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Due righe per dire che ci siamo. Da marzo a giugno ci sono circa 400 studenti di medicina da seguire e questo richiede del tempo. Ma va aggiunta anche la formazione del sottoscritto: per insegnare occorre studiare, specie in territori così mutevoli – l’inerzia porta alla morte rapida. Occorre esserci, sapere cosa sta accadendo e cosa si può fare oggi. Si dice “aggiornamento”, ma è una parola malintesa. Non è questione di avere letto, o magari fatto un quiz, perché non si può insegnare ciò che non si è vissuto. È questione di provare a fare, di avere commesso gli errori che è necessario commettere per imparare. È questione di sporcarsi le mani. Dopo si può provare a insegnare.
Si va quindi a scuola. Una scuola di giovani – in pratica quasi tutto ciò che s’impara l’hanno fatto persone, giovani, giovanissime. La si trova nei circoli del software e dell’hardware libero. Provi a fare una cosa e ti imbatti in un problema. Lo comunichi alla comunità: quasi sempre qualcuno ti risponde e prima o poi lo risolvi. Magari scopri che chi ti ha risolto il problema ha 18 anni – successo ieri: grazie. Mondo lesto, comunicazione asciutta, si va diritti al problema, vali per ciò che sai e sai fare. La si trova nel mondo dei “makers”, che si incontrano nei fablab, luoghi attrezzati con macchine a controllo numerico per la realizzazione di oggetti. Un mondo che ha preso le mosse dal MIT nel 2001, nel Centro per bit e atomi, ma che ormai abbiamo dietro l’angolo.
Un mondo basato sulla cooperazione: ciò che io faccio lo pongo all’aperto – se è servito a me probabile che serva a qualcun altro, chissà dove. Un mondo basato sulla collaborazione: nei fablab si lavora insieme, condividendo informazioni, competenze, soluzioni. Collaborazione aperta, inclusiva: se hai da mettere i tuoi due centesimi li metti, se servono si usano. Vali per ciò che sai e sai fare. Non la collaborazione esclusiva delle organizzazioni gerarchiche classiche, dove i dirigenti fanno i gruppi e li comandano – dove può succedere che un incompetente privo di fantasia comandi un competente creativo – dove vali per vari motivi, troppi, alcuni opachi, e mica tanto per ciò che sai e sai fare.
Nei mondi aperti si respira una buona aria, non quella ormai viziata dei casamenti istituzionali. Quello che impareremo, lo riverseremo qui e dove ci troveremo nelle scuole. L’età matura è quella dei collegamenti – inizi ad avere visto mondi e prendi a collegarli – cambi quota ma il gioco è lo stesso, le mani felicemente sporche. Piacerebbe collegare il mondo della scuola – statico – a questi mondi – al mondo, vivo. Intanto a scuola, nel Fablab di Firenze. Fa bene alla salute.
A proposito di collaborazioni. Qui nel #loptis ne sono emerse diverse. Se a qualcuno viene un’altra idea proviamo a realizzarla. Intanto ricapitoliamo. Correggete errori e dimenticanze.
- Grazie soprattutto allo stimolo e alla cura di Claude Almansi, molti dei video utilizzati nel laboratori sono stati sottotitolati. Nel pad http://piratepad.net/ltis13-video-tutorial trovate un riassunto – è un indice grezzo, se qualcuno sente il bisogno di un po’ di descrizione la facciamo.
- Pratiche tecnologiche a scuola – chi vuole può aggiungere contributi
- Traduzione dell’articolo Expanding the Zone of Reflective Capacity: Taking Separate Journeys Together (pdf), di Ron Tinsley e Kimberly Lebak (2009), Networks, 11(2). Ora abbiamo la versione italiana – Espandendo la zona di capacità riflessiva: unendo percorsi diversi – grazie al lavoro in collaborazione di cui qui trovate le tracce.
- Claude ha recentemente proposto un brano dell’attivista Jérémie Zimmermann, dove si espone una visione molto affine a quella che ispira questo laboratorio, in un’altra prospettiva, divertente. Affine all’idea di popolare gli interstizi fra gli spazi colonizzati dai mercanti – con la forza della fantasia. Il brano era in francese – in quattro e quattr’otto è stato tradotto, senza che il sottoscritto abbia mosso foglia, perso negli spazi della modellazione 3D. Riportiamo il brano qui sotto, con qualche piccolo aggiustamento ma senza imprigionare la fluenza del parlato.
Datalove è un’aggregazione emersa in una piccola comunità internazionale con forte prevalenza svedese che, agli inizi, si chiamava “Telecomix”.
Eravamo un gruppetto, dieci o quindici, allora, e sperimentavamo gli usi sociali dell’internet. Sperimentavamo modalità sia di interazione, sia di comunicazione: una cosa molto spontanea, molto impressionante, di per sé.
Eravamo impressionati dal fatto che la metà dei partecipanti al canale IRC [canale di discussione riservato] fossero ragazze, cosa piuttosto rara nella comunità hacker dove, di solito, c’è una fortissima componente maschile. E parlando del più e del meno, è emersa questa nozione di Datalove come, in qualche modo, una specie di prolungamento di quel che è l’amore nella sfera digitale.
Non cerco di definirla, perché è la stessa cosa che definire l’amore, è una cosa un po’ stupida e ciascuno può avere la sua definizione e poi, lo sappiamo bene, l’amore è qualcosa di universale, nessuno ha bisogno di essere d’accordo su una definizione, per provarlo. Per me, Datalove sono le emozioni che possono essere suscitate attraverso delle tecnologie digitali.
Un esempio proprio stupido: farsi una domanda esistenziale che ci si è sempre fatti e un giorno dirsi: – Ehi, ma se andassi semplicemente a guardare su Wikipedia e là trovare la risposta, formulata in dieci modi differenti da cento persone di diverse, con una discussione sull’argomento e semplicemente trovare la soluzione. È cercare una canzone di Fela Kuti e imbattersi sull’album integrale in file BitTorrent, in formato flac o di una qualità geniale, e voilà. Morire dall’emozione di trovare un mucchio, un mucchio di file.
E vedo questa cosa come una proiezione della nostra umanità attraverso il digitale e attraverso internet. E troppo spesso tendiamo a lasciare un po’ tutto questo ai tecnici, o anche peggio, ai commerciali, e a dimenticare un po’ che si tratta soprattutto di esseri umani che stanno dietro ai loro terminali, loro stessi interconnessi globalmente in rete e che internet è forse soprattutto la somma delle nostre umanità, prima di essere la somma dei nostri megabyte, dei nostri megabit per secondo, dei nostri gigahertz dei microprocessori. Si tratta soprattutto di esseri umani interconnessi tra di loro.
Può essere che sia questo il Datalove: creare il collegamento tra la macchina universale, la rete globale e, semplicemente, gli esseri umani e le umanità che ci sono alla fine. Per definizione, il Datalove è qualcosa di universale, come l’amore, che è, in effetti, il fatto di amare internet.
Amiamo internet e abbiamo visto le persone scendere in strada a migliaia contro ACTA, l’Anti-Counterfeiting Trade Agreement, l’accordo commerciale anti contraffazione: in 300 città d’Europa, lo stesso giorno, centinaia di migliaia di persone che erano in strada per opporsi a un accordo commerciale, multilaterale, negoziato dalla Commissione e dal Consiglio dell’Unione Europea, facendo intervenire il diritto penale. Insomma, un troiaio incomprensibile.
Ma le persone erano in strada perché volevano difendere la loro internet, perché amiamo internet. E cosa ci fa amare internet? Non amiamo le macchine, non le amiamo d’amore. Le possiamo trovare piacevoli, utili, possono rinviarci una bella immagine di noi o qualcosa del genere, ma amiamo internet perché amiamo quello che c’è dall’altra parte dello schermo. E quello che c’è dall’altra parte dello schermo, non sono solo le macchine, è l’umanità intera.
Internet è una finestra sul mondo, una finestra sull’umanità. E ho l’impressione che quello che amiamo è la somma di tutto quello che gli altri investono lì dentro. In effetti, quello che amiamo è l’umanità.
E quindi, non credo che si tratti di una funzione di quanto tempo si spende su internet; e poi ci sono persone che rimarranno per tutto il giorno, tutta la notte, connessi su una cosa che può essere World of Warcraft, o Facebook, o un gadget qualsiasi. Non è davvero così Internet.
Dunque io penso che sia qualcosa che avviene rapidamente quando si capisce o quando comprendiamo che Internet non è solo una macchina, non è semplicemente un televisore migliore, non è solo una console per videogiochi migliore ma è veramente una finestra sul mondo, è dove la dimensione emozionale e a volte per qualcuno un po’ mistica ha un senso e questo è ciò che chiamiamo Datalove.”
Reblogged this on Il Blog di Tino Soudaz 2.0 ( un pochino).
Il mio logo, un po’ scarabocchiato, rappresenta internet per me: fili di pensiero interconnessi specializzati in lampi e arcobaleni.
Un mondo basato sulla collaborazione, il datalove e l’articolo tradotto (non avrei avuto accesso al contenuto se persone generose non avessero lavorato alla traduzione e questa messa a disposizione), le licenze creative commons, gli ambienti come questo in cui leggi idee ed esprimi idee, così, per il gusto di condividerle!
Dall’articolo e dai commenti mi sembra emergano due differenti tipi di condivisione: quella libera e disinteressata che nasce da un naturale bisogno umano di comunicare e quella invece ristretta ad una cerchia limitata di persone determinata più o meno fortemente da interessi personali, presumibilmente di tipo economico, ma non solo. A volte, l’interesse può nascere dalla semplice esigenza di percepirsi come appartenenti ad un gruppo che si riconosce da obiettivi e competenze comuni.
Forse è solo questione di prospettiva: il gruppo inteso come umanità o il gruppo inteso come parte limitata e distinta della stessa umanità.
Così … mi viene in mente la piramide di Maslow.
Concordo con Luisella relativamente all’utilità di utilizzare le classi digitali … i vantaggi nel comunicare anche tramite questi nuovi ambienti sono enormi ( e inattesi).
Martina Palazzolo
La cosa incredibile è che proprio la sera prima che tu pubblicassi questo post, Andreas, è che, se tu avessi potuto dare un’occhiata al mio browser, tra i tab aperti avresti visto una ricerca con le parole “makers movement” e un’altra con FabLab, nonché una pagina aperta su FabLab Pisa. Telepatia? Non conoscevo queste due realtà, ci sono capitata leggendo un post su un padlet del Future Classroom Lab (un corso on line che sto seguendo in questo periodo). Una cosa è certa, tutto va in quella direzione. Proprio stamani rispondevo a un messaggio di Lucia, che mi chiedeva della mia esperienza in Book in Progress. Esperienza non ne ho, ma come dicevo a lei, quello che non mi piace di quella rete è che i testi sono riservati a chi fa parte della rete, e invece secondo me la forza dirompente del progetto sarebbe centuplicata se i libri prodotti venissero diffusi in Creative Commons. Ma a capirlo non ci sono ancora arrivati in molti, troppi direi.
Sempre la scorsa settimana, ho partecipato a un incontro organizzato da una rete di scuole di cui la mia fa parte e che si intitolava “La scuola ai tempi di Facebook”. La persona che teneva il corso sembrava uscire da un’altra epoca, in pratica ci ha detto che noi insegnanti dovremmo comunicare con gli studenti quasi esclusivamente in classe, e che non ha senso che comunichiamo con loro via social network o anche via classe virtuale se le stesse cose gliele avremmo potute dire in presenza. Ha anche detto che non ci dobbiamo occupare della relazione ma solo di insegnare (e io pensavo, ma come si fa a insegnare qualcosa a qualcuno se non c’è una relazione?). Mah!
Grazie, Andreas – anche questa possibilità di buttare così l’idea di una traduzione collaborativa in un commento a un tuo post, e che questa avvenga in un giorno, è frutto dello stesso spirito #loptis – datalove. Grazie a Roberto e Antonella che l’hanno realizzata.
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Perché amiamo Internet?