
Ha fatto bene erezjames a esprimere le sue perplessità sulle questioni sollevate da “Coltivare le connessioni”, oggetto dell’assignment 3. Ottimo. Le posizioni contrastanti sono molto utili.
Qui commento uno dei punti sollevati nel suo post:
Si sono decontestualizzate le immagini, le sensazioni, i tempi tecnici di presa di coscienza di sé, ma è probabile che tutto questo sia a discapito della totalità e della profondità della conoscenza. Oggi è possibile dissipare ogni minimo dubbio digitando qualsiasi parola sul motore di ricerca, ma spesso il risultato è la frammentarietà della conoscenza, che può sfociare nell’impossibilità di avere una visione d’insieme.
Attraverso un po’ di ricordi a ruota libera.
Io ho un padre medico che ha lasciato un vivido ricordo nella valle dove ha lavorato per mezzo secolo. Ha curato tutti e di tutto. Ancora oggi capita che qualcuno mi fermi per sapere come sta, con le lacrime negli occhi. Suppongo quindi che sia stato un buon medico. Lo stesso medico che non poté interpretare correttamente una malattia che ora ho cronica perché quando ero piccolo era poco conosciuta. Ora è trattata comunemente in tutto il mondo. E son passati poco più di trent’anni.
Quando iniziai le lezioni al I anno di fisica, nel 1974, ci fecero acquistare il regolo calcolatore, uno strumento di calcolo analogico che serve a fare moltiplicazioni, divisioni e calcolo di alcune funzioni matematiche, il tutto con un precisione di appena una o due cifre decimali. Quando misi mano alla tesi, nel 1977, un medico della medicina nucleare mi prese in giro perché mi vide fare dei conti con quell’aggeggio. Sapevo che era ormai desueto ma mi stava simpatico e mi dispiaceva lasciarlo nel cassetto. Quando lo avevo acquistato ero rimasto affascinato dalla varietà di regoli esposta sugli scaffali di Leoncini, già storica cartoleria in via Ricasoli. Nel 1977 erano spariti.
Già, quella tesi. Dovevo fare delle misure con un contatore della radioattività del corpo intero – WBC: Whole Body Counter lo chiamavano – che doveva essere realizzato nella medicina nucleare. Siamo in Italia, si dicono tante cose. Io quel WBC non l’ho mai visto e invece volevo vedere la fine dei miei studi, e più in fretta che fosse possibile.
Mi misi “in proprio” e dissi ai miei relatori: lo faccio teorico, lo simulo nel computer. E così feci. Ma dove avevo imparato ad usare il computer? Non certo a fisica, nei tre anni precedenti, e nemmeno nel quarto, che stavo finendo di seguire. Stando al percorso didattico di fisica nucleare che avevo seguito, per me il computer poteva funzionare benissimo con degli elastici. Il bit? Nemmeno la più pallida idea.
Quindi in soli quattro anni, uno strumento offerto dal “sistema d’istruzione” mi si era dissolto fra le mani e in meno di un anno avevo imparato da solo ad usare quello che poi sarebbe stato il protagonista del futuro, ed anche il principale strumento della mia vita di ricercatore. Uno strumento del quale nessuno mi aveva parlato, e che imparai a usare, a furia di congetture, tentativi e errori, leggendo i manuali trovati in un armadio dimenticato.
Mi ci sono laureato senza che i miei relatori potessero guidarmi. Razzolando nella letteratura scientifica trovavo gli strumenti matematici e informatici che mi occorrevano. Avevo agganciato il mondo che correva molto più veloce di quello che i miei insegnanti erano in grado di propormi. Fu più istruttivo questo fatto di ciò che stavo via via imparando.
Una volta assunto – a quei tempi ancora accadeva, è per questo che ora sono qui – mi ritrovai a programmare un super specializzato velocizzatore di computer (digital signal processor) per fare delle ricostruzioni di immagini mediche che richiedevano, allora, diverse giornate di calcolo. Fu un piccolo successo perché, in un mese di lavoro, avevo velocizzato il sistema di dieci volte. Ma durò poco, non feci nemmeno in tempo a pubblicare questo lavoro perché dopo un anno il negozio accanto vendeva allo stesso prezzo un computer che era veloce quasi come quello nel quale io avevo messo il turbo. Anche questo è stato molto istruttivo. In seguito sono stato più attento a dove mettevo le mani.
E tutto questo non c’entra niente con internet. Quei ricordi risalgono ad un’epoca nella quale io non sapevo nemmeno cosa fosse. Ho ho iniziato a usare internet, nel modo che racconto in questo percorso, circa dieci anni fa, quando stavo per approssimarmi ai cinquant’anni. E mi sono subito divertito come un matto, come era successo con tutti gli altri strumenti che ho incontrato, dagli acquerelli ai supercomputer del Cineca.
Oggi, i cultori delle scienze vivono una tragedia, la tragedia della quantità. La scuola non fornisce strumenti per, non dico risolvere, ma attenuare questo problema. Giustamente, un grande studioso come Edgar Morin (googlate), parla di “lutto dell’università”. La crescita esponenziale della conoscenza e della sua complessità rende gli sforzi degli “instructional designer” mere alchimie da baraccone.
Anche la scienza medica vive questa tragedia. Saprete della Evidence Based Medicine che i medici si sono inventati per cercare di avvicinare il medico che vive in trincea alla sterminata gorgogliante conoscenza di base e di esperienze pregresse: non puoi non avere il dubbio che magari qualcuno, un mese fa, in qualche altra parte del mondo, ha trovato una soluzione brillante per aiutare un paziente come il tuo, che sta rischiando la vita.
Saprete della meta-letteratura scientifica. Se andate a cercare cosa dice del vostro problema la letteratura biomedica, trovate troppi articoli. Impossibile orientarsi. Ecco quindi gli articoli che fondono insieme i risultati di altri articoli usando alchimie statistiche. Lo stesso succede nel campo della letteratura scientifica nelle scienze della formazione. Qui ho addirittura trovato articoli di meta-meta-letteratura: lavori che fondono insieme i risultati di meta-articoli.
L’idea secondo la quale ora c’è internet che fa vedere il mondo in modo diverso, così influenzando la conoscenza medesima, può forse avere qualche fondamento ma è una visione molto parziale e completamente insufficiente per capire quello che sta succedendo.
La conoscenza ha preso a dilatarsi in modo impressionante a partire dal secolo scorso, per conto suo, senza internet, e questo si sta rivelando tanto una benedizione quanto una maledizione.
Internet è solo una punta particolarmente appariscente di questo iceberg, e certo concorre ad incrementare ulteriormente questa fuga nel futuro, come tante altre tecnologie e tante altre conoscenze.
La sfida che ci aspetta quindi, che aspetta voi soprattuto, non è imparare le lezioncine per attingere alla conoscenza che serve. Solo in parte è questo. La sfida inevitabile, veramente ardua, consiste nel saper raggiungere profondità senza perder di vista l’oceano, ben sapendo che non ci sono precedenti paragonabili. Internet ci può aiutare a trovare modi per affrontare questo problema, ma ce li dobbiamo inventare noi.
Il percorso che stiamo facendo è ispirato da questa consapevolezza. Inutile puntare i piedi. Chi lo fa è un uomo morto.
🙂
Secondo me le piace questa vignetta
http://blablarto.blogspot.com/2011/03/troppo-bella.html
Sono d’accordo Andreas, si ripropongono la sfida e l’illusione insieme; ci riaffacciamo alle magnifiche sorti e progressive che ci conducono sull’orlo della conoscenza, ma non sempre ci danno un segnale sulle profondità da esplorare.
La rete favorisce il contatto, la navigazione ci indica dei porti possibili, ma non ci dice tutto su quali mezzi e strumenti siano necessari. L’homo faber ha bisogno ancora della sua umanità piena.
Fondamentale avere un proprio progetto e verificarlo, utile mettere da parte la sindrome da vetrina-facile e della facile risposta. Ma si può riuscire.