I signori della scarsità

Conoscete la lettera aperta indirizzata da 33 premi Nobel al Congresso Americano? Quella dove si affermava l’importanza del’accesso libero alla letteratura scientifica? Se non la conoscete potete andare a leggerla in un post che avevo scritto sul tema dell’open access. Recentemente è apparso un articolo sul Guardian, firmato da George Monbiot, intitolato A confronto degli editori accademici Murdoch sembra un socialista. Un articolo perfetto per chiosare la serie dei post sulla letteratura scientifica (assignment 6 per gli studenti di medicina). Un articolo che si collega anche molto bene al post sulla ricostruzione della blogoclasse, dove scrivevo:

Ora che principio ad avere le idee chiare sulle possibilità del metodo della blogoclasse, dei contesti nei quali esso funziona più o meno bene, inizia ad avere senso l’investimento di maggior tempo nella definizione accurata dei suoi componenti, e ciò comporta, a sua volta, la necessità di costruirseli da se. Fortunatamente, con il software questo si può fare e non solo, si può anche andare oltre il mero aspetto della performance tecnologica, si può anche fare una scelta di campo di natura ideologica, se non filosofica, grazie all’esistenza del software libero, o più generalmente e più correttamente, di una cultura del libero scambio dei prodotti dell’ingegno, una messe ricchissima che abbonda nell’umanità e che tante forze economiche vorrebbero ridurre in regime di scarsità.

A partire dagli anni ’80 il mondo intero si è abbandonato ad una formidabile sbornia liberistica, catalizzata dalla frantumazione del blocco sovietico con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989. Una solenne ubriacatura che ora tocca pagare. Un conto pesantissimo che graverà purtroppo sulle spalle dei nostri figli e ancor più su quelle dei nostri nipoti. Quei debiti pubblici che – chi più, pochi meno – le democrazie occidentali non sanno più come colmare, rappresentano un furto perpetrato a danno dei 3/4 di poveri del mondo e a danno di tutti i nostri figli. Quei debiti sono causati da conti fatti male, basati su una sconsiderata fiducia nel liberismo economico, una fiducia molto vantaggiosa nel breve termine per i ricchi del mondo – noi inclusi – ma una fiducia assai poco fondata per tutti nel lungo periodo. Ma quei debiti sono anche causati dal fatto che un sistema economico a briglie sciolte favorisce l’insediamento di gruppi di potere i quali prima o poi si rivelano essere delle vere e proprie bande di grassatori. Signori della scarsità, che si appropriano in maniera indebita di beni e risorse che non hanno prodotto e sulle quali lucrano a spese del mondo intero.

L’editoria accademica è un esempio formidabile di scarsità creata artificialmente per generare profitti indebiti. Un esempio particolarmente grave, perchè in grado di soffocare la libera circolazione delle idee e delle conoscenze. Traduco qui di seguito, nei limiti delle mie possibilità, l’ottimo articolo di Monbiot, raccomandando, se possibile di leggere l’originale sul Guardian, o meglio, la versione sul sito dell’autore, arricchita da una ricca bibliografia; un bell’esempio di giornalismo.

Chi sono i capitalisti più spregiudicati del mondo occidentale? Quelli le cui pratiche monopolistiche fanno sembrare Walmart una bancarella e Rupert Murdoch un socialista? Sarà ben difficile che lo indoviniate. Per quanto i candidati siano numerosi, la scelta non ricade sulle banche, sulle compagnie petrolifere o sulle assicurazioni sanitarie, bensì – udite, udite – sugli editori accademici. Quello dell’editoria scientifica potrebbe rappresentare un settore stantio e insignificante. Niente di questo. È necessario che le autorità garanti della concorrenza includano quanto prima questo tipo di business indebito nel novero delle tante malefatte perpetrate dalle corporations.

Chiunque sarebbe pronto a sostenere l’importanza del ruolo della conoscenza scientifica e della ricerca accademica, una conoscenza che è a fondamento del funzionamento delle democrazie moderne. Tuttavia gli editori hanno messo un lucchetto e un cartello “vietato l’ingresso” al giardino della conoscenza.

Probabilmente a pochi piace la politica commerciale di Murdoch, per la quale ogni 24 ore di accesso al Times o al Sunday Times vi costano 1 £ (1.14 € al cambio odierno). Ma almeno, durante tale tempo, voi potete leggere e scaricare tutti gli articoli che desiderate. Invece, la lettura di un singolo articolo pubblicato nelle riviste scientifiche di Elsevier vi costerà 31.50 $ (22.83 €); Springer vi farà pagare 34.95 €, Wiley-Blackwell 42 $ (30.44 €). Leggetene 10 di articoli e pagherete 10 volte tanto. E nel frattempo le riviste detengono i diritti di copyright ad libitum. Volete leggere una lettera all’editore pubblicata nel 1981? Ebbene, fanno 31.50 $ (22.83 €).

Naturalmente, potete andare a cercare gli articoli in una biblioteca, almeno finché ne trovate una. Ma anche le biblioteche devono sopportare costi esagerati per gli abbonamenti alle riviste. Il costo medio di un abbonamento annuale a una rivista di chimica è di 3792 $ (2748 €). Alcune riviste arrivano a cifre dell’ordine di 10000 $ (più di 7000 €) annui. Il record, fra quelle che abbiamo visto, è detenuto da Biochimica e Biophysica Acta della Elsevier, per un ammontare di 20930 $ (15169.26 €). Sebbene le biblioteche universitarie abbiano cercato di tagliare i costi degli abbonamenti per rientrare nei bilanci, questi consumano il 65% dei loro budget; di conseguenza finisce che si operano tagli sugli acquisti dei libri [N.d.T. Cosa per nulla buona] Gli abbonamenti alle riviste scientifiche assorbono oggi quote significative dei costi delle università, che poi ricadono anche sulle quote pagate dagli studenti.

Murdoch paga i giornalisti e gli editori, e le sue aziende creano in proprio i contenuti. Invece gli editori accademici ricevono gli articoli a titolo gratuito, il lavoro di revisione dei medesimi (peer reviewing) viene fornito dai ricercatori, anch’esso in modo gratuito, e così pure una buona parte del lavoro di editing. Il materiale che essi pubblicano è stato commissionato e finanziato non da loro bensì da noi, attraverso finanziamenti pubblici e borse di studio accademiche. Ciò nonostante, per leggere gli articoli, dobbiamo pagare un’altra volta, e troppo per giunta.

I profitti sono astronomici: ad esempio, nel corso dell’ultimo anno finanziario Elsevier ha goduto di un margine di profitto pari al 36% (742milioni su un ricavo di 2 miliardi di sterline; 846 milioni su 2280 milioni di €). Profitti che derivano dallo strangolamento del mercato. Elsevier, Springer e Wiley, che hanno inglobato buona parte delle concorrenza, attualmente pubblicano il 42% di tutti gli articoli scientifici.

Quel che è peggio, è che le università sono vincolate all’acquisto dei loro prodotti perché rappresentano l’unico modo per accedere agli articoli scientifici e i ricercatori hanno bisogno di poterli leggere per mantenersi aggiornati nel proprio campo. La domanda non presenta alcun tipo di elasticità e la competizione è inesistente, poiché lo stesso materiale non può essere publicato contemporaneamente su riviste diverse. In molti casi, l’editore costringe le biblioteche ad acquistare un intero pacchetto di riviste, una parte delle quali non sarebbero state altrimenti richieste. Forse non sorprende il fatto che uno dei maggiori furfanti che abbia depredato i cittadini di questo paese – Robert Maxwell – si sia arricchito in gran parte attraverso l’editoria scientifica.

Gli editori sostengono che i costi derivano dalla produzione, dalla distribuzione, e dal rilevante valore che essi aggiungono perché (con le parole di Springer) “sviluppiamo i marchi delle riviste e manteniamo e miglioramo l’infrastruttura digitale che ha rivoluzionato la comunicazione scientifica negli ultimi 15 anni”. Invece un’analisi condotta dalla Deutsche Bank è giunta a conclusioni diverse: “Noi crediamo che gli editori aggiungano un valore relativamente modesto al processo di pubblicazione … se il processo fosse effettivamente così complesso, costoso e ad alto valore aggiunto, come rivendicato dagli editori, nessuno realizzerebbe margini di profitto dell’ordine del 40%”. I grandi editori sono ben lungi dal contribuire alla disseminazione dei risultati scientifici, semmai la impediscono, considerato che la lunghezza dei tempi di pubblicazione può ritardare la diffusione dei risultati anche più di un anno.

Quello che osserviamo qui è puro capitalismo di proprietà: monopolio di una risorsa pubblica distribuita a costi esorbitanti. Oppure un altro termine può essere parassitismo economico: per usufruire della conoscenza per la quale abbiamo già pagato, dobbiamo pagare il nostro tributo ai proprietari feudali della conoscenza.

Un danno per gli accademici, ma un danno ancora peggiore per la comunità. Ad esempio, a sostegno di un articolo, io posso suggerire ai miei lettori degli articoli scientifici validi – vale a dire pubblicati mediante un processo di peer review – in base al principio che ogni affermazione deve essere sostenuta da una fonte accreditata. Poi i lettori mi dicono che a causa dei costi degli articoli, non possono permettersi di verificare autonomamente se la mia descrizione è corretta. E così i ricercatori indipendenti che cercano di informarsi su questioni scientifiche rilevanti devono rinunciare a migliaia di fonti. Questa situazione rappresenta una tassa sulla formazione, un soffocamento della conoscenza e contraddice la dichiarazione universale dei diritti umani, la quale stabilisce che “Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”.

Il modello di pubblicazione open access, malgrado le promesse iniziali e alcune risorse eccellenti, quali la Public Library of Science e il database di archivi di fisica arxiv.org, sembra non avere alterato apprezzabilmente i monopoli esistenti. Nel 1998 l’Economist, in un survey sulle opportunità offerte dall’editoria elettronica, predisse che “i tempi dei margini di profitto del 40% sarebbero presto morti come morì Robert Maxwell”. Tuttavia il margine di profitto di Elsevier del 2010 è stato del 36%, lo stesso di quello registrato nel 1998.

La ragione sta nel fatto che i grandi editori si sono concentrati sulle riviste con gli impact factor [1] più elevati, sulle quali è essenziale pubblicare per fare carriera e per ricevere i finanziamenti per le ricerche. Si può anche iniziare a leggere le riviste open access ma non si può cessare di leggere quelle chiuse.

Gli organi istituzionali governativi, salvo poche eccezioni, non hanno saputo contrastare questa tendenza. Il National Institutes of Health negli Stati Uniti impone a tutti coloro ai quali finanzia ricerche, di porre i propri articoli in archivi open access. D’altro canto, il Research Council britannico, le cui dichiarazioni sull’accesso pubblico sono un capolavoro di ciance prive di significato, conta sull'”assunto che gli editori manterranno lo spirito delle politiche attuali”. Si può scommettere che lo faranno.

Nel breve termine, i governi dovrebbero denunciare gli editori accademici alle autorità garanti della concorrenza, esercitando pressioni affinché tutti gli articoli scientifici prodotti nell’ambito di ricerche finanziante con denari pubblici siano resi disponibili in un archivio pubblicamente accessibile. Nel lungo termine, i governi dovrebbero collaborare con il mondo della ricerca in maniera da tagliare fuori, tout court, tali intermediari, creando – secondo le linee suggerite da Björn Brembs, un neuroscienziato della Freie Universität di Berlino  – un unico archivio globale della letteratura accademica e dei dati. Il processo di peer review dovrebbe essere supervisionato da un organismo indipendente, che potrebbe esere finanziato con i budget delle biblioteche, che invece ora finiscono nelle mani di gruppi privati.

Il monopolio della conoscenza è tanto ingiustificato e anacronistico quanto le leggi protezionistiche inglesi sull’importazione del grano del primo Ottocento. Si mettano fuori gioco questi parassiti privilegiati e si liberi la conoscenza che ci appartiene.

[1] L’impact factor è un indice numerico di importanza di una rivista scientifica. Gli impact factor si usano per pesare le pubblicazioni che un ricercatore, un gruppo di ricerca o un intero dipartimento, adducono a riprova della propria produttività scientifica. Un lavoro con impact factor doppio vale il doppio. L’impact factor della rivista X, per un dato anno, si calcola prendendo il numero di citazioni, apparse in qualsiasi altra rivista nei due anni precedenti, degli articoli articoli pubblicati in X, e dividendolo per il totale degli articoli pubblicati in X negli stessi due anni.

35 pensieri riguardo “I signori della scarsità”

  1. E qui, dopo tutte le riflessioni sulla necessità di tenersi aggiornati ed informati, sul bisogno di conoscere la verità su certe dinamiche, mi ritorna il problema del controllo delle fonti…intendo la loro fondatezza. Sul web girano milioni di informazioni e miriadi di siti…come faccio a sapere se ciò che sto leggendo è verità!! È un cruccio che ho da tempo e non riesco a darmi risposta perché, per quanto mi metta a cercare e leggere, alla fine resto con un opinione e poche certezze…tutti questi dubbi soprattutto perché spesso e volentieri mi rendo conto di quanto l’informazione sia manipolatrice…credevo che per tenermi “aggiornata” in modo veritiero fosse buona cosa visitare il sito ANSA ma anche li ho spesso la sensazione di leggere notizie simili pubblicate regolarmente per lo scopo di indurre chi legge a pensarla in un certo modo…e allora? Esistono VERE VERITÀ ?

    1. la verità oggettiva non esiste
      nel senso che ti viene comunque raccontata da qualcuno
      e nessuno ha doti divine
      e anche ciò che vedi te medesima/o
      difficilmente può ritenersi oggettivo
      sennò l’arte espressionista che ci starebbe a fare?

      e allora esistono
      l’umiltà
      la volontà pervicace
      l’onesta verso se stessi – dalla quale discende quella verso gli altri

      per non smettere mai di inseguirla, la verità
      ben sapendo che non la raggiungeremo mai
      e per fortuna forse
      che sennò sarebbe la fine della vita

      e sapendo che tale ricerca
      è la condizione
      che rende la vita degna di essere vissuta

      1. Reduce da uno scambio di opinioni con una collega “malefica” -considerata tale e pericolosa da quasi tutto il personale dell’Istituto nel quale opero-sul significato di “falso d’ufficio” che mi sono rifiutata di allegare a un verbale, torno con le ossa rotte, il morale a terra e un groviglio di lacrime perché sembra di gettare sempre acqua fresca nella fogna. Si cerca di costruire per un anno intero e si arriva al traguardo toccando con mano la realtà “non è non cambiato nulla”. E la consapevolezza che ovunque ci sono persone come lei che hanno come dictat “mentire, mentire, sempre mentire”. Se tanto può un singolo, quasi ininfluente docente come sperare in un mondo più vasto? Editoria, politica… E poi trovo queste parole. Parole che mi danno conforto e ristoro. A volte ho la sensazione di non riuscire a scardinare la falsità nel quotidiano e chi ci pensa a cercar la verità nel web? Però le parole di Andreas “volontà, umiltà e onestà” sono monito e al contempo mi spronano ad andare avanti, a una lotta non violenta, ma caparbia, credendo realmente che tale ricerca è condizione affinché una vita sia degna di essere vissuta.
        So che non probabilmente non è utile al tema, ma spesso nella quotidianità servono anche riflessioni “rubate” da altri contesti. Come è capitato a me. Oggi. Ora.

        1. la verità oggettiva esiste sennò stiamo solo ccumulando ciance e non conoscenza e la riproducibilità è un caso , se lei mi dice dobbiamo tendere ad essa ma non la possiamo cogliere allora mi trova d’accordo.

  2. Più leggevo e più il senso d’ angoscia saliva.
    Continuo a rendermi conto sempre di più delle ingiustizie che ci sono in questo mondo e di quanta gente ingorda e assetata di denaro ci sia , che mette da parte il sapere e la conoscenza per qualcosa di effimero e momentaneo.

  3. Dopo aver letto il post di Andreas, l’articolo di George Monbiot, i commenti e i relativi articoli collegati sono giunto a queste conclusioni:

    1. l’editoria accademica contribuisce in maniera rilevante alla divulgazione scientifica (si consideri la quantità e la qualità delle pubblicazioni);

    2. l’editoria accademica favorisce in un certo qual modo il cambiamento dello status quo (il dibattito su questo tema è al livello mondiale, un parallelo significativo è lo sviluppo del software libero in alternativa al software proprietario);

    3. l’editoria accademica contiene in se degli elementi di debolezza che ne determineranno la sua stessa fine (la lentezza nelle pubblicazioni innanzitutto, il pregiudizio contro le opere ed i risultati molto originali da parte dei recensori, le possibili frodi almeno nel breve periodo).

  4. Più leggevo l’articolo più provavo un senso di ribellione, verso un sistema che vuole apparire democratico mentre in realtà è quanto di meno democratico possa esistere.
    Accedere alla conoscenza, a quella con la “C” MAIUSCOLA, a quella che dovrebbe essere il motore di un cambiamento reale, a quella che dovrebbe darci le chiavi per comprendere la complessità della società (Morin) dovrebbe essere accessibile a tutti a costo zero, o comunque a costi contenuti-
    L’articolo ben evidenzia come in realtà, accedere al sapere vuol dire entrare in un mercato esclusivo, e tutto questo è, a mio parere, la negazione della democrazia reale, ( vorrei segnalare con leggerezza una canzone di Fossati “cara democrazia”, video in youtube) con Antonella , lo scorso anno ci abbiamo lavorato in merito al corso di “Comunicazione Generativa”.
    Come combattere il sistema? Proprio conoscendo i sistemi di cui bene o male siamo “prigionieri”, avendo consapevolezza per questo……grazie prof.
    Quello che mi affascina di questo percorso di editing è scoprire ogni volta la complessità umana che si nasconde dietro ogni aspetto tecnologico.

  5. Sì Antonella, è proprio vero: la superspecializzazione dei saperi ha effetti deleteri, di vario tipo. Un mondo di “superomìni” stupidi dove i poteri tracotanti fanno agevolmente man bassa. L’unica speranza siete voi: insegnanti che sappiano tirar su donne e uomini capaci di alzar la testa per guardarsi attorno, di tanto in tanto.

  6. Il tema interessantissimo riprende o si riallaccia alla denuncia di Stallman (spero di averlo scritto giusto), ossia quando denuncia l’ipocrisia sistemica verso la cosiddetta tutela del copyright. Certo, il sapere scientifico al suo più alto livello è un bene prezioso per l’umanità, che dovrebbe potere essere aperto al grande pubblico. E’ come se noi volessimo precludere alcune delle meraviglie del mondo alla visione libera, tutti ne insorgeremmo con palesi lamentazioni; il fatto forse che si stia parlando di saperi molto specializzati e ritenuti ingiustamente per gli addetti del settore, forse fa cattivo gioco a noi e buon gioco ai furbacchioni (per usare una parola gentile)…possibile che non c’è una via efficace e tempestiva per venirne fuori o alleggerire gli ostacoli? (scusate la mia ingenuità, immagino che dove ci sono grandi interessi di pochi eletti da difendere, a poco possono valere le considerazioni dei molti)

  7. Mi associo al mio compagno.. grazie professore per avermi fatto conoscere questa brutta realtà degli interessi economici e dei profitti che ruotano intorno alle riviste scientifiche.. a discapito prima di tutto dei ricercatori che affrono a “gratis” i propri lavori, ma anche delle univesità/biblioteche che sono costrette a sborsare un sacco di soldi per pagare abbonamenti a prestigiose riviste scientifiche e indirettamente pure noi studenti!! Tutto questo lascia davvero l’amaro in bocca.. è una cosa veramente scandalosa!!

  8. grazie professore per avermi fatto conoscere questo problema. Non possiamo nemmeno accedere alle conoscenze già pagate con le nostre tasse. Dovremmo trovare un modo per ribellarci, ma la maggior parte delle persone neppure lo sa di come funziona l’editoria scientifica. Ringrazio anche Margherita, è molto interessante quel blog.

  9. Vorrei segnalare questo articolo trovato su Oggi Scienza: non solo questi editori spregiudicati lucrano, e con profitti esorbitanti, sul sapere scientifico che dovrebbe essere alla portata di tutti, ma talvolta non esitano a pubblicare veri e propri plagi. Certo, la colpa è anche ed in primo luogo degli autori che in un clima di competizione e corsa alla pubblicazione non esitano a rubare e scopiazzare materiale di altri colleghi invece di citarli come fonti…ma dati i mezzi a disposizione degli editori per controllare che il lavoro da pubblicare non sia effettivamente un plagio, come non scandalizzarsi di fronte a cose come questa:

    http://oggiscienza.wordpress.com/2012/03/22/diffidare-delle-imitazioni/

  10. Porci ingordi che pensano solo al denaro, ma possibile che l’altruismo in questo mondo sia sparito, e che tutto sia controllato da persone che sicuramente non hanno nemmeno idea di quali risorse gestiscono e di cosa parlano…Bah!!

  11. La cosa che mi scandalizza di più è che, oltre a fare una montagna di soldi impediscono a persone volenterose, ma che potrebbero avere scarse risorse finanziarie, di documentarsi a dovere….e se questi mancati lettori,se debitamente aggiornati, grazie alle letture(ora come ora a loro negate) in un futuro avrebbero potuto scoprire un qualcosa di grandio e geniale,come la cura definitiva per il cancro…………??

  12. Di lobby che cercano di far soldi sulla ricerca scientifica cè ne sono molte, e non tutte si occupano di editoria. Cè anche una lobby degli ausili per la ricerca come provette, bilance, spatoline, prodotti chimici, ecc. Dove lo stato da finanziamenti ma solo per comprare qual dato tipo di materiale, e magari sei anche costretto a spendere quei soldi anche se di provette il laboratorio non ne ha bisogno, controsenso di tutto ciò è che poi il laboratorio non riceve finanziamenti per pagare il ricercatore.

  13. Semplicemente scandaloso.
    Sconoscevo questa realtà e ringrazio Andreas per questo suo post che mi fa indignare, non poco, verso questi “mariuoli” della divulgazione scientifica.
    Credevo che i risultati della ricerca accademica e delle conoscenze scientifiche fossero messe a disposizione di tutti, gratuitamente, quale contributo all’umanità. Mi sbagliavo. Quando c’è da fare soldi…
    Povero illuso!

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