Ancora su università e tecnologie

In uno scritto di qualche tempo fa sul tema delle tecnologie nell’insegnamento universitario raccontavo come io veda due diverse università: quella della routine quotidiana e quella criticata o immaginata da coloro che si pongono il problema del suo ruolo nella società presente e soprattutto futura.

Per non contare solamente sulle mie impressioni personali avevo citato le opinioni di alcuni personaggi di fama internazionale, selezionandone tre fra tanti: Sir Ken Robinson, professore emerito alla università di Warwick, Don Tapscott, esperto di strategie di business e di IT di fama internazionale, giornalista, autore di vari bestseller e Daniel Lemire, professore di computer science alla università di Quebec e Montreal.

Le opinioni di personalità di questo calibro, due professori e un “osservatore” esterno all’università, dovrebbero essere sufficienti a sollevare l’attenzione sul ruolo delle università nella società della conoscenza.

Mi rimane tuttavia la sensazione che occorra chiarire ulteriormente le motivazioni della cogenza del problema. I tre personaggi che ho citato fanno parte di coloro che guardano avanti, di coloro che vengono usualmente definiti progressisti.

Sono persone che dicono: il contesto sociale, economico e tecnologico sta mutando rapidamente, l’accademia sta mostrando di non farcela ad adattarsi, bisogna quindi darsi da fare per inventare qualcosa di nuovo, anche di radicalmente nuovo, se necessario.

È inevitabile – è sempre successo – che a questa visione se ne contrapponga un’altra: è vero, il contesto sta mutando e occorre tenerne conto ma ha avuto anche luogo una degenerazione dei costumi – giovani superficiali, distratti e impreparati – e una decadenza di una qualità che invece un tempo l’accademia esprimeva.

Per chiarire la questione, formulo la seguente tesi che cercherò di sostenere con alcuni riferimenti raccolti in un passato insospettabile:

  • il sistema di istruzione è sempre stato ampiamente subottimale, non è vero che l’università di una volta era un’altra cosa, semplicemente si collocava in una società un po’ meno complessa e interconnessa di ora e, soprattutto, doveva affrontare una massa molto più ridotta;
  • la risposta alle crescenti necessità di una società sempre più articolata e dinamica da parte dell’università è stata sostanzialmente di natura burocratica e solo marginalmente culturale.

Con risposta di natura burocratica intendo dire che, per esempio,

  • il problema dell’esplosione delle conoscenze è stato affrontato semplicemente ingrassando le facoltà di lauree, le lauree di insegnamenti e gli insegnamenti di argomenti;
  • il problema della massa è stato affrontato preoccupandosi dell’efficienza ma non dell’efficacia, preoccupandosi cioè di affrontare le masse crescenti di studenti con il modello convenzionale, semplicemente organizzando classi sempre più numerose, sino ad arrivare alla norma del centinaio o più di studenti per classe, senza molta attenzione al risultato effettivo in termini di apprendimento;
  • l’università si è occupata quasi esclusivamente di conoscenza esplicita, facilmente codificabile e gestibile, ma non di conoscenza tacita.

More about L'uomo artigiano Richard Sennet (P. 81) scrive a proposito della trasmissione del sapere nelle botteghe artigiane dal rinascimento in poi:

… in un laboratorio dove domina l’individualità e l’originalità del maestro, tenderà a essere predominante anche il sapere tacito. Morto il maestro, non è più possibile ricostruire gli indizi, i gesti e le intuizioni che egli aveva raccolto e coordinato in  quel tutto unico che è l’opera; non possiamo più chiedergli di rendere esplicito quel sapere tacito.

In teoria, in un laboratorio ben diretto dovrebbe esserci equilibrio tra sapere tacito ed esplicito. Si dovrebbe insistere con forza perché i maestri si spieghino meglio, perché ripeschino quel mosaico di indizi e di gesti che hannno assorbito dentro di sé in silenzio … ammesso che ne siano capaci, e ammesso che lo vogliano. La loro stessa autorità deriva in gran parte dal fatto di vedere ciò che altri non vedono, di sapere ciò che altri non sanno; la loro autorità si rende manifesta nel loro silenzio.

Può sembrare limitativo citare le botteghe artigiane riferendosi alla trasmissione delle conoscenze nell’accademia. Certamente i due tipi di saperi sono diversi ma tale diversità anziché distinguere positivamente la conoscenza accademica rappresenta un qualcosa che invece è stato perso.

Con la migrazione delle prime macchine dai laboratori artigiani alle industrie si attua il movimento dal sapere pratico all’autorità dominante del sapere esplicito. Il sapere esplicito è quello che forma la conoscenza teorica, espressa in modo proposizionale, che è quella che con larghissima prevalenza trasmette l’università.

La trasmissione della conoscenza è così divenuta una questione di trasmissione dei “contenuti”, tutti teorici. Tale forma monca di conoscenza è, sì, molto adatta alla costruzione di un sistema di controllo basato sull’autorità di chi è accreditato alla generazione, detenzione e trasmissione della conoscenza ma fallisce sostanzialmente nell’obiettivo di preparare effettivamente gli studenti.

Mi sto qui riferendo all’università ma il male è comune a tutta la scuola, specialmente quella secondaria. È fin troppo facile citare il fallimento dell’insegnamento dell’inglese e della matematica, due ambiti nei quali i risultati si manifestano in modo immediato e impietoso.

Questa grave carenza, che deriva da un malinteso concetto di conoscenza, non ha niente a che vedere con un processo di degenerazione recente della scuola. Personaggi avveduti e di prestigio hanno espresso disagio ben prima di tali presunti fenomeni di degenerazione.

Carlo Columba nel suo blog pone una questione che riprende da uno straordinario articolo (pdf) del prof. Enrico Persico, collaboratore di Enrico Fermi, apparso sul Giornale di Fisica del 1956. Il prof. Persico racconta di come una brava studentessa all’esame “corra come una locomotiva” nella trattazione formale delle equazioni di Maxwell ma riveli un totale disorientamento in qualsiasi aspetto pratico della materia, sino ad avere imbarazzo addirittura a descrivere uno strumento o una situazione sperimentale con un disegno:

Vi è poi una inesplicabile difficoltà a descrivere anche il più semplice oggetto o fenomeno, sia con la parola, sia, ancor più, col disegno. Il disegno (schematico beninteso) che sembrerebbe in molti casi un mezzo spontaneo, quasi quanto il gesto, per aiutare la parola ad esprimere ciò che si ha in mente, non viene per lo più nemmeno preso in considerazione dall’esaminando, e ogni invito a servirsene viene considerato come un crudele aggravamento di pena. Si ha l’impressione che il candidato non abbia un’immagine mentale da tradurre in parole o in linee, ma piuttosto da ripetere un discorso quanto più fedelmente è possibile. E ciò che è più strano è che la maggior parte degli studenti considera facile la parte descrittiva del corso, e difficile invece la parte matematica.

Mi sovviene in proposito il mio esame di Fisica Generale I, considerato a quei tempi (1974) lo scoglio fondamentale del corso di laurea in Fisica a Firenze, Arcetri per la precisione. La prima domanda che il professore Manlio Mandò mi fece fu: “Disegna un cannone …” E su quel cannone e i proiettili che questo sparava ragionammo per più di due ore, le mie mani, e forse anche il cervello, completamente impastate di gesso e sudore.

Le leggende su quell’esame si sprecavano. Si narrava di ottimi studenti che l’avevano dovuto ripetere cinque o sei volte. Di interrogazioni durate ore che continuavano il giorno dopo. Io stesso ho udito un professore più giovane, a sua volta dei più severi, che raccontava di avere tribolato molti mesi sull’esame del prof. Mandò. Noi calcolavamo di dovergli dedicare almeno sei mesi, al di là delle lezioni, se tutto andava bene.

Ma in quell’esame, iniziato col disegno di un cannone, non dovetti recitare niente bensì mi furono posti solo problemi e per rispondere potevo solo pensare, c’era ben poco da ricordare. Quell’insegnamento era infatti basato sull’esercizio del pensiero. Per superare l’esame era perfettamente inutile imparare il libro a memoria, cosa che sarebbe stata anche relativamente facile perché conteneva pochi argomenti; era invece necessario fare centinaia di esercizi e veniva infine spontaneo ritrovarsi con i compagni di corso per aiutarsi a vicenda nella soluzione degli esercizi più difficili.

Ecco di cosa si lamentava il prof. Mandò nella “Premessa per lo studente”  delle sue “Lezioni di Fisica Generale” (Libreria Universitaria di Bologna, quarta edizione del 1968)”

  1. la scarsa preparazione matematica posseduta dalla generalità degli studenti;
  2. l’eterogeneità della stessa preparazione generale, che va dall’astratto filosofeggiare dei provenienti dal Liceo Classico al particolarismo tecnico dei provenienti dall’Istituto Tecnico;
  3. l’eccessivo affollamento delle classi, che si avvicinano sempre più al fatidico numero di 250 studenti, oltre il quale anche le vigenti disposizioni riconoscono impossibile lo impippiamento di una disciplina universitaria da parte di un solo professore.

Continuava poi:

Date queste premesse, il meglio che si possa fare è quello di basare il corso sulla limitazione del numero degli argomenti e sull’appronfondimento di ognuno di essi, dando ovviamente la preminenza ai principi generali rispetto ai fenomeni particolari, la cui conoscenza è pur sempre necessaria ma potrà essere più facilmente acquisita dallo studente direttamente, anche senza l’ausilio di apposite lezioni.

Successivamente (pag. 8 punto d), poneva l’enfasi sul ruolo fondamentale

dell’iniziativa individuale nello studio, perché le lezioni stesse non bastano, tanto che Oppenheimer parlò addirittura del mostruoso anacronismo di cercare di istruire facendo lezione (“to educate by lecturing”).

Ancora successivamente (pag. 9) ci spiega come

la Fisica non la si insegna, ma si può solo aiutare ad apprenderla, così come non si insegna ad andare in bicicletta. L’insegnante, per così dire, potrà solo, tenendovi per il sellino, evitare i primi, più grossi, capitomboli, potrà indicarvi la progressione più ragionevole nei vostri tentativi di equilibrio, segnarvi la meta, consigliarvi la via: il resto dovete farlo voi.

Ricapitoliamo. L’esame del prof. Mandò rappresentava un ostacolo micidiale in uno dei corsi di laurea ritenuti più difficili e selettivi. Le parole che abbiamo letto sono state scritte nella quarta edizione del 1968, quindi le lamentazioni del prof. Mandò si riferiscono ad un’epoca precedente al ’68, a scanso di equivoci.

Orbene, da quei remoti tempi la voce di un severo professore “all’antica” ci ammonisce sulla inutilità di addensare argomenti in un insegnamento e sull’opportunità di concentrarsi nell’esercizio del pensiero sui principi, ritenendo così che lo studente volenteroso potrà successivamente volare con le proprie ali sulle altre regioni della materia, e non solo aggiungo io.

Ci ammonisce sull’inutilità di fare solo lezioni, richiamandosi ad un’assai drastica affermazione di un grande scienziato; in particolare sull’inutilità di lezioni fatte con rapporto studenti docenti troppo alto. Nel libro di esercizi che accompagna le “Lezioni di Fisica Generale” raccomanda addirittura lezioni in gruppi di non più di 30 alla volta, sotto la guida di un adeguato numero di insegnanti! Inoltre esprime con le parole di allora un ruolo dell’insegnante che oggi viene designato come facilitatore: non colui che insegna ma colui che aiuta ad apprendere.

Io credo che il corso del prof. Mandò sia uno dei pochi nei quali ho imparato qualcosa di importante: non tanto la fisica quanto il pensiero fisico. Questo è l’equivoco fondamentale dell’insegnamento di quasi tutte le discipline in quasi tutte le scuole (università compresa). Si può prendere una laurea in fisica o in matematica, come in qualsiasi altra disciplina, senza in realtà avere interiorizzato il pensiero fisico, il pensiero matematico ecc. Quello che rende un fisico (o un matematico o altro) tale è il modo di vedere il mondo, la prospettiva sotto la quale vede le cose, non il fatto che sappia un certo numero di fatti, è ovvio che finisca col saperli ma è conseguente. Se poi un fisico che è tale in questo senso (o matematico o altro) riesce a percepire anche le altre prospettive e a metterle in relazione con la propria, diciamo con la “prospettiva madre” come la lingua madre, allora si può iniziare a parlare di cultura. Prima no.

Il prof. Persico si rammaricava di non vedere nascere pensiero fisico nei suoi studenti e il prof. Mandò si preoccupava di vedere nascere il pensiero fisico nei propri. Faceva questo con lunghe appassionate lezioni che integrava come poteva, con domande, stimoli, esercizi a non finire, disponibilità a rispondere e commentare qualsiasi domanda, esami che non finivano mai …

L’intento del professore si traduceva anche in un passaggio di conoscenza tacita, malgrado l’eccessiva numerosità della classe – eravamo già oltre cento. Il suo desiderio, espresso esplicitamente, di poter lavorare con non più di trenta studenti per volta, riconduce all’atmosfera descritta da Sennet nel laboratorio artigiano del passato dove il giovane apprendista-artista veniva in contatto sia con la conoscenza esplicita che con quella implicita, emanata dall’agire del maestro, d’entrambe nutrendo la sua propria crescita.

Sennet con la sua analisi dell’uomo aritigiano evidenzia magnificamente quanto sia stata controproducente la separazione della testa dalla mano. E non si deve pensare che il ragionare di fisica, come di qualsiasi altra disciplina, anche di filosofia, sia tanto diverso dal lavoro dell’artigiano. Fare fisica vuol dire cimentarsi con le idee, giocare con le idee, e non solo riceverle. Apprendere non è prendere atto ma rivivere. Fare l’artigiano con una teoria fisica vuol dire domandarsi che succede se si cambia un’ipotesi, che succede se cambia una condizione al contorno, perché un fatto ci sembra parente di un altro anche se non ce l’ha detto nessuno e così via. Maestro e discepolo giocano insieme su queste domande.

I have a DreamNell’aprile del 2008 abbiamo respirato la medesima atmosfera in un bellissimo intervento (pdf) fatto nella classe di medicina dal prof. Benedetto De Bernard, figura di spicco della biochimica italiana.

Il prof. De Bernard si poneva la domanda:

Chi deve dunque insegnare?

La mia risposta è: chi “ha la testa ben fatta” (Morin). Questa si differenzia dalla “testa ben piena”, nella quale come dice Morin, il sapere è accumulato, ammucchiato, e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione.

“Una testa ben fatta significa che invece di accumulare il sapere è molto più importante disporre allo stesso tempo di:

  • un’attitudine generale a porre e a trattare problemi;
  • principi organizzativi che permettano di collegare le cognizioni e dare loro senso”

Successivamente, il prof. De Bernard approfondiva il tema sostenendo:

Il risultato dell’apprendimento dipende, secondo me, dalla intensità emozionale dell’incontro docente-discente.
Costui deve sentirsi affascinato dal docente, che deve essere quindi capace di trascinare i suoi allievi: costoro, subendone il fascino, ameranno i concetti scientifici trasmessi e li ricorderanno per tutta la vita.
Il modo di essere del docente, il calore delle sue convinzioni, persino la sua gestualità sono più utili di ogni modello di insegnamento, che gli studi della didattica medica vannno proponendo. Cioè il docente è libero di scegliere il modello che preferisce e che gli è più congegnale, persino la lezione ex-cathedra, accanto a lezione-discussione del tipo seminariale o tutoriale, il tutto basato sia su “active-learning” che su “problem base learning”.

Ecco, “persino la lezione ex-cathedra” e non sempre e solo lezione ex-cathedra.

Nella discussione finale, De Bernard, stimolato dalle domande precisò che in generale nella pratica didattica, il numero di lezioni frontali è esagerato e che andrebbe drasticamente ridotto a favore di ogni tipo di attività e di discussione possibile, seminariale, di laboratorio o altro.

Ritorna così l’idea di Sennet, dove un vero rapporto di insegnamento non può prescindere da una sorta di osmosi fra l’insegnante e i suoi studenti che garantisca non solo la trasmissione di sapere esplicito ma anche di sapere tacito.

Orbene, i riferimenti che ho portato in queste righe sono tutti riconducibili a uomini molto anziani o del passato, che hanno vissuto e operato all’interno dell’accademia, scienziati e insegnanti severi. Tuttavia sono uomini che hanno volto lo sguardo in una direzione che il sistema universitario non ha neanche lontanamente provato a seguire. Piuttosto, la strada che tale sistema ha seguito è quella di un amministratore poco avveduto e direi, quasi, poco esperto.

Ora, che i problemi di volume, sia in termini di popolazione studentesca che di conoscenze, e di dinamicità, sia in termini di richieste del mondo del lavoro che di sviluppo delle conoscenze, fanno scricchiolare pericolosamente il sistema universitario, gli accademici e gli osservatori esterni “progressisti” ne paventano la fine, almeno in questa forma.

È qui che ha senso ricorrere alle tecnologie ma non per vestire con abiti giovanili un corpo ormai vecchio bensì per ricondurre i maestri e gli allievi nel laboratorio artigiano.

17 pensieri riguardo “Ancora su università e tecnologie”

  1. Caro Andreas, i tuoi esempi, le tue citazioni, le tue riflessioni mi rievocano alla mente ricordi scolastici e soprattutto mi stimolano a riflettere e a credere ancora di più nella possibilità di migliorare la scuola,l’università…
    Come ha scritto la mia collega learner ti considero anche io uno dei pochi Socrate contemporanei..
    Persone come te dovrebbero avere molto spazio nel sistema scolastico e universitario perchè sai trasmettere energia positiva e tanta “voglia di fare”.
    Sono felice di averti “incontrato” nel mio cammino.

  2. A proposito del disegnare ecco cosa ha realizzato mio figlio di tre anni per spiegarmi come secondo lui funziona il cervello:
    http://maestrainrete.blogspot.com/2010/02/il-cervello-visto-da-un-bambino.html
    Speriamo che la scuola non distrugga la straordinaria capacità che hanno i bambini di vedere il nascosto, di spiegare e spiegarsi la realtà in modo originale e creativo. Molto dipenderà dalle persone che i bambini e i ragazzi incontreranno sulla loro strada, nelle aule scolastiche e anche fuori. a noi non resta che cercare di essere quel tipo di insegnante che vorremmo che i nostri figli e con loro tutti i bambini incontrassero nel loro cammino.
    @romina: io pensavo che l’aula informatica della mia scuola elementare non fosse particolarmente all’avanguardia, ma rispetto a quello che leggo mi sento avanti anni luce. (…è preferibile non scaricare il materiale didattico in formato elettronico sul computer, ma fornirlo soltanto ai rappresentanti degli studenti che si sono impegnati a copiarlo su penne usate solo per questo scopo e a trasmetterlo agli altri studenti: aiuto!!!)

  3. @ Marco Trapani

    La scelta , in questo caso specifico, non è del docente, ma della struttura organizzativa….dell’ottusità di chi organizza.
    La mancanza di tecnologia dove servirebbe è dovuta ad una pessima distribuzione delle risorse.
    Purtroppo, questo spesso supera di gran lunga l’ incompetenza tecnologica del docente.

    Insegnare Informatica senza connessione di rete e con un solo pc (quello del docente) si può fare.
    C’è chi lo ha fatto per anni… c’è chi se l’è inventata un aula informatizzata cercando personalmente i fondi per realizzarla…c’è chi inventa soluzioni, sperimenta metodi…
    c’è perfino chi usa un figlio di carta per fare un wiki..
    quindi non serve di per sé la tecnologia, serve un qualcosa in più che faccia usare lo strumento giusto al momento giusto…
    …ma questo è talento ..e non tutti lo hanno.

    Quindi :

    Insegnare le tecniche di insegnamento ? SI

    Insegnare ai docenti come usare la tecnologia? SI

    Insegnare nuovi metodi e dare nuove risorse? SI

    …nel mondo della comunicazione c’è chi sostiene che per creare il consenso sia necessario ottenere tre “SI” consecutivi allo scopo di avere una buona probabilità che anche il quarto sia un “SI” ….o lo diventi….

    Cambiare “la cultura” nel “fare formazione” ?

    …io mi aspetterei un SI.

  4. @ romina

    che dire ? la tecnologia imperversa… è da non credere quanti docenti, in tante facoltà, usano ancora la lavagna luminosa; io giro molto per aziende come consulente, e non ne vedevo una da almeno 15 anni (non scherzo…)

    anche l’idea che ci sia un pc non in rete significa non aver capito molto a che può servire un pc, e pensare ad esso a malapena come ad una lavagna luminosa un po’ più evoluta…

    “forse” la formazione su come si fa didattica dovrebbe cominciare proprio dai docenti ? anche immaginando molto banalmente di cominciare ad usare un po’ di più e un po’ meglio quel poco di tecnologia di cui dispongono ?

  5. Un nuovo modo di apprendere, rivoluzionato, come sono cambiate le nostre menti…una scuola in cui…
    non c’è più l’individualismo ma la cooperazione…
    non trasmissione di sapere ma learning by doing
    …………….. nuovo ambiente di apprendimento

  6. CONDIVIDO CON VOI IL MESSAGGIO DI BENVENUTO AL MIO PRIMO SEMESTRE DI INSEGNAMENTO…

    _____________________________________
    Gentile Prof/ssa,

    In allegato Le inviamo l’orario delle Sue lezioni del II° semestre per il 1° anno del Corso di Laurea ….. Le lezioni si svolgeranno come sempre presso l’Aula Magna……

    Nell’aula sono disponibili le seguenti apparecchiature: p.c. e videoproiettore, lavagna luminosa.

    Dal momento che il p.c. presente in aula non è collegato in rete, si rende necessario prendere alcune precauzioni per evitare la trasmissione di virus informatici. A tale scopo, pur avendo previsto un controllo settimanale del computer, è preferibile non scaricare il materiale didattico in formato elettronico sul computer, ma fornirlo soltanto ai rappresentanti degli studenti che si sono impegnati a copiarlo su penne usate solo per questo scopo e a trasmetterlo agli altri studenti. Per facilitare l’invio del materiale a tutti gli studenti per posta elettronica, è consigliabile predisporre file piccoli e possibilmente identificati per modulo di insegnamento e numero progressivo.

  7. Sempre molto arguto, interessante e molto molto piacevole nell’utilizzo della lingua italiana.

    Concordo praticamente su tutto e vorrei aggiungere qualcosa a proposito della conclusione, sulla opportunità di utilizzare le tecnologie. Lo faccio con una ideuzza assai modesta, un qualcosa che prima poteva sembrare assai difficile e costoso e che adesso invece è alla portata di tutti.

    Parlando di recente con un carissimo amico nonchè docente di geofisica a proposito delle enormi difficoltà finanziarie dell’ateneo palermitano, mi diceva che quest’anno non sanno proprio come pagare le oltre 30.000 (!!!!) ore di docenza che la facoltà di scienze deve erogare.
    Numeri importanti, sia in euro che in ore . . .
    Numeri che sicuramente potrebbero essere di molto ridimensionati cominciando a sistematicamente a registrare le lezioni che si vanno facendo in modo da trovare materiale già pronto per la successiva edizione dei vari corsi. Immagino infatti che ogni insegnamento universitario comprenda temi ripetitivi e temi che invece vanno aggiornati di anno in anno. Se si riuscisse ad utilizzare, lo dico banalizzando, le semplici lezioni registrate, almeno per i temi ripetitivi, si risparmierebbero molte ore. Starebbe al docente ricucire, collegare, usare, valorizzare, integrare, le attività d’aula, quelle seminariali, le esercitazioni, con l’utilizzo dei materiali didattici registrati e fruibili via rete con la massima semplicità.
    Probabilmente riducendo alla metà i suoi impegni “frontali”.

    Ho deliberatamente parlato qui di “lezioni registrate” perchè, in questi termini, la cosa può essere affrontata subito, senza alcun investimento, sia che si tratti di un vero e proprio video tratto da una lezione d’aula, sia che si tratti di uno slidecast tratto da una serie di slide. Un qualcosa cioè che non richieda alcuna “rivoluzione culturale” della didattica universitaria, nè a livello di sistema, nè a livello individuale, ma che, forse, potrebbe contribuire e ridurre le spese e, al contempo, costituire un passetto verso una cultura della didattica in ambiente tecnologico, della didattica in rete.

  8. Prima di tutto vi ringrazio per i pensieri che mi rendete sempre arricchiti.

    @Trapani Marco

    Solleciti la puntata successiva. Provo ad anticipare sintetizzando parecchio.

    Non vogliamo tornare ad un’università di élite nel senso di un’università per pochi. Se questa deve preparare i giovani ad affrontare il mondo del lavoro, lavoro di oggi nella società di oggi, è evidente che non può che esser di massa.

    Ma vogliamo invece tornare ad un’università di élite nel senso che ciò che accade al suo interno deve essere di élite, o meglio, diciamo di eccellenza. L’insegnamento all’interno dell’università dovrebbero essere sempre eccellente, per tutti. Invece, in media, è molto annacquato.

    Penso anch’io che non sia prospettabile la soluzione di arruolare un ordine di grandezza in più di docenti, per farne 100 ove sono in 10. Tuttavia forse si potrebbe fare di più in termini di finanziamenti.

    Nella società della conoscenza la formazione delle nuove generazioni è un fattore strategico ma la deriva del sistema politico verso una gestione tattica non favorisce gli investimenti a lungo termine, dei quali non si vedono gli effetti nell’immediato. Vien da pensare ad uno che non cambia l’olio del motore perché tanto la macchina va lo stesso …

    Una distribuzione più lungimirante dei finanziamenti potrebbe giovare ma non rappresenta lo strumento fondamentale. Anzi, a mio avviso, in assenza di altri provvedimenti non farebbe altro che esacerbare i problemi esistenti.

    La cosa fondamentale è eliminare lo spreco devastante di risorse umane, sia da parte dei docenti che dei discenti, in ciò che oggi chiamiamo insegnamento. Rimanendo nelle metafore motoristiche, il sistema di istruzione attuale è come un motore che che per produrre 5% di lavoro dissipa 95% in calore.

    Il sistema, che Don Tapscott definisce molto efficacemente one-way, one size fits all, teacher-focused model where the student is isolated in the learning process, rappresenta un spreco di risorse mostruoso.

    L’equivoco gigantesco è stato identificare il docente con un erogatore di contenuti. Come è necessario recuperare la dimensione umana dello studente è altresì necessario recuperare la dimensione umana del docente. Ogni docente di valore rappresenta una ricchezza inestimabile e il ruolo dell’università dovrebbe essere quello di creare occasioni di contatto, o meglio di vita in comune, con gli studenti, non banalmente organizzare solo lezioni.

    Porre al centro dell’insegnamento i contenuti è un concetto primitivo. In buona parte oggi, ma sicuramente nel prossimo futuro, i contenuti circolano, e circoleranno sempre più, in internet come le molecole nell’aria.

    Già oggi in un baleno puoi accedere alla Divina Commedia, all’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, alle lezioni (in video) di relatività generale di Leonard Susskind, uno dei più grandi fisici contemporanei, la dimostrazione di come si fa un formaggio o si cuce l’asola di un bottone, tanto per fare degli esempi a spaglio.

    Va recuperato il valore inestimabile dello scienziato, del letterato, dell’artista creando occasioni per mettere i govani a contatto con la sua umanità.

    Con i mezzi di oggi, qualsiasi professore può agevolmente mettere e rielaborare in rete, sotto forma di testi, immagini, video e simulazioni, quei contenuti (suoi o di altri) che ritiene opportuni per i suoi studenti. Le pillole video che ho utilizzato quest’anno per spiegare operazioni di comunicazione online banali ma astruse se espresse testualmente, hanno avuto un successo strepitoso: se uno studente non ha capito alla prima, può tornare indietro quante volte vuole ed io in un sol colpo ho spiegato, anzi meglio, ho mostrato la cosa ad una moltitudine di persone, non so nemmeno io quante.

    Il risparmio in tempo è enorme, quel tempo il docente lo può dedicare ad una sorta di “ricevimento illuminato” dove può succedere di tutto, lezione improvvisata, seminario, discussione, dimostrazione in laboratorio e chissà quante altre cose ancora.

    L’università che utilizza le proprie pareti per custodire il sapere sotto forma di contenuti si sta estinguendo. Le università devono divenire nodi di una rete che alimenta la conoscenza globale mettendo adeguatamente a frutto l’inestimabile ricchezza degli uomini di esperienza e di valore che vi prestano la loro opera.

    Insomma, una sorta di nuovo umanesimo della scuola, dove si recupera la dignità sia degli scolari che degli insegnanti.

    Le tecnologie oggi possono alimentare un movimento del genere e lo possono fare a costi bassissimi.

  9. Caro prof. Andreas,
    più leggo i tuoi articoli e sempre più mi rendo conto che sei unico. La lettura di questo articolo ha fatto emergere nella mia mente ricordi che pensavo ormai sepolti visto che da quell’evento sono passati parecchi anni. La frase che ha scatenato il ricordo……………..:”il giovane apprendista-artista veniva in contatto sia con la conoscenza esplicita che con quella implicita, emanata dall’agire del maestro, d’entrambe nutrendo la sua propria crescita”. Al ricordo mi sono commossa perchè ho ripensato al mio prof. di liceo Incatasciato Francesco, insegnava lettere al Liceo classico di Siracusa, uomo di grande cultura e sensibilità, compagno ed amico di Elio Vittorini, conosceva a memoria tutti e tre i canti della Divina Commedia, quando spiegava dalle sua bocca venivano fuori non parole ma note musicali che ti penetravano dentro e che creavano un osmosi tra noi ragazzi e lui dove avveniva non solo il passaggio di sapere esplicito, ma anche di sapere tacito.
    Ti saluto e ti ringrazio per avermi ancora una volta emozionato, affettuosi saluti e buon lavoro.
    s

  10. Cerco di scrivere in queste righe le mie impressioni sulle parole che ho letto in quanto, oltre a condividerle pienamente, mi riportano alla memoria esperienze personali di 35 anni della mia istruzione.
    In questo periodo mi ritrovo a vivere nella doppia veste di studente e di docente e devo dire che questa esperienza mi ha fatto riflettere molto sul torpore della figura insegnante dovuto alla quotidianità e alla ripetitività delle azioni.
    Nel momento in cui si ricopre un ruolo di docente ci si dimentica spesso del ruolo precedente di discenti cadendo nell’errore di voler “misurare” le conoscenze ed il sapere dei ns. alunni in un processo di istruzione senza renderci conto che lo scopo primario dell’educazione è il creare consapevolezza, senso critico, competenza e quindi abilità riusabili in altri ambiti in un percorso permanente di apprendimento (questo fortunatamente avviene molto meno nella scuola dell’infanzia e primaria e sempre più nei cicli superiori e soprattutto all’università).
    Ci dimentichiamo a volte di essere empatici con i ns. alunni, di capire il loro stato d’animo, le loro emozioni e di conoscere la loro vita che è parte fondamentale del loro apprendimento. Nella società attuale, le opportunità di acquisire comportamenti, conoscenze, abilità, atteggiamenti, competenze necessarie per partecipare attivamente allo scambio sociale e per la maturazione integrale della propria personalità si sono enormemente diversificate e incrementate nel tempo, nello spazio, nei modi, nei luoghi e nelle diverse aggregazioni sociali. Ogni persona è sottoposta a stimoli molto eterogenei, ma non per questo ininfluenti; vi è il contributo dei luoghi di apprendimento sia formali (la scuola e i centri dell’istruzione e formazione professionale), sia non formali (mass media, rete internet, luoghi di lavoro, musei ecc.) e informali (dalla famiglia ai centri di aggregazione giovanile, all’associazionismo studentesco e al volontariato).

    Mi ha colpito molto la lettura di un brano di Bertagna nel quale veniva descritta la medesima metafora della bicicletta (che tu, Andreas, hai menzionato) per spiegare la differenza tra la capacità in potenza di saper andare in bicicletta, la conoscenza delle parti componenti la bici, l’abilità di gonfiare una ruota e la competenza di saperla guidare.

    I Professori? Ne ho avuto molti! Ne ho amati molti in quanto si accorgevano dell’esistenza dell’individuo prima ancora dello studente; perché spiegavano le loro materie quasi in estasi, come se stessero cantando un ode, narrando una fiaba; perché credevano fortemente nel loro ruolo di educatore; perché erano i primi a mettere in discussione loro stessi e ad autovalutarsi. Io apprendevo per contagio, perché mi ponevo insieme a loro i quesiti, perché non mi si davano soluzioni, ma mi si ponevano domande.
    Ne ho tollerati molti altri che non amavano il loro lavoro, non credevano nelle ns. vere potenzialità, non avevano interesse per coloro che avevano di fronte, non amavano il prossimo perché troppo presi dall’insoddisfazione di sé stessi. Vedo anche dei miei colleghi: così tristi, così metodici, così poco motivati… come possono gli alunni imparare dalla meraviglia. “Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia….”(Aristotele, Metafisica A2, 982b 12-13)

    Sto preparando la mia tesi sulla Philosophy For Children di Mattew Lipman , sul pensare in cerchio!
    Mi sono posta molte volte l’interrogativo su cos’è il filosofare? E’ trasparenza della mente, curiosità, inseguimento di “perché”, costruzione di significati, ricerca di nessi tra gli eventi e le cose …
    E’ pensare in cerchio, nell’adulto come nel bambino o nel ragazzo, fino a domandarsi che cos’è il pensare stesso. Strani perché, forse indotti o suggeriti da casi ed episodi tratti dalla vita adulta, sempre incombente sul soggetto in crescita; sollecitazioni forti che l’insegnante è chiamato a mediare, Socrate contemporaneo, a sua difesa.
    Il cerchio è un sistema di specchi, vi s’intesse lo scambio delle idee, prassi eminentemente socratica. Nasce il dialogo a più voci. Dialogare è pensare. Il dialogo nasce e si svolge dentro di noi, anche se di questo spesso non si è consapevoli; lo si diventa crescendo ed anzi è proprio questa consapevolezza il segno più evidente della crescita.

    La conversazione serve a negoziare i concetti, a costruire significati, alla maturazione delle competenze comunicative e relazionali, alla manifestazione di sé, del proprio stile cognitivo, della propria originalità. Soddisfa e alimenta la curiosità. Aiuta, nel comunicarlo, a capire meglio ciò che si pensa, a comprendere quel che dice e pensa l’interlocutore, a liberarsi dei modi di dire, pensare e sentire egocentrici, a trarre dall’ovvio e dal banale qualche spunto di verità o qualche ipotesi da tradurre in domanda.

    Caro Prof., caro Andreas, continuo, anche al termine di questo viaggio, ad avere la piacevole sensazione di aver incontrato uno dei pochi Socrate contemporanei che ci sono ancora in giro.
    Ancora grazie di cuore!!!

    P.S. Ho acquistato “L’uomo artigiano “ di Richard Sennet e mi riprometto di leggerlo in questo breve periodo di pausa dallo studio, in attesa dell’attivazione del 2° semestre.
    Non vedo l’ora di scriverti le mie impressioni al termine della sua lettura.

  11. Le leggende sul Prof. Mandò sono arrivate fino a me, che ho “soltanto” 30 anni. A quanto leggo molte erano vere! Io ho avuto suo figlio come Prof. all’esame di Fisica II del corso di scienze biologiche… E’ stato un buon professore. Non era severo come il padre, forse nemmeno così efficace però…

  12. Caro prof,
    considerazioni come sempre molto efficaci e mirate; un dubbio: visto che non vogliamo tornare ad una università di elite, e che quindi ormai in alcune facoltà gli studenti si contano a migliaia, dove reperire sufficienti fondi per poter “arruolare” un numero ragionevole di docenti ? se ogggi un docente gestisce corsi da 300 studenti (!) e il rapporto giusto è di 30, occorrono altri 9 docenti; altro dubbio: dove si trovano ? mica facile… almeno per ora la clonazione non è giunta a tanto… e qualche preside all’idea di una decina di Andreas in circolazione potrebbe avere seri problemi di salute!

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