Un’amica mi scrive, a proposito di ciò che ho scritto in fondo al dubbio:
Stamani mentre andavo a Careggi ascoltavo Rete Toscana Classica: c’era un’intervista al maestro Bellugi che diceva la stessa cosa ! Continuava dicendo che si deve far scoprire come è bello partecipare e far rivivere insieme grandi musiche. Ha anche raccontato un aneddoto che gli è capitato quando era ricoverato in ortopedia per un piccolo intervento: un ragazzo di 15 anni era nel letto accanto e quando il maestro gli ha detto che nel walkman stava ascoltando musica classica, si è incuriosito. Quando gli ha passato gli auricolari e fatto ascoltare l’ultimo movimento della IX di Ludwig vB (Berliner Philarmoniker e C.Abbado) il ragazzo ha iniziato a piangere: “è un mondo bellissimo: non sapevo che esistesse”. Da allora il ragazzo ha scoperto Mozart, Dvorjak, Schubert e iniziato un epistolario con il maestro
Un’altra amica, sconsolata, scrive:
dal mio punto di vista, avendo a che fare con bambini che hanno difficoltà di apprendimento (quello che un tempo veniva schedato come “dislessia” o similari) ho saputo cose al limite dell’oscenità sul cambiamento dei metodi della didattica, a cominciare dal fatto che i pupetti vengono, quasi in tutti gli asili, bombardati di stronzate sulla scrittura, con la scusa di prepararli alla scuola … non si disegna, non si crea, non si usa l’emisfero destro… adesso neanche più si lascia che il bambino si sviluppi col proprio ritmo, che lo renderebbe, per un meraviglioso miracolo della natura, spontaneamente curioso e capace
E un altro amico ancora:
… essendo 18 anni che faccio l’allenatore di pallavolo giovanile ho notato una profonda rivoluzione del metodo scolastico…e cioè ai ragazzi viene imposto una maggior mole di lavoro alla quale solo i più predisposti alla applicazione costante riescono,spesso andando a ripetizione, a svolgere.
Credo però si siano dimenticati che quantità non è certo sinonimo di qualità…infatti questi ragazzi che poi vengono in palestra pur avendo degli ottimi voti a scuola e delle buone capacità fisiche/cordinative non riescono poi a risolvere problemi di natura logica sia legati al contesto del sport,che quello della loro vita relazionale quotidiana.
Io credo che questo dipenda fortemente dal metodo scolastico in cui è poco prevista l’interdisciplinarietà delle varie materie, e la stimolazione dell’alunno ad un ragionamento proprio.
L’alunno infatti viene spesso abbandonato con la sua mole di lavoro a leggere e ripetere dei concetti….sicuramente il metodo di più facile applicazione da parte dei professori,ma di sicuro il meno stimolante per gli allievi. Di certo ci sono professori in gamba che sanno fare bene ed in modo stimolante il loro mestiere…
Emozionante questo commento, in estrema sintonia con ciò che sento e che cerco, goffamente, di dire.
Proprio quello che penso: al centro gli studenti e la passione.
Era proprio questo in realtà il concetto che doveva passare nel seminario pazzerello su Patch Adams.
La storia che racconti ha delle analogie con ciò che ho vissuto.
Un figlio straordinario, Gregorio, che mi è stato maestro più dei pochi altri che ho avuto, ci ha lasciati due anni fa, a vent’anni.
Sono cambiate molte cose dopo e il modo con il quale vivo l’impegno didattico coincide con quello che tu hai descritto e che mi ha commosso.
Grazie
Andreas
Penso, anzi, spero che questi temi facciano parte del prossimo “dibattito” sulla “riforma” della scuola. Lo so che parlare di “dibattito” e di “riforma” suona politichese, e non vorrei certo essere frainteso. Voglio soltanto dire che in tanti anni di duro lavoro sul campo, in trincea, dove si sperimenta l’innovazione insieme agli insegnanti, ho capito che non sono le alchimie sul curriculum o le pseudo-rivoluzioni metodologiche che restituiranno alla nostra scuola un volto umano. Sarà la capacità di riportare al centro di ogni discussione prima di tutto gli studenti, e poi qualcosa che vorrei chiamare passione. Cosa si può pretendere di insegnare se non si riesce o non si vuole stimolare la curiosità intellettuale, la gioia della scoperta, la voglia di sperimentare? Ce lo hanno sussurrato uomini come Papert, o Brown, ci hanno detto che la scuola dovrebbe diventare una “community of thinking”, un ambiente senza pareti, trasparente rispetto al mondo e non orgogliosamente separato, isolato nelle sue astrazioni. E dovremmo crederci, provarci, perchè è (ancora) a scuola che prendono forma gli esseri umani, ed è una responsabilità troppo importante, nessuno può permettersi di delegarla. Nella mia lunga esperienza di formatore di insegnanti spero di aver lasciato qualche traccia di “passione”. Ma se ci penso sono sicuro di averlo fatto una sola volta, un giorno a Carpi, poco dopo che, proprio lì, era morto, ancora molto giovane, un carissimo amico. Ero in uno stato emotivo difficile da gestire quel giorno, e anzichè impostare la mia conferenza sulle slides e tenendo a mente obiettivi da raggiungere e conoscenze da trasferire, mi lasciai andare a una sorta di monologo su cosa avremmo potuto fare per recuperare il piacere di fare scuola, come insegnanti, e restituire ai ragazzi il piacere di frequentarla, puntando sull’integrazione delle tecnologie, su reali innovazioni, metodologiche, organizzative, sociali. Non ricordo esattamente cosa dissi, ma lasciai perdere i modelli teorici e feci esempi concreti, cercai di immaginare cosa si sarebbe potuto fare. E ci misi letteralmente l’anima, dopo un’ora ero stremato. Ma alla fine della conferenza un’insegnate si alzò in piedi e disse, con un po’ di emozione, che come molti colleghi era demotivata, ma voleva ringraziarmi perchè ascoltandomi aveva ritrovato un po’di speranza, aveva capito quanto poteva essere importante, aveva di nuovo voglia di mettersi in gioco. Non avrei potuto fare di più, neanche con un intero ciclo di seminari… quell’insegnante non aveva acquisito da me nessuna informazione, ma aveva trovato nel mio discorso spunti per cominciare a pensare. Vorrei riuscire a fare altrettanto ogni volta che entro in un’aula o lavoro in rete, anche se comporta fatica. Perchè insegnare e imparare non sono una passeggiata programmata da un’agenzia turistica: sono un cammino faticoso, un viaggio, dentro e fuori di noi. E proprio come in un viaggio dovremmo evitare di concentrarci troppo sulla nostra meta, per non perdere il paesaggio che stiamo attraversando…
Mario Rotta