chiaro? altro che veder più chiaro! – Non riesce a veder più nulla.
Ora anche mamme e babbi stanno perdendo la conoscenza implicita!
Ecco un bell’esempio di ciò che intendo per società scolarizzata. Cercare in forme proposizionali, somministrate da una cattedra e pagate un certo prezzo conoscenze che prima erano respirate nella comunità.
Come confrontare l’acquisto e la consumazione di una barretta con la preparazione di una piatto e la sua degustazione con un amico. La differenza è la vita.
Credo che la scolarizzazione contribuisca tragicamente al rapporto con le generazioni successive, sempre che si possa ancora parlare di rapporto … ma chissà …
Il maestro
Trovo che questa sarebbe la metafora più bella. La cura, il rispetto e l’umiltà in un anziano che segue il percorso di un giovane. Il vero maestro parla poco, interviene poco, il minimo. Il vero maestro si disinteressa della quantità ma solo della qualità, perché la quantità sarà affare del giovane ma è sulla ricerca della qualità che il maestro può essere utile.
Raro. Rarissimo a scuola. La rarità rende ancor più fulgide le eccezioni che fortunatamente esistono. Se avete avuto la fortuna di trovare un maestro sul vostro cammino, ebbene ripensate a quell’esperienza.
Se dedicate alle vostre attenzioni l’attenzione e la cura che il maestro dedica ai suoi giovani allora avrete delle piacevoli sorprese.
La passeggiata nel bosco
Sia andando in cerca di connessioni che coltivando quelle selezionate, può venire molto facilmente l’ansia di non poter affrontare una quantità così grande e soprattutto di perdere qualcosa nella vastità della quale non si scorgono i limiti. Un altro effetto della scolarizzazione: voler vedere i limiti del territorio, avere bisogno del manuale, voler sapere tutto ciò che serve. Questa è una mal-formazione di origine scolastica. La vita non è così. Mai.
Queste ansie sono emerse con evidenza nel corso online Connectivism and Connective Knowledge tenuto da George Siemens e Stephen Downes nel semestre autunnale di quest’anno.
Durante la seconda settimana del corso proposi la metafora che traduco qui di seguito.
Pare , forse non sorprendentemente, che molti di noi si trovino disorientati e talvolta infastiditi dalla struttura caotica del corso.
Ebbene, facciamo una passeggiata in un bosco e rilassiamoci …
cosa vuol dire conoscere un bosco?
• conoscerne il nome?
• conoscere tutti i sentieri del bosco così da poter tornare indietro con sicurezza in qualsiasi condizione?
• conoscere tutti i tipi di alberi, piante e animali che lo popolano?
• conoscerlo così da poterci cacciare animali selvatici?
• sapere se in qualche sua parte scorre dell’acqua sotto il suolo?
• sapere dove e quando ci si possono trovare dei buoni funghi?
• sapere che vi ebbe luogo un importante fatto storico?
• sapere che vi trovò ispirazione un poeta famoso?
• essersi innamorati di qualcuno in quel luogo?Oh, quanti modi diversi ci sono di conoscere quel bosco, alcuni richiedono una vita intera, altri pochi istanti.
Tuttavia, nessuno può credere che per conoscere quel bosco sia necessario conoscerne esattamente tutti gli alberi, uno per uno, le loro forme, età e posizione. Tutte le piante. Tutte le foglie di ciascuna pianta. Tutti gli animali e dove si trova e cosa fa ciascun animale in ogni istante. Tutte le pietre. Tutte le particelle.
Certo che no! È semplicemente troppo e del resto, potrebbe essere desiderabile un simile tipo di conoscenza? No, questo tipo di conoscenza completa e dissennata è certamente meno desiderabile di una qualsiasi delle precedenti.
No, quello di cui abbiamo bisogno è di trovare ciascuno il proprio percorso per conoscere quel bosco. I modi di conoscerlo sono illimitati e ciascuno può impiegare un sistema di concetti diversi per conoscerlo. Un sistema diverso di connessioni. Una rete diversa di connessioni. Persino la stessa persona in momenti diversi può ricorrere ad un diverso sistema di concetti per conoscere quel bosco.
In ogni caso, qual è il modo migliore per raggiungerne quella vostra particolare conoscenza? Semplicemente godendosi una passeggiata, una, due, molte volte e andando dove vedete qualcosa che vi piace. Col passare del tempo conoscerete quel bosco nel vostro particolare modo.
Conclusione prima che arrivi la III e ultima parte
Se siete ancora qui ma le metafore che vi ho suggerito non vi convincono e non trovate riferimenti significativi a qualche esperienza del vostro passato, potrei suggerirvi di procurarvi il dvd Storie di terra e di rezdore e guardarlo con attenzione. Ci sono sequenze che meritano visioni ripetute.
Se anche dopo questo, non vedete il nesso … beh, allora forse è meglio che in Internet ci stiate il meno possibile, effettivamente.
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[1] Capra, Fritjof, The Web of Life, Flamingo, London, 1997.
[2] Leopardi, Giacomo, Zibaldone dei Pensieri (pag. 1837, 4 ottobre 1821), Oscar Mondadori, Milano, 2004.
[3] Il computer è ormai già sulla la via dell’obsolescenza. Secondo varie varie fonti, il telefono cellulare è la tecnologia che sta invadendo il mondo. In molte parti del mondo nella quali sino ad ora si è rivelato impossibile costruire le infrastrutture tecnologiche tradizionali dispongono già di reti di telefonia cellulare che offrono ampia copertura e velocità di trasmissione dati elevate (”The art of the possible” Economist, 13 novembre 2008). Per esempio, il 72% della popolazione Afgana è coperta dalla rete e nel 2006 il 68% delle nuove richieste di sottoscrizione ad un nuovo numero di cellulare sono provenute dai paesi in via di sviluppo
[4] Casanova, Paolo ; Sorbetti Guerri, Francesco, La vita e le cacce dei contadini fra Ottocento e Novecento : quando si cacciava per vivere, Edizioni Polistampa, Firenze, 2007.
[5] Pirandello, Luigi, Novelle per un anno, Donna Mimma, Il vecchio Dio, La giara, Garzanti, Milano, 1994.
le connessioni sono calde, ma le persone popolano la rete, oltre il mezzo ci sarebbe da vedere, oltre quello che si ha dinnanzi ma questo sempre e comunque…è normale che vedersi, toccarsi respirare lo stesso momento crea il “caldo” ma la lontananza a volte può impedire ciò…quindi (come succede a noi IUL) bisogna percepire il buono, il caldo che c’è dentro la rete, un’ intera comunità….
grazie a presto Francesca
Anch’io sono una convintissima del fatto che come diceva una mia amica “si stave meglio quando si stava peggio”,ma ragazzi avete un pessimismo addosso esagerato! Amavo ascoltare i racconti della mia nonna di quando lei era bambina e di come il mondo fosse completamente diverso,niente computer,niente PSP,niente di tutto ciò che ora ci appare come necessario e che in realtà è solo superfluo. Invidio profondamente la signora che vive nella casa sotto a me a Firenze e che mi racconta di quando lei era una giovane sanfredianina,che bello che doveva essere quel mondo,molto più semplice e meno pretenzioso,niente apparenza ma solo sostanza!come vedete sono una nostalgica di un mondo che non ho mai visto e vissuto ma del quale ho tanto sentito parlare e che spesso mi trovo ad immaginare. Vi immaginate che meraviglia doveva essere Firenze negli anni ’20,niente macchine ne negozietti dei cinesi,niente supermercati,ma solo cavalli e botteghine a conduzione familiare,è si…l’avrei voltua proprio vedere! Nonostante tutto questo sono contenta di vivere in questo mondo,anche se troppo spesso non gira come vorrei,è complicato e fatto di apparenze,è vero,ma è estremamente bello e ricco di cose e di idee che una volta non sognavano neanche.Non credo che come lei ha scritto prima “abbiamo perso la sensibilità necessaria per comunicare con le entità vive,non le sappiamo più ascoltare,non sappiamo più parlar loro”. Piuttosto è cambiata la nostra sensibilità e il modo in cui ascoltiamo o parliamo,non perché parliamo attraverso FB o MSN siamo meno bravi a parlare dei nostri nonni.Abbiamo perso il gusto di guardare una persona negli occhi mantre ci parliamo,ma la sostanza delle nostre parole è sempre la solita,soltanto che abbiamo imparato ad adattarla al mondo in cui viviamo. Sono d’accordo con il Valle quando dice che “Siamo inseriti in una superficialità costante” ma è perché noi per primi ci fermiamo ad osservare le cose e le persone con superficialità,non credo che esista veramente una persona che si possa definire superficiale,sarà sicuramente superficiale in alcune cose ma non in tutto,siamo noi che bisogna cercare un pò più in profondità. Diciamo piuttosto che siamo diventati un pò menefreghisti ed egoisto per cui fondamentalmente ci interessa di noi e di una cerchia ristretta di persone,e per quelle che non vi sono comprese non facciamo neanche lo sforzo di cercare qualcosa oltre l’apparenza. Concludo questo discorso,che inizialmente voleva esssere breve,ma che poi m’ha preso la mano,dicendo che non credo che come dice Ilaria esistono connessioni calde e fredde,a mio avviso tutte le connessioni sono calde,sono piuttosto i mezzi ad essere diventati freddi (come il computer),ma che ci possimiamo fare….questa è la modernità!
Questo post mi è piaciuto ancora di più dell’altro perchè le immagini che mi ha rinnovato sono proprio quelle che mi occorrono adesso. Per fortuna ho avuto una nonna che ha lavorato come mezzadra finchè i fascisti non le hanno fucilato mezza famiglia e lei ha avuto la pazienza di insegnarmi le cose belle e le cose brutte della vita. Esiste il calore ed esiste la freddezza e siamo noi a fare in modo che l’uno si trasformi nell’altro e viceversa (c’è anche un principio della termodinamica no? che dice che l’energia si trasforma…) ecco, io sento profondamente il bisogno delle connessioni e mi ritengo nella fase della vita in cui sto selezionando. Tanto per dire, la citazione di Raffaele sulla perdita del “fine” per me è stata molto significativa oggi e tanto per consolare martavara, dirò che prima di approdare qui e DOVER NECESSARIAMENTE cambiare il mio modo di studiare, ho fatto un altro percorso che poi ho interrotto. Nel precedente corso di laurea (vecchissimo ordinamento) non esistevano i crediti e l’unico sistema per dare gli esami era studiare su kg di appunti. Dico chili perchè oggi mentre riordinavo mi è ricapitato tra le mani il malloppo di “anatomia comparata” cioè tutti gli organi e apparati dai cordati ai mammiferi. Presi 27. Sono 5 kg di appunti e libro, fotocopie fronte retro. Inoltre ho un altro paio di kg di esame di anatomia umana. L’altro giorno la responsabile del mio nuovo corso di laurea, mi ha detto che non sono sicuri di convalidarmi l’esame di anatomia. Ora, va bene che l’esame l’ho dato 10 anni fa, ma avrò capito l’architettura di un essere umano? io dico di sì, ma secondo loro non è detto. Dunque io guardo i miei kg di appunti, mi fisso bene in testa quale è il mio fine ultimo e se occorre ridarò l’esame di anatomia, ripassando un pò, qua e là cose che ho già studiato ed acquisito. Riguardo al fine: come tutti anche io spero di trovare un buon lavoro alla fine del mio percorso di studi, ma lo scopo è quello di prendermi cura delle persone con cui lavorerò (principalmente bambini con sindromi varie o con danni tali da comprometterne la vita come noi comunemente la intendiamo) questo non perchè non ho trovato di meglio da fare, ma perchè la mia necessità di essere connessa mi porta a cercare nelle connessioni “difficili” una strada per crearle e mantenerle e questo solo perchè molto immodestamente mi ritengo portata nel farlo, assecondo il mio modo di essere. Già leggere questo post e i relativi commenti lo ritengo una gran fortuna, e non ho idea se, tornando alla metafora del bosco, mi perderò nella marea di connessioni che ho intessuto e sto ancora creando, ma penso che se anche mi perdo non sarà un caso! 🙂 ottimisticamente parlando.
ah dimenticavo, aspetto il terzo post!
Devo ammettere di essere andato fuori tema nel commento al post. Ho stampato i due posts sulle connessioni e li ho riletti sdraiato sul letto e mentre leggevo il secondo mi tornava in mente mio nonno, le sue mani, il colore della terra, il vento e quelle giornate in campagna quando finito il lavoro mi arrivava una sensazione di fame diversa dalle altre cosicchè mangiavo diversamente e con più gusto.
Quello che mi frega è restare concentrato mentre leggo sullo schermo di un computer: dalla lettura sullo schermo giungo a conclusioni diverse e affrettate rispetto a quella dal foglio.
In ogni caso mi è venuta voglia di leggere Donna Mimma di Pirandello, ho immaginato a come sarebbe il mondo se i parti avvenissero in casa e a come diventerebbe se la conoscenza medica si vivesse come una passeggiata e da essa si autorigenerasse una medicina popolare piuttosto che universitaria.
Mi è tornata in mente la mia lettera sulla didattica in medicina, che lei ha generosamente pubblicato, e i punti in comune della stessa con i suoi posts.
Mi sono sentito partecipe di qualcosa, di una rete vivente più grande di me e credo di aver contribuito (si spera) alla sua autorigenerazione.
ecco l’ottimismo! l’ho trovto!
Che belle le sue metafore! In particolare quella del mezzadro e quella del bosco sono vere e mi ci rispecchio. La prima mi ha ricordato la cura e la costanza che metto nel coltivare le mie piantine grasse! Ha proprio ragione, dovremmo impostare le nostre relazioni, almeno quelle che contano, come relazioni di cura e questo può avvenire nella vita reale così come in quella on line (ormai siamo abituati a questa dicotomia, ma mi vado convincendo che non esiste…è uno degli effetti positivi del corso!). La seconda mi ha dato ancora qualche dritta su come gestire la grande quantità di informazioni che circola nella nostra blogoclasse.
Per quanto riguarda quella del maestro…beh posso dirle di averne trovati pochissimi di maestri lungo il mio percorso di studi, ma non posso lamentarmi viste le pessime condizioni in cui versa il nostro sistema scolastico. Tuttavia ho incontrato molti maestri nella vita extrascolastica. Quale preziosissimo tesoro sono stati e sono tuttora! Non sarei diventata quel che sono senza di loro. Alcuni mi accompagnano ancora nelle mie vicissitudini, altri hanno transitato per un brevissimo momento nella mia vita eppure hanno lasciato un segno. Tante volte non ci rendiamo conto di quanto una persona ci trasformi in breve tempo, insegnandoci a vivere, ma sono sicura che siamo circondati giornalmente da persone che hanno questa potenzialità. L’importante è essere aperti…
Ho letto i commenti a questo suo post, che angoscia! Dai, ma ragazzi, qui il problema non sta nel fatto di trovarsi a che fare con connessioni calde o fredde, il punto è come noi ci poniamo nei confronti degli altri. Se le persone non perdono il loro tempo ad ascoltare le nostre anime, forse è perchè per primi non siamo capaci di farlo. Quello che voglio dire è che molto probabilmente siamo noi ad essere diventati freddi, non le connessioni che creiamo con gli altri.
“Però che pessimismo….” così prof lei ha commentato le nostre risposte.
Si, in effetti, il pessimismo è la cosa che mi ha colpito di più da quando mi ritrovo a girellare sulla blogosfera.
Oddio è pur vero che ci son approdata da pochissimo e che ho letto relativamente pochissimi post tra tutti quelli pubblicati da lei, dai miei compagni e altri utenti, ma sinceramente tutto questo pessimismo cosmico non me l’aspettavo proprio!
Cioè, forse superficialmente, mi immaginavo questo mondo come qualcosa di puramente divertente…diciamo più o meno alla facebook per capirsi, in cui ognuno scrive le sue battutine, mette le foto delle vacanze, scrive commenti ironici, ecc. Bhè certo non mi aspettavo tutta questa “frivolezza”, ma sicuramente della positività e del divertimento, spazi in cui condividere cose “gradevoli”.
Invece no…il mondo così com’è proprio non ci va giù… e sa qual è la cosa che mi rammarica di più? che lei fa una critica positiva, costruttiva, mentre noi, baldi giovani di belle speranze, generazione del futuro, la vediamo molto più grigia di lei, siamo molto più drastici.
Ora spero sia un caso essere incapata in questi post intrisi di scarso ottimismo, forse perchè legati a argomenti di un certo spessore, indi per cui, adesso vado in cerca della smentita, in cerca di un pò di sano ottimismo!!!
Ps: se lo trovo ve lo faccio sapere!
E insomma già in questi pochi commenti abbiamo due persone, Valle e Lostincinemas, con nonni viventi propri o acquistati! È una fortuna! Sono degli informatori straordinari! Bazzicateli e fate loro un mucchio di domande. Renderete più gradevoli questi loro anni e ne riceverete molto in cambio.
Però che pessimismo … anche Raffaele (grazie per il riferimento, lo leggerò) ce ne mette un po’ … e come sarà la risposta di Martavara? Pessimista anche quella?
Non lo sappiamo ma la sua introspezione è interessante.
Giustamente dici
mi mancano i miei strumenti di base, fissi e prestabiliti (in questo caso i libri di testo, le dispense,…) i quali riescono a darmi sicurezza perchè sono quelli che mi permettono di sapere già come dovrò organizzare il mio lavoro e quindi il mio fare.
Già ma il fatto è proprio che il tuo futuro lavoro non sarà quello dello studente, dello studente in un’università italiana oggi, intendo, dove 9 volte su dieci si fanno le cose che descrivi bene te.
Il tuo futuro lavoro, con buone probabilità ti richiederà sì di essere uno studente tutta la vita, ma uno studente all’aperto, dove la realtà è lontanissima da quella scolastica, strutturata, codificata, dicotomica, fredda ma rassicurante per voi studenti, comoda per noi docenti.
La paura dei propri limiti, della propria presunta inadeguatezza, dell’assenza di punti di riferimento e la pigrizia sono fantasmi che perseguitano tutti noi, più o meno, e ognuno, con il tempo, reagisce e provvede in modo diverso.
Io per esempio uso il dialogo con gli studenti come psicoterapia, capito Ilariabu? È un baratto …
io gliel’ho detto prof che dovrebbe aprire uno studio da psicoterapeuta!
scaccerebbe la crisi economica con le nostre di crisi!!!!
salve prof,
la sua metafora della passeggiata nel bosco mi ha colpito parecchio.
In effetti penso di essere vittima dell’effetto della scolarizzazione da lei esposto, non solo nell’ambito scolastico appunto, posto che, giusto giusto 2 giorni, fa mi son trovata a dire a qualcuno (giovanni mi pare…) che certi corsi mi sconvolgono, in quanto sono vaghi, sperimentali, pratici se vogliamo, che presentano un metodo diverso da quello classico a cui son sempre stata abituata nel mio percorso scolastico: lezione, l’insegnante parla parla, tu scrivi scrivi, poi vai a casa, ti prendi i tuoi testi, li studi e poi vai all’esame a ripete a pappardella.
Solitamente non ci metto molto, non ho nessun problema a prender in mano un libro, ripeterlo, fare schemi e riassunti, andare all’esame e tornare a casa con un bel voto sul libretto.
Mi sono accorta, invece, che di fronte a questo nuovo sforzo che mi viene richiesto, mi trovo totalmente smarrita, posto che sento che mi mancano i miei strumenti di base, fissi e prestabiliti (in questo caso i libri di testo, le dispense,…) i quali riescono a darmi sicurezza perchè sono quelli che mi permettono di sapere già come dovrò organizzare il mio lavoro e quindi il mio fare.
Sicuramente sono abituata male: troppo comodo prendere la strada già battuta e quindi già nota, forse dovrei avere più spesso il coraggio di sterzare e cambiare strada giusto per il gusto di esplorare e scoprire cose nuove. E non solo in ambito scolastico.
Paura dei miei stessi limiti? di scoprire di non essere adeguata una volta che mi si tolgono i miei punti di riferimento? o semplice pigrizia?
La risposta me la tengo per me, anche perchè sennò tra un pò rischio che mi consigliate tutti di andare dallo psicoanalista!!
La perdita del fine per cui si crea e si usa un mezzo credo che dilani tutte le connessioni perchè toglie il minimo comune denominatore della connessione ovvero il fine condiviso.
Se non si lavora (mezzo) più per essere felici (fine) ma per comperare un auto (mezzo) che servirà per andare al lavoro e che dovrà essere riparata (con conseguenze disastrose: lavoro oberante e infruttuoso, non gratificante, alienante), come si può creare una rete “felice” di persone che insieme lavorano per essere felici?La stessa relazione vale nella scuola, nell’uso di internet e delle nuove tecnologie.
P.S.:Questi pensieri nascono grazie alla lettura di “Psiche e Techne” del filosofo Umberto Galimberti.
Bellissimo post professore!!
“ciò che non conosciamo, lo uccidiamo senza accorgercene” : lo scorso luglio sono stato in Australia, e, visitando l’ammasso roccioso delle Blue Mountains di Sydney, ho assistito ad un documentario cinematografico in cui si narrava la devastante colonizzazione del territorio da parte dell’impero coloniale britannico…e questo, sotto altre forme, perdura anche adesso.
Certo, non parlo di semplice diboscamento e distruzione di risorse (ma è davvero cosa semplice?): mi riferisco alle connessioni sociali tra la popolazione aborigena e gli attuali discendenti dei coloni, o magari dei più recenti immigrati.
Da un lato ho visto una tradizione atavica, immersa nelle radici di un mondo ancestrale; dall’altro altro ho conosciuto di persona un mondo di fredda e tecnologica indifferenza; nel mezzo, la difficile prova del convivere senza voler minimamente conoscere il prossimo – che, per inciso, è la scelta peggiore.
Eppure non serve andare dall’altra parte del mondo per trovare tutto ciò: ogni giorno intravedo questi filamenti volutamente deboli ed apparentemente connessi con questa realtà sempre più sferica, sempre più mediata, sempre più complessa, sempre più articolata…insomma, sempre più.
C’è un film che voglio consigliarvi, e che a suo tempo, nel buio della sala, mi lasciò esterrefatto: si intitola BABEL (regia di A. G. Inarritu), ed è la constatazione, nemmeno troppo velata, di quanto possa essere distruttivo il pandemonio comunicativo attuale.
Cosa ci resta, allora? Certo, per fortuna io ho l’eredità culturale della mia bella famiglia patriarcale (vi basti sapere che il mio nucleo è forse uno degli ultimi che contempla tre generazioni sotto lo stesso tetto), ma ci vuole di più: bisognerebbe assimilare quel sapere, renderlo parte di sé, tradurne i ritmi, sentirne persino il respiro (come del resto fa mio nonno nel suo orticello campagnolo).
Hanno sempre tentato di convincermi che non c’è più tempo per questo, non c’è più spazio per questo, non esiste più nessun modo per fare questo.
Ma tutto questo non può essere vero.
Insomma, il mondo è andato avanti per miliardi di anni fondandosi su un retroterra di connessioni vivide e piene di senso: possibile che, quasi d’un tratto, non ci si renda nemmeno conto del motivo per cui l’essere umano abbia soltanto una bocca e ben due orecchie?
Eppure oggi conta molto il fare, l’operare, l’architettare…E ci si dimentica del profumo del pan di spagna e della nebbia delle montagne, come disse Bilbo Baggins al mago Gandalf.
Penso che la persona vera e tecnologica sia l’ideale ma purtroppo non sempre è così!
In sostanza sia Ilariabu che Valle hanno accettato il fatto che il problema delle connessioni online sia in realtà un problema di connessioni tout court, che sono cioè di scarsa qualità in generale e non solo online. E questo va bene, è proprio la direzione che ho cercato di indicare.
Mi spiace invece constatare la piega decisamente pessimistica delle vostre considerazioni. Mi spiace perché siete più giovani di me e nei giovani si vorrebbe vedere prevalere l’ottimismo 🙂
Devo però differenziare la risposta.
@ilariabu
Mi piace la tua idea di descrivere le connessioni mediante la loro “temperatura”, per inciso. Dici che io ho avuto la fortuna di conoscere delle connessioni calde. Può essere che tu abbia ragione, anche se potrei dire che, me le sono dovute cercare e, ti assicuro, ho fatto una fatica micidiale a trovarne giusto una manciata. Posso dire di averci messo anni. Forse ho avuto fortuna ma se non me le cercavo, pervicacemente, non avrei avuto nemmeno quella …
Tuttavia, tu poi “saturi” la temperatura delle connessioni, identificando le connessioni calde con quelle ove si ama il prossimo. È indubbio quello che dici ma forse esistono sfumature intermedie. Fra le mie connessioni calde, come spiegherò nella III parte, ci sono alcuni personaggi che ho conosciuto in rete e che per quello che sto cercando di fare sono importantissimi. Non so però se proprio li amo … diciamo che tendenzialmente, quando leggo i loro scritti mi rallegro e a volte mi entusiasmo.
Comunque, quello che dici secondo me è vero ma nelle cose biologiche, e quindi anche quelle umane, la totalità non esiste. Ci sono di sicuro al mondo persone con le quali tu puoi stabilire connessioni calde, perché il mondo è veramente molto grande. Internet, usata bene, aiuta moltissimo perché ti mette il mondo a disposizione. Approfondiremo comunque.
@Valle
Secondo me il tuo pessimismo deriva dal volersi congelare nella dicotomia
“persona vera” “persona tecnologica”
Una delle cose che vorrei comunicarvi è proprio l’idea che si possa essere anche persone vere e tecnologiche, recuperando la nostra percezione delle cose vive per usare davvero bene Internet che è massimamente viva.
Per inciso, in questo, le donne, che hanno percezioni superiori a noi, credo, potrebbero tracciare la via, sempre che resistano alla tentazione di assomigliare agli uomini … questo sarebbe proprio un disastro …
Prof., sono perfettamente d’accordo con la sua profonda riflessione.. Però al momento penso sia difficile trovare una soluzione; siamo tutti totalmente immersi in questa superficialità costante che penso sia impossibile uscirne. Porto un esempio: durante le vacanze natalizie ero a pranzo dalla mia ragazza e c’erano anche i suoi nonni, originari di un paesino del Molise. Sono stato quasi tutto il pomeriggio ad ascoltare le “novelle del nonno”, è stato bello tornare indietro con la mente, rivivere le sue emozioni, il suo vero contatto con la terra (è un contadino che a 80 anni continua ad andare in giro col trattore)… Probabilmente mancano realmente persone così buone e vere ma non ce ne rendiamo conto; meglio una persona “vera” ma priva di qualunque riferimento tecnologico o una persona che è perfettamente integrata in questo mondo ipertecnologico ma che non riesce a rapportarsi agli altri o “vive” con gli altri in maniera più che superficiale? Purtroppo sono convinto che molti si identifichino nel secondo tipo di persona ma la loro non è una vera e propria colpa, secondo me è colpa solo ed esclusivamente di questa società e di questo mondo che hanno fatto perdere alle persone il reale valore della vita.
ecco… io credo che lei prof sia stato fortunato…
lei è riuscito a conoscere (e per questo cerca di diffondere) le connessioni “calde”. Quelle fatte di vera comunicazione e comprensione. Se oggi dilagano realtà come facebook è solo perché noi ragazzi siamo abituati alle connessioni “fredde”.
Vedo ovunque questo atteggiamento. Giovani che si impegnano in politica, ragazzi che si danno un sacco da fare con progetti, eventi, attività per la propria comunità. Gente davvero in gamba, ma unita solo dalle connessioni fredde. Nessuno di loro si ferma a guardarti dentro, per capire quanto dolore c’è dentro di te. E allora, questi stessi ragazzi sulla rete non possono che trasmettere la loro freddezza, la superficialità a cui le loro famiglie li hanno abituati.
Prof, i ragazzi non sanno più amare. Molti non amano neanche se stessi.
Io ho paura, perché da piccola speravo che i ventanni fossero il periodo più bello della mia vita. Ora invece vedo che come non amavano i miei genitori, non sono in grado di amara manco i miei coetanei.
Che connessioni ne possono venir fuori?