Software libero #linf14

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Prima di tutto finalmente un’attività: scaricate LibreOffice. È un analogo di Microsoft Office.

Quando vi chiederemo di produrre delle relazioni – non l’abbiamo ancora fatto – lo dovrete fare usando LibreOffice. Quindi iniziate sin da ora a scaricarlo e esploratelo. Esiste per tutti i sistemi operativi.


Dalle varie considerazioni che abbiamo sin qui proposto emerge un’immagine degli hacker che è in netto contrasto con quella disegnata dai media – dunque artefici di una nuova cultura, addirittura di una nuova etica, o temibili delinquenti informatici? Purtroppo l’informazione ufficiale, la mainstream information, talvolta informa sorprendentemente poco rispetto a quanto comunica e spesso informa anche male. Proviamo ad approfondire un poco.

In realtà il termine hacker è nato intorno agli anni Settanta nell’ambiente dei laboratori di ricerca informatica del MIT, il Massachusetts Institute of Technology, una delle più prestigiose università americane. Ad essere precisi, il termine è nato in un circolo ricreativo del MIT dove i ricercatori, che non di rado sono dei grandi giocherelloni, si baloccavano appunto rimaneggiando permanentemente un grande impianto di ferrovie modello. Presto il termine fu esteso al comportamento tipico del ricercatore informatico che vorrebbe mettere sempre le mani nel software che usa per toglierne i difetti e per migliorarlo.

Il primo grande hacker si chiama Richard Stallman. Dopo essersi laureato in fisica si dedicò alla ricerca in informatica. Fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, Stallman decise di abbandonare il posto prestigioso di ricercatore presso il laboratorio di intelligenza artificiale del MIT per dedicarsi alla causa del software libero, free software, termine inventato da lui medesimo. Stallman è considerato il primo grande hacker poiché è un programmatore geniale con una grande passione per scrivere ottimo software. Tuttavia, oltre ad essere tecnicamente molto bravo, è anche molto sensibile a questioni di interesse pubblico e umanitario. L’idea del software libero gli venne perché, negli anni Settanta, si accorse che le industrie di apparecchi dotati di computer stavano iniziando a considerare il software un vero e proprio prodotto commerciale anziché un mero optional dei loro apparecchi è trovò insopportabile che qualcuno facesse del lucro su qualcosa che era costituito in sostanza da idee. Sì, perché il software non è altro che un modo di scrivere pensieri, è un’astrazione. Come tale, Stallman riteneva che qualsiasi prodotto software, appena concepito, dovesse entrare immediatamente a far parte del patrimonio culturale comune, cioè del cosiddetto pubblico dominio.

L’iniziativa di Stallman all’inizio fu considerata quella di un visionario ma presto trovò tantissimi adepti, prendendo a crescere esponenzialmente. Il concetto stesso di software libero ha dato luogo a una serie di varianti, prima fra tutte il software open source – vediamo dopo la differenza – sta di fatto che oggi le persone che scrivono software al di fuori di una logica strettamente monetaria sono decine di milioni, forse centinaia. Non solo, queste forme di software sono diventate un componente essenziale della tecnologia informatica ed hanno indotto le più grandi aziende informatiche del mondo, le cosiddette aziende di Information Technology (IT) a rivedere alla radice il loro modo di produrre software e di venderlo.

Nell’idea di Stallman, il software libero è determinato dalle seguenti quattro libertà:

  1. libertà di eseguire il programma per qualsiasi scopo
  2. libertà di studiare il programma e modificarlo
  3. libertà di ridistribuire copie del programma in modo da aiutare il prossimo
  4. libertà di migliorare il programma e di distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio

La propagazione di queste libertà nel corso dello sviluppo di un software è garantita dal concetto di  copyleft: un modello di gestione dei diritti d’autore che consente all’autore (in quanto detentore originario dei diritti sull’opera) di imporre ai fruitori e modificatori dell’opera di redistribuirla con lo stesso regime giuridico (e generalmente sotto la stessa licenza). In questo modo, il regime di copyleft e tutto l’insieme di libertà da esso derivanti sono sempre garantiti. Cercheremo di approfondire successivamente il concetto di diritto d’autore nell’epoca di Internet.

 

Nasce il substrato adatto: Internet

Ma come ha fatto una cosa così strana a diffondersi così tanto? Sembra un evento in assoluta controtendenza visto che oggi sembra di dover pagare tutto, anche ogni respiro d’aria! La risposta è Internet. All’inizio, diciamo negli anni ’70, non era Internet come la conoscete ora voi, fatta di browser, link e mouse, ma era una versione più castigata, fatta di tastiere e comandi astrusi scritti su terminali neri con scritte bianche, disponibili solo nelle università e nei centri di ricerca. In quella fase iniziale tuttavia la grafica e la facilità d’uso giocavano un ruolo marginale perché chi si dedicava a queste cose non aveva difficoltà ad usare un computer. La chiave di volta della nascita del software libero e dei suoi derivati si è rivelata essere invece la possibilità di potersi connettere ad una rete e scambiare con grande facilità informazioni e codici. L’idea del software libero di Stallman aveva senso proprio perché già negli anni Settanta qualunque ricercatore poteva spedire il proprio codice software a intere comunità di sviluppatori.

Software libero e Internet sono due elementi fondamentali della tecnologia di oggi e sono nati quasi contemporaneamente, sviluppandosi di concerto: da un lato la rete Internet ha favorito lo scambio del software fra gli sviluppatori e dall’altro Internet stessa è costituita da componenti fatti di software libero. Forse a qualcuno può parere strano che Internet sia fatta anche di software, immaginandosi Internet come una moltitudine di computer collegati da cavi: si tende a pensare ai collegamenti, ai fili e alle radiazioni che in qualche modo collegano le macchine. Invece i collegamenti rappresentavano proprio uno dei problemi da risolvere perché ce n’erano, e ce ne sono, di tanti tipi diversi. Non solo, anche di computer ce ne sono tanti di tipi diversi. Già agli albori dell’informatica, negli anni Sessanta, i centri di ricerca e le università più grandi avevano la necessità di collegare i propri computer per scambiarsi i dati ma collegare tanti sistemi diversi era un vero e proprio incubo.

La grande innovazione di Internet è consistita nell’adozione di componenti software che consentissero a computer molto diversi fra loro di dialogare e scambiarsi dati di ogni tipo. Il progetto di Internet fu commissionato dall’esercito americano ad un gruppo di università negli anni sessanta con la missione di realizzare una nuova tecnologia in grado di far riguadagnare all’America il primato tecnologico messo in discussione dal recente lancio del primo satellite spaziale Sputnik da parte dell’Unione Sovietica. Malgrado questa origine militare, negli anni Sessanta e Settanta in molti atenei americani si respirava un’atmosfera orientata a valori di libertà e di condivisione delle risorse, in parte per motivi di tradizione accademica e in parte per l’influenza dei nuovi movimenti sociali e politici. Questa atmosfera ispirò fin dall’origine l’architettura e la funzionalità di Internet.

Gli strati successivi di software che hanno arricchito la funzionalità di Internet, fino a giungere alle sofisticate interfacce grafiche di oggi, sono stati sviluppati in modo cooperativo con crescente facilità proprio grazie alla presenza di Internet stessa. Una sorta di ciclo virtuoso che, in buona parte, spiega la crescita esponenziale delle potenzialità di Internet. Intorno alla rete si è sviluppata così una sterminata comunità di programmatori diffusa in tutto il mondo: un esercito di hacker! Una comunità inizialmente costituita da ricercatori, nell’area dell’informatica e delle tecnologie di telecomunicazioni, ma successivamente anche studenti di ogni ordine e grado di scuole e anche di appassionati, che si è dedicata e si dedica allo sviluppo di qualche componente software per il puro divertimento di farlo e per la gratificazione di sapere che il risultato delle proprie fatiche è destinato ad essere utilizzato da comunità anche vastissime di utenti.

Il secondo grande hacker

Ora che conosciamo il primo grande hacker, vale la pena di menzionarne un altro: Linus Torvalds, il creatore del sistema operativo Linux. Nel 1991, ventiduenne, ancora studente di informatica a Helsinki, distribuì un messaggio in Internet rivolto alla comunità di tutti coloro che si occupavano di sistemi operativi, dicendo che aveva iniziato a scrivere un sistema operativo Unix che poteva funzionare nei personal computer. Il sistema operativo è il software che serve a dare le funzionalità di base al computer. Il più noto è Windows, molto diffuso, costoso e, specialmente a quei tempi, poco stabile. Ebbene, Linus Torvalds si era messo in testa di scrivere un sistema operativo uguale a Unix, che da oltre vent’anni veniva usato sui grossi computer nei laboratori di ricerca e nelle università di tutto il mondo, ma in una versione che potesse essere ospitata dai piccoli personal computer che ormai iniziavano a diffondersi un po’ ovunque. Il motivo stava nel fatto che Windows è sempre stato piuttosto instabile mentre Unix era ormai da tempo un sistema molto robusto.

La cosa veramente rivoluzionaria fu il fatto che Linus non si limitò a dire che cosa aveva fatto ma distribuì liberamente il frutto della sua fatica. Un comportamento che sarebbe parso del tutto dissennato dal punto di vista di un’azienda di software. In sostanza Linus era un hacker che aveva aderito alla proposta di Richard Stallman di diffondere liberamente il proprio software. L’adesione di Linus al progetto di Stallman ebbe anche risvolti pratici perché utilizzò molti componenti software di Stallman. Il nuovo sistema operativo, noto con il nome di Linux e talvolta anche con quello di GNU/Linux perché GNU rappresenta la parte realizzata da Stallman, si è sviluppato e diffuso in tutto il mondo ad un ritmo assolutamente imprevedibile. Si può tranquillamente dire che un fenomeno del genere non si era mai verificato prima. La prima versione del sistema Linux, che Linus aveva distribuito nel 1991, era scritta, all’incirca, in 10000 righe di testo – il software è sostanzialmente testo, anche se molto rigidamente codificato. Ragionando in modo molto approssimativo un libro tascabile di 250 pagine. Da quel punto in poi il sistema operativo iniziò a crescere a dismisura grazie alle aggiunte e alle integrazioni che programmatori, hacker cioè, di tutto il mondo scrivevano freneticamente. Nel 1995 aveva raggiunto la dimensione di 250000 righe e nel 2000 di dieci milioni di righe, che vuol dire un crescita di 25 volte nel 1995 e di 1000 volte nel 2000! Proprio quella che si chiama una crescita esponenziale!

Il fenomeno di Linux e di tanti altri software che sono cresciuti intorno ad esso, è andato ben al di là del prevedibile, investendo l’industria informatica internazionale, la cosiddetta Information Technology, come un tornado che ha costretto le più grandi multinazionali a trasformare radicalmente il proprio modo di fare ricerca, di produrre e di stare sul mercato.

Un esempio per tutti: l’annuncio fatto dal CEO di IBM, Louis Gerstner, nel 2001 di voler investire un miliardo di dollari nell’adozione del sistema operativo Linux in tutte le tipologie di computer venduti dall’azienda coinvolgendo in tale attività circa 1500 dipendenti. Ancora più sorprendente fu l’annuncio diffuso l’anno successivo con il quale IBM dichiarava di avere già recuperato quasi per intero questo enorme investimento. Se c’è un’azienda che nel mondo incarna più di tutte le altre l’immagine di una grandissima multinazionale, già da più di mezzo secolo protagonista delle più importanti innovazioni tecnologiche in settori strategici dell’economia, questa è senza ombra di dubbio IBM. Presente sul mercato dal 1917, per vari decenni ha rappresentato la base di qualsiasi investimento di natura finanziaria.

Sembra una favola eppure è una storia già archiviata. È ormai un fatto acquisito: IBM si è calata nei panni di un pari fra i pari che sviluppano open source, rinunciando in ampi settori dello sviluppo software al modello convenzionale di sviluppo e produzione di tipo centralizzato e rigidamente gerarchico. Comportandosi come se fosse un qualsiasi singolo sviluppatore open source, IBM reintroduce brevetti software nel circuito open source per un valore di diverse decine di milioni dollari all’anno.

Torniamo a Linux. Abbiamo espresso in termini numerici la crescita esponenziale. Ora vi propongo una versione grafica. Ingrandite e esplorate con calma questo diagramma, che descrive la proliferazione di varianti di Linux a partire dal 1992 fino al 2012.

genealogia di linux dal 1992 al 2012

Qualcuno si domanderà: ma chi usa tutti questi sistemi Linux se intorno a me vedo solo PC con Windows e qualche Mac? Risposta cattiva: oggi l’informazione è tanta ma fa paradossalmente pari con l’ignoranza: inconsapevolmente intrappolati in un oceano spesso un millimetro.

Grosse fette di mercato della telefonia cellulare sono alimentate da Android, una versione di Linux rimaneggiata da Google. Su 10 click che fate nel Web, 7 sono serviti da macchine Linux, l’attore principale nel mondo dei web server, per la sua notoria stabilità. Se comprate un router Cisco, un sistema di memorizzazione, o altri componenti dedicati, è molto probabile che dentro vi siano delle versioni Linux embedded, ovvero destinate a far funzionare macchine finalizzate. È anche probabile che la vostra lavatrice abbia dentro qualcosa di Linux. Conosco hacker che si divertono a cambiare la programmazione della lavatrice collegandosi al microprocessore che la governa: lo possono fare perché quei micropocessori si manovrano con comandi Linux. In realtà sono comandi di Unix, lo storico sistema operativo nato negli anni ’70, di cui si diceva prima. Sono gli stessi identici comandi che io usavo nel mio lavoro di tesi (fisica, 1978), che poi ho riusato manovrando a distanza un supercomputer del Cineca (anni ’90), che sto usando da dieci anni in tutti i miei computer, compreso questo su cui sto scrivendo, che uso per manovrare i server su cui poggio i miei dati, in paesi diversi, che sto riusando in un corso che sto seguendo in Coursera sulla scienza dei dati – Data Science – condotto da ricercatori della Johns Hopkins University, laddove si costruisce il futuro. I linguaggi e le logiche degli strumenti che sto studiando sono intrisi di cultura Unix, di cultura hacker. Quegli stessi corsi di Coursera e altri gestori di Massive Open Online Courses, sono frutto della cultura della condivisione nata con il fenomeno del software libero. I nove mesi di corso che sto seguendo li posso fare liberamente. Poi, se voglio il certificato e passo i test – difficili – allora pago circa 50$ al mese.  La rivoluzione del mondo dell’hardware open source, il mondo delle stampanti 3D ma non solo, che l’Economist ha recentemente definito “terza rivoluzione industriale”, ha un cuore software che si chiama Linux.

Mi sono limitato a qualche esempio di natura scientifica o industriale, tralasciando i fenomeni caratterizzati da forti implicazioni etiche, su cui torneremo in un’altra occasione.

Un piccolo approfondimento sul software

Il software è quella poliforme e impalpabile sostanza che da un lato è semplice testo e dall’altro magia, capace di trasformare un computer in qualsiasi altra cosa, laddove per computer si deve intendere tutto ciò che ben conoscete: computer veri e propri, telefoni, tablet e tutti gli ibridi che stanno di mezzo e anche tutta l’internet. È semplice testo per coloro che lo creano, scrivendo istruzioni in un editore di testo (vedremo meglio…). È magia per tutti gli altri.

La riflessione che proponiamo non concerne l’acquisizione di abilità di programmazione ma la consapevolezza della natura degli strumenti software che state usando, la consapevolezza che non siete obbligati ad usarne un certo tipo solamente perché l’avete trovato nel computer e infine, la consapevolezza che la scelta del software comporta ben precise implicazioni economiche e sociali.

Varietà di software

Con il software si può trasformare il computer in qualsiasi altra cosa: una macchina per scrivere, una macchina per fare musica, per dipingere, per fare disegno tecnico, per scambiarsi lettere, per cooperare e molto altro. Non solo, oggi con il software si può trasformare internet in qualsiasi cosa, perché tutto ciò che può fare un computer oggi lo può fare anche Internet. Tutto questo crea delle opportunità meravigliose ma, come è naturale, presenta anche tanti nuovi problemi. Qui mi limito a mostrare le varietà di software fondamentali nel modo più sintetico possibile. Prima il software propriamente detto, che deve essere installato sul proprio computer.

  • Software libero: software sviluppato da comunità di programmatori che credono in un’etica della condivisione. Più o meno siamo nel mondo degli hacker. Il loro software è distribuito liberamente insieme al codice sorgente, ovvero alle istruzioni di programmazione che così ciascuno può leggere e, se è in grado, può modificare. Chi vuole può guardare il video di una conferenza tenuta da Richard Stallman: Una società digitale libera (in basso a destra si possono selezionare i sottotitoli in italiano). LibreOffice è un esempio di software libero.
  • Software open source: software distribuito liberamente insieme al codice sorgente da programmatori oppure anche da aziende. Le aziende possono trovare convenienza nella libera distribuzione di certe versioni dei loro prodotti nell’ambito delle loro strategie di marketing. Ecco la definizione di software open source di Wikipedia. La differenza rispetto al mondo del software libero è che chi fa software open source non si pone alcun problema etico, mentre chi fa software libero individua un nesso diretto fra software e libertà d’espressione. Esempio di software open source: OpenOffice.org.
  • Software proprietario: software che viene prodotto da un’azienda e venduto senza i codici sorgente in chiaro, ma solo nel formato cosiddetto eseguibile, cioè in grado di girare su un computer. Questo software deve essere acquistato o sotto forma di CD o DVD appositamente preconfezionati o scaricato direttamente dalla rete in seguito ad un pagamento con carta di credito. Contrariamente al caso del software libero o open source, utilizzare software proprietario che non sia stato regolarmente acquistato costituisce un illecito perseguibile a termine di legge. Esempio di software proprietario: Microsoft Office.

La  vostra collega Luisella aveva segnalato qui, molto appropriatamente, un caso in cui la pubblica amministrazione prima ti incita a usare software open source – per fare bella figura – poi ti impone di usare software proprietario – quando si fa sul serio… Leggete l’interessante post INVALSI e software.

Una nota sui servizi web

Altra cosa sono invece i servizi web (web service), che possono svolgere le stesse funzioni di un software ma semplicemente accedendo ad appropriate pagine web mediante un navigatore internet – Mozilla Firefox, Chromium, Internet Explorer, Safari o altri simili. In questo caso non c’è niente da installare sul proprio computer. Uno dei vantaggi principali dei web service è che molto spesso consentono alle persone di lavorare in collaborazione, ovunque esse si trovino. Altro vantaggio è che si ha sempre la versione aggiornata, contrariamente al caso del software scaricato o acquistato che sia. Un vantaggio che tuttavia presenta anche un rovescio della medaglia: il servizio ti può cambiare sotto il naso e questo a volte è irritante. Nella maggior parte dei casi l’impiego di tali servizi è gratuito, basta registrarsi. In realtà gratuito in senso lato non è, perché si “paga” mettendo a disposizione parte della propria identità; ne parleremo in futuro. Un esempio che ormai conoscono tanti è l’insieme di servizi che simulano i pacchetti da ufficio (scrittura, fogli di lavoro, presentazioni ecc.) offerto da Google: Drive, ex GoogleDocs. Ce ne sono altri comunque, Zoho ad esempio.

73 pensieri riguardo “Software libero #linf14”

  1. Ho installato libreoffice senza problemi….ma non ho avuto tempo di entrare nel programma e vedere com’è fatto. Per il momento sono leggermente impegnata nella formazione dei neoassunti, che mi lascia poco spazio per respirare. Vorrei sapere se finito il corso posso accreditare i cfu per l’anno accademico 2016/2017, visto che sarebbe mia intenzione iscrivermi al corso di laurea iul.

    1. Purtroppo no, questa possibilità è stata sperimentata fino all’anno accademico scorso ma non è più disponibile. In buona parte perché io sono stato fagocitato da altri incarichi che non mi consentono di seguire queste attività come dovrei.

      1. Quindi cosa dovrei fare? Ripetere il corso dopo l’iscrizione? In effetti l’unico motivo per cui sto seguendo questo Mooc è perché vorrei convalidare i cfu dopo l’iscrizione all’anno accademico 2016/2017

        1. Questo è stato un MOOC, ed è stato collegato alla IUL. Ma da tempo è stato scollegato. Io lascio questo materiale a disposizione per chiunque voglia utilizzarlo se ritiene che ci può imparare qualcosa.

      1. Impressionante! Vorrei capire come fare a difendermi! Soprattutto per le transazioni bancarie: immaginare che qualcuno oltre il governo le controlli è inquietante. Forse alla fine del corso imparerò a trattare i miei dati in modo da non dovermi pentire di accendere un computer!

    1. interessantissimo ed efficacissimo video! l’ho condiviso su facebook invitando tutti a riflettere.
      grazie mille.

  2. Un’altra cosa bella del libero / open source è che i suoi sviluppatori amano ridere: vedi The CRAPL: An academic-strength open source license di Matt Might, dove CRAPL sta per “Community Research and Academic Programming License” (ma “crap” significa “pattume” – letteralmente: “merda”):

    Gli universitari raramente pubblicano il proprio codice, ma sperò che una licenza possa incoraggiarli a farlo”

    Di solito, il software universitario viene messo assieme in fretta; ci vuole un utente esperto per costringerlo a funzionare, e non è codice bellino. Il codice universitario mira a dimostrare la fattibilità di un progetto e la sua rozzezza fa sì che gli universitari non hanno voglia di pubblicare il proprio software. Ma questo non significa che non lo dovrebbero rilasciare.

    La maggior parte delle licenze open source (1) richiedono che la sorgente e le sue modifiche vengano pubblicate assieme ai “binaries” (il programma stesso?) e (2) assolvono gli autori di qualsiasi responsabilità giuridica.

    Una licenza open source per universitari ha due ulteriori necessità. (1) Quando un software viene adoperato per validare affermazioni scientifiche, essa dovrebbe rendere obbligatoria la pubblicazione della sua sorgente e delle sue modifiche assieme a tali affermazioni; e (2) – e questo è più importante – dovrebbe assolvere gli autori della vergogna, dell’imbarazzo e del ridicolo inerenti a un brutto codice (…)

    (tentativo di traduzione mio)

  3. A proposito della paura che persone poco esperte a volte hanno nell’installare software liberi….

    I primi tempi che ho utilizzato Windows (e sto parlando degli anni 90!!!!) anch’io avevo paura a fare installazioni, disinstallazioni e prove di vario tipo per capire come funzionava il nuovo sistema e poi con la nascita di internet un programmatore russo ha risolto uno dei più grandi problemi legati a questo sistema operativo: la pulizia di tutto ciò che non è necessario al sistema stesso. Infatti quando noi installiamo qualcosa sotto Windows, il sistema registra una marea di informazioni nei cosidetti file di registro che poi rimangono a volte lì anche dopo le disinstallazioni.

    Sono questi refusi che rallentano i computer ed a volte ci impediscono di installare/distinstallare altri software. Questo genio ha creato un piccolo programma (che oggi è disponibile anche a pagamento) che si può scaricare ed installare (senza problemi e gratuitamente!!! 🙂 ) per pulire il nostro sistema operativo dai tentativi che facciamo: è il famoso CCleaner.

    Periodicamente, e soprattutto quando faccio parecchie prove, lo lancio e mi mostra tutto ciò che trova di inutile, ma che comunque occupa spazio o rallenta la macchina. Controllo brevemente quello che ha trovato e poi gli dò il via alla pulizia. Qualche secondo e la macchina è di nuovo come “nuova”. Naturalmente per prudenza quando mi chiede di fare una copia di backup del registro la faccio, e se dopo il riavvio del computer e qualche giorno di lavoro, funziona tutto come si deve, cancello anche la copia di backup.

    N.B.: a seconda dell’antivirus che avete sul computer potreste avere bisogno di disattivarlo momentaneamente per fare la pulizia.

  4. oggi ho preparato un piccolo video che mi serve per far ripassare ai bambini un mini dialogo in inglese….
    foto di disegni da pagine di quaderno con i-phone; registrazione del dialogo fatto da due bambini, usando Audacity. caricamento di immagini e audio su movie maker (non so se esiste un similare libero), caricamento su You tube (e questa volta ho messo licenza CC attribute) e conseguente caricamento sul blog che uso per la classe….
    credo di non aver violato nessun copyright : )

    1. sono basita………….. maremma non mi basta il tempo! quello che dite mi piace. GabriellaLivio devo vedere (dai l’indirizzo per favore ) e provare ! La relazione di Luca sui documenti condivisi della IUL è uno squarcio nel buio (io tutte queste differenze tra MO e LO non sarei riuscita a vederle neanche tra tre anni) Ma si torna lì al punto dal quale parto io . Il poco uso del pc, ho uno scheletro da “amanuense” da seppellire. Intanto mi copio in un file…………..Libre office tutti i consigli e le dritte date e piano piano vado a guardarmele……grazie gente

      1. dunque se non sbaglio funziona così: siccome io ho un account wordpress il mio nome dovresti vederlo in azzurro e se ci passi sopra c’è un collegamento che ti porta direttamente al mio blog……
        : )
        quello che ho fatto è di livello bassissimo, ma avendo poco tempo, come tutti, mi interessava più la sostanza che la forma……..

        1. Molto efficace! Grazie.

          Sul copyright: se hai l’accordo dei genitori / rappresentanti legali dei bambini partecipanti nel video, in effetti non c’è nessun problema. Quando Io speriamo che me la cavo di Marcello dell’Orta rimase in cima alla classifica dei libri più venduti per mesi, certi genitori o gli fecero causa o dichiararono di intendere fargli causa (non ricordo esattamente) per violazione del copyright dei loro pargoli. Quindi meglio chiedere loro per lavori del genere.

          Domanda: il MIUR ha emesso direttive su quali piattaforme sono idonee per metterci video fatti in ambiente scolastico? In Svizzera l’educazione è di competenza di ciascun cantone, perciò è un po’ il caos: a Ginevra adoperano vimeo piuttosto che YouTube, perché con vimeo puoi scegliere di non avere pubblicità, e non c’è il rischio di vedere apparire accanto video magari non idonei per i minorenni. In Ticino invece, i video della WebTV del DECS (DECS = Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport) sono tutti sul server dell’amministrazione cantonale – il ché non esclude però che certi docenti sperimentino per conto loro usando altre piattaforme…

          Claude

          1. non pensavo di dovermi preoccupare anche del copyright dei bambini 😦 . I genitori sanno che uso il blog come strumento per fornire loro materiale per ripassare/approfondire ciò che facciamo in classe… all’inizio dell’anno firmano una liberatoria per immagini che possono essere usate a scopi didattici ma si dà per scontato che si parla di foto che rappresentano i bambini… nulla di specifico viene detto sul materiale audio o disegni o scritti prodotti dai bambini.
            Non avendo nessun introito (anzi….) non vedo cosa potrebbero rivendicare … resta sì il problema dell’utilizzo di questo materiale da parte di you tube… vedrò di capire come funziona Vimeo….
            Che dice il ministero? non saprei e forse non lo sanno nemmeno loro visto che prima ci dicono di usare prodotti “liberi” e poi fanno campagna per la Samsung piuttosto che per Microsoft o che……

  5. CONVERSIONE

    Girando nella rete mi sono imbattuto in: (http://vilnet.it/docs/elenco_di_programmi_open_source_da_wikipedia.pdf)
    spesso e volentieri gli elenchi che offre la rete bisogna scremarli.

    E’ sbagliato pensare di equipaggiare una “macchina” con solo software libero a partire dal sistema operativo?

    Perché mi piacerebbe convertire un portatile all’open source.

    Chi potrebbe fare quel lavoro di scrematura consigliando un elenco minimo ragionato?

    saluto attendo e ringrazio

    1. L’esperienza mi ha (per ora) insegnato che i grandi piani di ristrutturazione falliscono. Hanno invece successo gli approcci progressivi, guidati da esigenze e priorità reali, realmente sostenibili.

      Diciamo che l’elenco ragionato potrà emergere dal laboratorio. Potremmo porlo fra gli obiettivi.

      Intanto, per le esigenze più generali LibreOffice è ottimo. Poi vedremo.

      1. Grazie ad Andreas e a tutti i partecipanti alla discussione davvero ricca di spunti.
        Vorrei aggiungere una segnalazione per chi si avvicina al software libero partendo da Windows.
        Framasoft, una benemerita associazione francese che si occupa soprattutto di software libero, offre il servizio Framapack (http://framapack.org/) che permette di scegliere tra un certo numero di software liberi e di crearsi la propria “suite” personalizzata, scelti i programmi che ci interessano si può scaricare un installer ( un file .exe) che provvede in automatico all’installazione di tutti i programmi, naturalmente occorre una connessione a internet.

        Ho utilizzato Framapack per caricare su dei netbook Windows di una classe digitale i software liberi che ritenevo utili ed in effetti è una procedura piuttosto pratica. Unico limite: per alcuni programmi bisogna sostituire il file di lingua inserendo quello dell’italiano.

        Per dare un’idea, qui sotto aggiungo un elenco di programmi (http://framapack.org/?share=5-24-35-19-59-7-50-49-46-47-63-10-11-42-22-4-13-44-14-3-33-6-60 ) che ho selezionato per una classe prima di un istituto tecnico di indirizzo grafico.

        LibreOffice suite ufficio
        Sumatra PDF lettore pdf, epub, mobi
        Freeplane creazione mappe mentali
        Gnumeric foglio di calcolo
        PDF Creator stampante virtuale pdf
        PuTTY client SSH per connessione remota tra computer
        KompoZer editor html
        Notepad++ editor di testo
        Scratch coding visuale
        Open-Sankoré gestione lavagne digitali (LIM)
        xcas il coltello svizzero della matematica (è in francese)
        GIMP editor di grafica
        Dia costruzione diagrammi
        Inkscape disegno vettoriale
        Scribus impaginazione (desktop publishing)
        Firefox browser
        Thunderbird gestione posta e abbonamento podcast
        Deluge scaricamento file torrent
        VLC player multimediale
        Audacity editor file audio
        InfraRecorder masterizzazione CD e DVD
        7-Zip compressore di file
        Greenshot creazione di screenshot

        1. interessante, lo copio e me lo studio poco per volta (per fortuna VLC audacity e firefox li ho già sul pc di scuola :))
          Da oggi proverò a preparare le mie schede di lavoro per la classe con libre office… un passo alla volta…

  6. Ho letto la recensione di Luca su libre office … mi vien quasi da piangere…. che posso dire io che di bit ne so proprio poco? Alcune cose “di pelle” le percepivo anche io… ma la sua analisi porta dati oggettivi che io non avrei saputo ricavare…….
    bè grazie Luca delle preziose informazioni e scusate se quando leggerete la mia di relazione la troverete piena di banalità ….

  7. Sul software libero. E certo mi trova a favore del software libero,visto che siamo ormai obbligati ad usare i PC anche al lavoro( registro elettronico). Forse si può evitare così di sottostare ad una dittatura sulla mente inconsapevole che oltre a far arricchire a dismisura pochi eletti , conta sulla buona fede e l’ignoranza di gran parte degli utenti per condizionare e manipolare. In ogni caso non c’è alcuna garanzia sull’attendibilità di ciò che trovi su internet proprio perchè,secondo me, c’è un uso distorto della libertà di accesso che andrebbe regolamentato.

  8. Riguardo alle mie esperienze di software libero, posso senz’altro dire che ho potuto saggiare la straordinaria versatilità del computer più piccolo del mondo: Raspberry PI. E’ il computer più compatto del mondo, il micro-computer di David Braben, entrato ufficialmente in commercio nel Regno Unito nel febbraio 2012. Basata su un sistema operativo Rasbian (Raspberry Pi + Debian), ovvero su un sistema Debian ottimizzato per lo scopo, la scheda Raspberry Pi fornisce un insieme di programmi essenziali, e strumenti di utilità, che la rendono un computer di alto livello; il processore è un ARM1176JZ- Low Power. La filosofia della Rasberry Py Foundation è quella di essere da stimolo ai docenti perché insegnino l’elettronica e l’informatica, la programmazione e la progettazione con risorse libere, offerte dall’open source e dall’hardware a basso costo, promuovendo l’apprendimento del linguaggio di programmazione Python (da qui deriva la sigla “Pi” del logo). Al di là del suo impiego per scopi educativi, Raspberry , grazie ai suoi connettori GPIO, ha degli impieghi che vanno dalla Robotica alla Domotica, dal Data center al Media center domestico, dalla Stazione meteo al dispositivo informatico portatile. Ho ancora avuto esperienza di Open Office, che, purtroppo, mi aveva dato problemi di compatibilità con Microsoft Word. Ci sono differenze tra Open Office e Libre Office?

    1. Infinite le applicazione del Raspberry, oggetto dal potenziale didattico smisurato.
      Si può anche usare per fare un serverino con rete WiFi privata per lo scambio di materiali didattici: cosiddetta PirateBox. Alcun miei studenti di informatica e design hanno usato proprio un Raspberry per fare una PirateBox ( che hanno chiamato Trybe) per il Museo Etnologico di Firenze.

      Può valer la pena di provare LibreOffice invece di OpenOffice, perché pare che sia sviluppato più attivamente.

      La compatibilità con il formato di Microsoft Office è un problema relativo: dipende dal contesto in cui si lavora. Per me il problema non esiste, LibreOffice va sempre bene e ci leggo qualsiasi cosa.

        1. Venerdì a laboratorio ho scoperto per la prima volta l’esistenza della PirateBox, così come, con l’installazione di LibreOffice, ho per la prima volta sperimentato l’uso di software liberi.
          Allo stesso modo, avevo sentito parlare di Linux, ma lo avevo sempre associato a qualcosa “da più”, da cervelloni con la passione per l’informatica ed i computer.
          Ecco che invece trovo molti dei miei pregiudizi sfatati!!
          Sono dispositivi immediati, facili da esplorare ed incredibilmente economici.
          Perchè esserne venuta a conoscenza adesso ?
          Forse perchè, come dice il professore, viviamo stretti nella morsa di abitudini e “verità”(…o presunte tali!) dateci a priori dal panorama economico mondiale.
          La possibilità, invece, di sperimentare l’uso di questi dispositivi liberi può essere un’occasione di grande arricchimento per tutti, grandi e piccini!
          A tale proposito, mi immagino il potenziale uso di ambienti digitali di lavoro come ENT.BOX (di cui il professore ci ha parlato) all’interno di una classe : la possibilità per i bambini di esplorare e sperimentare il valore positivo della collaborazione, della costruzione cooperativa di risorse , a disposizione (accesso e vantaggio!)di tutti.
          Si può, così, (almeno credo…!) sperimentare in piccolo il volto buono della Rete, troppo spesso demonizzata agli occhi dei bambini.
          E’ un primo passo per renderli consapevoli, per aiutarli a capire un mondo complesso, ricco di “tutto e un po’”, ed estremamente affascinante.
          Un po’ come la giungla…

  9. Per capire…oggi mi sono accorta che alcuni dei file Microsoft Word che ho accantonato nel desktop del portatile sono “improvvisamente” diventati file LibreOffice (scaricato ieri), mentre altri no (cioè sono rimasti file Microsoft Word). Per cercare di capire come mai fosse avvenuta questa “metamorfosi” sono andata a vedere le proprietà dei file e mi sono accorta che quelli che si erano trasformati erano stati salvati in ODT che credo stia per Open Document Text, mentre gli altri con Microsoft Word, il tutto con mia totale inconsapevolezza. Questo cosa vuol dire…che quelli ODT, proprio perché “open” sono stati “occupati” da LibreOffice?

    grazie, Maria Grazia.

    1. Più che LibreOffice è il sistema operativo – Windows penso nel tuo caso – che li “occupa”. Vale a dire che è il sistema operativo che si preoccupa di associare alle varie tipologie di file – usualmente designate dall’estensione del nome del file, la parte a destra del punto, ODT, DOCX ecc. – l’applicativo appropriato. Fra l’altro sono cose che puoi cambiare. Non ho una macchina Windows a disposizione in questo momento ma mi pare che, cliccando col tasto destro sul nome del file e andando in “Proprietà”, si possa intervenire su questa associazione, o su una voce tipo “Apri con…” – vado a memoria…

      Il fatto curioso è che tu abbia prodotto inconsapevolmente dei file ODT con Microsoft Word, non avrei nemmeno scommesso che fosse possibile farlo. Controllerò appena possibile. O controlli chiunque altro…

    2. Sto riscontrando stessa tipologia di “magia/stregoneria” sul desktop. Direi anche un po’ di lentezza nell’aprire i file. Questo dopo che scaricato libreoffice ho provato ad aprire alcuni miei documenti in word e excell per vedere se trovavo differenze. Sinceramente a pelle mi sembra tutto molto simile. Queste le prime prove.

      1. rispondo, in ritardo come al solito: io ho office 2007 e si possono salvare i documenti anche in odt. é possibile che durante il salvataggio con nome sia stata fatta questa scelta? o che sia stato rielaborato un file in odt con word? l’associazione dei file al programma predefinito si fa come ha ricordato il prof: tasto destro sopra/ apri con/programma predefinito. se può essere utile a qualcuno inserisco le spiegazioni che avevo preparato per alcuni genitori https://www.youtube.com/watch?v=ddXluvajhcw

      2. Ho controllato Prof., nella mia versione di office 2016 il percorso è: file – esporta – cambia tipo file – usa il formato odt.
        In Word pad: file – salva con nome – documento odt
        Open office 2016 lo uso da pochissimo e non mi ero accorta di questa funzione…comunque con word pad mi era capitato di aprire un file inviatomi in word e “tramutarlo” in odt per avere meno problemi nel rimaneggiarlo con openoffice.
        Ho imparato qualcosa di nuovo: quando dovrò inviare un file word a qualcuno che ha openoffice farò così in modo di evitare a chi riceve lo stress. Grazie

  10. Ho toccato con mano casa è un software libero!
    Primo compito, installare LibreOffice … UN’ IMPRESA!
    Il software no si installava- percorso interrotto. Dopo numerosi tentativi e documentazione in rete, arrivo alla risposta. Il software viene interrotto perché Google Crome limita gli accessi e lo identifica come virus. Ragiono in base a quanto letto nell’articolo di Francesca e alle parole del Professor Andreas e vado avanti senza paura perché il consiglio è quello di disattivare la protezione contro i phishing e malaware . Azione terroristica… SEI SICURO DI QUELLO CHE STAI FACENDO? Vado avanti, agisco e installo tutto.
    Riflessioni finali: non solo … plagiano i nostri pensieri ma limitano le nostre azioni!
    Cinzia Paderi

    1. Complimenti Cinzia, per:

      avere perseverato
      esserti documentata
      avere provato
      avere comunicato il problema
      avere comunicato la soluzione

      Naturalmente, una volta installato il software in questione, puoi riattivare la protezione. Se ti ricapitasse un problema del genere in futuro ora sai come fare.

    2. io mi sono bloccata!domani riprovo seguendo i consigli di Cinzia. Ma sono solo io che ha paura ad installare ?scaricare programmi? Ho sempre paura di combinare un pasticcio e perdere quello che ormai considero un pezzettino di me : l’archivio dei miei file, direi la mia memoria visto che le mie sinapsi deficitano. A me manca l’ABC ed ardua mi sembra questa via!

      1. Hai perfettamente ragione di diffidare dall’installare programmi, Franca. Però nel caso dei software liberi – liberi, non semplicemente gratuiti – vai abbastanza sul sicuro. Ovviamente, anche quelli possono avere difetti, e in effetti ne hanno, e li elencano sul sito da dove li puoi scaricare. Però appunto, c’è la comunità degli hacker che prima li reperisce, poi lavora a correggerli. Poi rilasciano versioni di prova corrette, e ricorreggono in base a quel che dicono gli utenti, ecc. E tutto questo lavoro avviene all’aperto.

        Ovviamente, anche i software proprietari, come Microsoft Office, vengono corretti quando c’è un difetto, però tutto avviene al chiuso, e devi aspettare quando la ditta decide di rilasciare o una pezza o una nuova versione.

        Inoltre, anche per gli errori che facciamo noi utenti, con i software liberi l’aiuto c’è ed è tempestivo ed efficace. E i volontari che rispondono sui forum d’aiuto sono cortesi e tengono conto di quanto (non) puoi capire.

        Ultima cosa sulla preservazione dei file: conviene comunque farne una copia ogni tanto su un disco duro esterno, perché potrebbe anche andare in tilt il computer. Oppure nel “cloud”, pare. Fin lì non ci sono ancora arrivata, però.

        1. 😅 grazie. La copia in hard disk ce l’ho essendomi già capitata cosa simile emi premunisco adesso. La paura è quando ti ritrovi schermate di notizie in inglese e vai nel panico. Grazie per la risposta mattiniera. Buona giornata a tutti e buona scuola ( il riferimento a riforma in corso e’ puramente casuale)

      2. Confermo in toto la risposta di Claude, che ringrazio.

        Un atteggiamento prudente è saggio per:

        1. visitare nuove pagine web
        2. scaricare file
        3. installare software

        Prudenza, non paura, che significa discernimento.

        Il laboratorio serve proprio anche a questo: sviluppare un poco la capacità di discernimento.

        Il software libero in molti casi è proprio garanzia di sicurezza, per la trasparenza con cui viene offerto – come diceva Claude.

        Un criterio è quello di andare a vedere se è effettivamente software libero e non per esempio shareware o altre varianti – di solito software che vengono distribuiti liberamente ma non con il codice in chiaro. Questi ultimi sono distribuiti gratuitamente in una forma base ma poi, se vuoi la versione completa, devi pagare. Non c’è niente di male in questo – un modello di business come un altro – e spesso sono buoni prodotti ma non hai la garanzia che il codice sia visibile pubblicamente.

        Il modo per sapere se un software è veramente libero è quello di controllare se è coperta da licenza GPL (General Public License).

        Prendiamo LibreOffice. Nel menu in alto vai a “About us” (Su di noi, chi siamo), quindi su “LIcenses”: lì è dichiarata la natura di software libero e il tipo di licenza.

        Estraggo una lista delle licenze libere per il software dalla pagina Wikipedia Free license (manca la versione italiana…):

        Pubblico dominio: nessuna restrizione

        Creative Commons’ CC0

        Licenze che pongono poche condizioni sull’eventuale redistribuizione di prodotti derivati

        BSD License
        MIT License
        Mozilla Public License (file-based permissive copyleft)
        Creative Commons Attribution

        Licenze che impongo la redistribuzione di prodotti derivati con la stessa licenza

        GNU GPL, LGPL (weaker copyleft), AGPL (stronger copyleft)
        Creative Commons Attribution Share-Alike
        GFDL

        I link puntano alle pagine Wikipedia inglesi, ma una volta in queste, a sinistra potrebbe esserci il collegamento alle versioni italiane – non sempre e non sempre della stessa qualità.

        Non importa che entriate nei dettagli, a meno di curiosità. Semplicemente prendete nota in modo da poter verificare il tipo di software che state per scaricare.

        Se, cercando nella sua pagina web, non trovate la dichiarazione della licenza di un software, allora siate più prudenti. La cosa migliore è chiedere in giro: amici, esperti a portata di mano, forum in rete. Cercate in rete il nome del software e vedete un po’ chi lo usa, chi ne parla, che riferimenti ci sono.

        Tutt’altra questione è quella del salvataggio dei file: salvare, salvare, salvare. Salvare intelligentemente: non tutto, solo le cose che hanno richiesto tempo di lavoro. Salvare su un supporto esterno il lavoro (importante) quotidiano. Salvare settimanalmente il lavoro (importante) su almeno due supporti esterni. Ho visto gente piangere per non avere capito che i supporti elettronici sono tutti volatili.

        Il cloud è molto attrattivo perché molto comodo – DropBox, GoogleDrive ecc.

        Attenzione però a quello che ci mettete: una volta che avete messo un file nel cloud non è più solo vostro, a dispetto di quello che i gestori dicono. Usatelo se proprio vi è utile ma solo per dati di scarsa sensibilità: non vostri dati privati – conti correnti, date di nascita ecc. – non dati di altri.

        Prendete nota del seguente interessante paradosso: il singolo dispositivo elettronico è volatile, qualunque esso sia, Internet mantiene invece tutto. Il paradosso si spiega con il fatto che Internet è basata sulla forte ridondanza degli apparati.

        Al margine, anche Facebook (e similari) sono cloud. Allo stesso modo non si dovrebbe mai postare la foto di qualcun altro, senza il suo permesso. Non si dovrebbe nemmeno postare la foto dei propri figli, neonati ecc., perché non sono in grado ancora di darvi il permesso ma sono già persone, e come tali vanno rispettate.

        Non è nemmeno saggio postare la propria immagine e i propri fatti privati. Una pratica diffusissima ma che può risolversi in episodi molto amari…

        1. Ciao Andreas, che bello questo post, e la discussione che ne è seguita. Penso alla recente apertura di Google verso il mondo scolastico, a cui abbiamo appena aderito come istituto. Le cosiddette Google Apps for Edu vengono fornite gratuitamente e questo ci permette di avere un indirizzo email per ogni docente, studente e personale di segreteria della scuola in cui lavoro, ma oltre a questo, spazio illimitato (o quasi, si parla di un tera) sul cloud sotto forma di Google Drive, oltre a varie App come Google Classroom e Calendar. Sembra fantastico e per quello che ho visto finira veramente efficace (alcuni studenti hanno creato una presentazione, l’hanno condivisa con me e io l’ho corretta in tempo reale, mentre chattavo con la studentessa per discuterne alcune parti). Cose impensabili via email, o persino via blog. Ma ovviamente nomi e immagini ci sono eccome! Chi è il proprietario di quella roba? Siamo noi come Itcg Fermi? È Google? Confesso di non aver letto i Terms of Use. Però rispetto a un LibreOffice è certamente più interattivo, immediato (ovviamente se la connessione Internet funziona, altrimenti siamo fritti!)

          1. anche noi abbiamo comperato google apps come istituto… le docenti con incarico di Funzioni Strumentali ci stanno studiando…. Ho dato un’occhiata alla pagina della privacy: si legge Your data is yours… a prima vista sembrerebbe tutto a posto…. poi però ci sono dei rimandi ad approfondimenti (che non ho ancora avuto tempo di guardare e che presumo implichino più conoscenze di normative di quelle che ho io….)
            il dilemma è sempre tra fare qualcosa rischiando magari di commettere qualche errore o restare fermi … io in genere scelgo la prima opzione.
            (tra normative sulla sicurezza, privacy e altro stiamo rischiando di “ingessare” la scuola…. ci sono colleghe che non portano i bambini di fuori durante l’intervallo perchè potrebbero farsi male e via di seguito…)

          2. Grazie Luisella, Claude e Gabriella. Molto interessanti i vostri interventi.

            Sposterei l’enfasi dall’idea di “commettere qualche grave errore” all’idea di “cosa sia più formativo”, alla larga però, non limitatamente alla “acquisizione di competenze”.

            Mettiamo subito giù un fatto: a prescindere da ciò che c’è scritto nei contratti per i servizi web, quando metti un dato nel cloud questo non è più solo tuo.

            Tu sei sei tu, Google è una delle più potenti multinazionali, basata negli US ma che magari gestisce la fiscalità in paesi vantaggiosi, tranquillamente in barba alle normative fiscali dei singoli paesi. Si tratta di colossi che trattano con – e magari gabbano – le massime istituzioni governative. Vale per Google, Facebook, Microsoft, Apple ecc. Ora voi pensate che, se queste companies si rendono conto di fare miliardi con un certo uso dei vostri dati, loro non lo facciano per motivi morali?

            Quei contratti sono difficilissimi da interpretare, anche perché coprono ambiti multinazionali caratterizzati da normative che tutto sono fuorché in armonia fra loro. I contenziosi sono estremamente complessi e loro ci marciano alla grande.

            Il problema è che gli stati nazionali non riescono a stare dietro agli sviluppi tecnologici che sono alimentati da giri di denaro paragonabili a quelli degli stati medesimi, nel loro complesso. Le istituzioni si trovano a rincorrere coloro che di fatto stanno facendo le regole. Non è una novità: i nuovi territori sono sempre stati ideati dai sognatori, colonizzati da avventurieri e solo successivamente legalizzati. Il cyberspace è ne più ne meno che un nuovo territorio.

            Non è questione di demonizzare. In tema di sicurezza in senso stretto, si tratta di riflettere sul valore di ciascun dato. Non credo che sia un problema mettere la foto di una margherita nel cloud ma forse i dati dei miei studenti sì, la foto di uno sconosciuto sì, ma anche la foto di un conoscente a una cena forse sì, ma anche la foto di mio figlio di due anni, che non può manifestare il suo consenso, forse anche quello è un problema, forse non da poco.

            A noi tuttavia qui interessa il ruolo di educatore. Ecco, oggi il mondo tecnologico abbonda di strumenti software e hardware che ti consentono di esercitare l’intelligenza e elevare le competenze. Strumenti a basso o bassissimo costo.

            Non c’è veramente bisogno di Google, né delle app di Apple, né dei gruppi di Facebook, né della suite Office di Microsoft e relativo cloud, per affrontare la missione educativa.

            Scuole libere di software nel Web, microprocessori da poche decine di Euro, stampanti 3D, comandi Unix in qualsiasi macchina lInux (ma anche Apple sotto sotto e nessuno lo sa) costituiscono uno sterminato laboratorio per l’intelligenza, non solo per lo sviluppo di competenze tecnologiche, con una vasta gamma di opzioni per le esigenze più diverse, da quelle della scuola dell’infanzia al liceo tecnologico.

            Molta “innovazione” finisce col ridursi ad un appiccicaticcio di moda e business, alimentato da una sostanziale ignoranza della natura delle cose. Purtroppo anche l’istituzione scolastica si muove, come le altre, con molto ritardo. È il problema denunciato da Morin: la formazione è un meccanismo ciclico che per forza di cose tende a perpetuarsi, caratterizzato da una forte inerzia. Si può solo pensare di cambiarlo con perturbazioni successive. Ma il contesto, determinato dai mercanti muta a perdifiato. Un problema complicato.

            Se solo si riuscisse a rendere edotti tanti insegnanti di come si possa fare scuola nel “modo antico” – serio, difficile, profondo – con questi nuovi strumenti, allora sì che si opererebbe una vera rivoluzione nella scuola. Sono sicuro che gli insegnanti che apprezzerebbero il valore di questo approccio sarebbero la maggioranza.

            1. Grazie, Andreas: rispondi ai dubbi che avevo annunciato ma non espresso ieri – perché la mia percezione di Google Apps for Education (GAFE) è deformata dall’irritazione verso certi individui che avevano pesantemente promosso nella rete La scuola che funziona una loro operazione chiamata Didasca nel 2011: offrivano sotto-account di un loro account GAFE: a gratis (però in cambio del codice fiscale personale e del codice meccanografico della scuola) agli insegnanti ed amministratori e per una quota associativa di 10 euro per gli studenti.

              Certo, Google non c’entrava con quell’uso dubbio delle sue GAFE – salvo che lo avrebbe dovuto impedire.

              Gabriella, con la pagina sulla privacy intendi https://support.google.com/work/answer/6056650 o un’altra? Se questa: peccato che non esista in italiano (mentre le condizioni di uso sì); inoltre, tutti i riferimenti sono a leggi US sulla privacy e in particolare sulla protezione della privacy dei minorenni. Non è che il MIUR abbia un giurista che potrebbe farne un’analisi comparata con le leggi corrispondenti italiane?

              Però persino negli Stati Uniti, ci sono state critiche per il data mining di Google dentro le GAFE: ne ho segnalibrato 3 pubblicate tra il 2013 e il 2014 (assieme al topic di La Scuola che Funziona menzionato) in https://groups.diigo.com/group/ltis13/content/tag/privacy%20googleaps4education .

              1. la pagina che ho visitato ieri ovviamente oggi non la ritrovo perchè non mi sono copiata la striscia….. vedo che ci sono queste altre, che dovrò guardare meglio appena riesco….
                https://www.google.com/edu/trust/
                https://drive.google.com/file/d/0B__OTXR_u3Rbbmh5WE5NZVRyOEk/edit
                non sono una fan di google…. evito le iniziative tipo “compra tale detersivo che poi noi versiamo un euro ai bambini che hanno fame.”… mi piacerebbe una scuola veramente libera da ogni vincolo commerciale ma sembra che per avere qualcosa a scuola ormai si debba fare i conti con tutto ciò…. possiamo certo cercare di limitare i danni… anche per questo siamo qui a parlarne 🙂

    3. Ciao Cinzia, anche io avevo riscontrato lo stesso problema in altre situazioni. Personalmente io mi affido al sito Softonic.com con cui mi sono sempre trovata bene per le istallazioni. Ovviamente bisogna sempre avere occhio critico per non scaricare i programmi che associano a quello che vorresti (e far partire una catena di scaricamenti che non finisce più!).
      Non so sinceramente quanto sia affidabile, ma per ora io non ho avuto mai problemi.
      Silvia Giuliani

  11. Anche se notte inoltrata…mi perdo piacevolmente a leggere un post che rinfresca la memoria, consolida cio’ che conosci e sperimenti ogni giorno. Mi vengono in mente le notti di # linf12! Grazie Prof!

  12. Ho provato a seguire il link su http://scuolapubblicavaldera.altervista.org/blog/invalsi-e-software/ ma credo ci siano problemi sul server. Non sapevo che Coursera fosse concepito sullo spirito del software di Stallman, o perlomeno, non lo avevo associato. Ho usato Linux a lungo molti anni fa, quando era ancora alla versione 2 del kernel, uso tuttora strumenti open source o meno spesso, gnu. Mi permetto di segnalare un buon set di strumenti gnu x windows cygwin per chi ama smanettare un po’ ma non può o non vuole usare una distro linux intera (per esempio su un pc condiviso…a me cygwin mi ha “salvato” più di una volta). Ho installato LibreOffice che non conoscevo, a colpo d’occhio ho visto che può salvare nel formato .docx ecc. che OpenOffice.org non fa. E’ già un buon inizio 🙂

    1. Il link che dici funziona ma il server risponde molto lentamente. Stamani funziona ma ci ha messo circa un minuto a rispondere – e io mi trovo in un luogo con 50 MB/s…

      Il nesso fra “lo spirito del software di Stallman” e Coursera non è così diretto. Ho sintetizzato troppo. Espando appena un po’ qui. Il fenomeno di Stallman e della sua iniziativa è, come sempre, l’emergenza di uno “spirito del tempo”. Negli stessi anni in cui Stallman si arrabbiava con i software proprietari io, che di hacker e internet non sapevo nulla (1978), la notte studiavo i manuali dei computer Unix che animavano la medicina nucleare dove io facevo la tesi (fisico nucleare convertito al “sociale”…), andavo a cercare il software costosissimo nei computer, lo decodificavo e lo modificavo per darlo ai medici perché ritenevo che fosse un mio dovere sociale. Fu così che trovai lavoro, dopo qualche anno. Nel frattempo la ditta di Roma che aveva fatto il software ci scoprì e minacciò di denunciarmi. Poi invece affittò un appartamento a Firenze, ci mise un computer e mi offrì di lavorarci. E così mi pagai 4 anni di precariato – ma il software che facevo lo distribuivo lo stesso liberamente. E non sapevo nulla del mondo che ora vado descrivendo. Di Stallman e di hacker ho sentito parlare la prima volta nel 1992, mi pare.

      È una questione di tempi maturi per l’emergenza di nuovi fenomeni. Da quella cultura è nata un’idea di condivisione che ha inseminato altre parti di mondo – vedi IBM che si è rapidamente e proficuamente adeguata.

      Nel campo della formazione, a partire dal 2007-2008 sono nati i Massive Open Online Courses, con l’idea di una totale destrutturazione degli ambienti di apprendimento formali e una totale condivisione di materiali, pratiche e esperienze. Da quelli, che si chiamavano “connettivisti”, sono emerse le versioni più industrializzate, sempre di matrice universitaria. Questi, come Coursera, pur andando alla ricerca di un modello di business sostenibile, hanno ben chiaro che apertura e condivisione sono presupposti fondamentali – tant’è che li puoi fare tranquillamente free, se non ti interessa la certificazione. Una roba del genere negli anni 60 sarebbe stata ancora inconcepibile.

      Il software cygwin, che si può installare in Windows per usare la maggior parte di comandi Unix, è molto buono. Io lo uso sempre in una macchina Windows, senza mi manca l’aria…

      Però in questo laboratorio non abbiamo l’obbiettivo di indurre la gente a usare roba del genere: non c’è il tempo sufficiente. Possiamo solo svelare un mondo e creare una nuova sensibilità.

      1. Quelli di Coursera in realtà giocano con il concetto di apertura e di condivisione, come argomento promozionale da sventolare a partner potenziali, con i quali concludono baratti, evitando così pagamenti tassabili. Ma la loro pratica è proprietaria e tesaurizzatrice.

        Pratica proprietaria: scaricamenti: Certo, quelli di Coursera consentono ai partecipanti di scaricare il materiale dei corsi, però i loro Terms of use dicono: “You may download content from our Services only for your personal, non-commercial use, unless you obtain Coursera’s written permission to otherwise use the content.” (Puoi soltanto scaricare contenuti dai nostri servizi per il tuo uso personale, non commerciale, a meno di ottenere da Coursera l’autorizzazione scritta di usarli diversamente). E poiché quelli di Coursera non creano quei contenuti ma li ospitano soltanto, se l’autorizzazione al riutilizzo deve passare da loro, significa che impongono agli istruttori di cedere loro i diritti di sfruttamento sui corsi ospitati.

        Pratica proprietaria e tesaurizzatrice: traduzioni: All’inizio, quelli di Coursera avevano “crowdsourced” la traduzione di sottotitoli in modo apparentemente aperto tramite un team su Amara.org, che consentiva a chiunque di continuare a vedere i video con tutti i sottotitoli tradotti e di scaricarli. Poi a marzo 2013 ci hanno ripensato, hanno chiuso il team Amara, però, mentre avrebbero potuto cancellare prima tutte le pagine Amara del team, le hanno lasciate a galleggiare nel bacino generale di Amara: più difficili, ma non impossibili, da reperire.

        Allora a dicembre 2014, Jiquan Ngiam, direttore dell’ingegneria di Coursera, che era stato uno di gestori del team Amara, ha avuto una pensata. Siccome non poteva chiedere ad Amara la cancellazione di quelle pagine, in ciascuna di quelle 3600 e più che aveva creato lui, ha sostituito i link ai video che vi venivano mostrati con link a indirizzi inesistenti in 2 ore, probabilmente usando uno script: vedi ad es. http://null.null/IPvxSv3g9gCj.mp4 in http://www.amara.org/en/videos/IPvxSv3g9gCj/info/42-the-discrete-fourier-transform/?tab=urls, disabilitando così la possibilità di vedere i sottotitoli sul video, ma non di scaricarli. Poi in realtà, ci sono molte altre pagine dell’ex-team Coursera che erano state create da altri dove i video continuano a funzionare. Ma è l’intenzione che conta, non la sua implementazione per fortuna inefficace. (Amara ha bloccato questa possibilità di sabotaggio).

        Dopo il team Amara, a maggio 2013, hanno provato a “semi-crowdsource” le traduzioni di sottotitoli tramite una “Global Translation Partnership”. Poiché queste avvenivano in modo ermeticamente chiuso e riservato ai partner e ai traduttori da essi gestiti, non si sa più di quanto annunciato in http://blog.coursera.org/post/50452652317/coursera-partnering-with-top-global-organizations – salvo che non ha raggiunto di gran lunga l’obiettivo dichiarato di una “majority of translated courses being available by September 2013”

        Perciò a fine Aprile 2014, hanno riprovato col crowdsourcing dove tutti si possono iscrivere – vedi Introducing Coursera’s New Global Translator Community (GTC) – ma di nuovo in ambiente ermeticamente chiuso, e con un Translator Agreement (contratto per i traduttori volontari) molto proprietario: vedi la sezione “5. Right to deliverables” che costringe il volontario a cedere tutti i diritti sulle sue traduzioni a Coursera.

        La prima frase di questa sezione sul fatto che sono i “Coursera’s licensors” cioè le università e gli istruttori, a imporre questa proprietarietà, cozza col contratto per gli istruttori che accettano di far tradurre i sottotitoli dei loro video dalla GTC. Esso stipula che non hanno il diritto di riutilizzare i sottotitoli tradotti su copie dei loro video ospitate all’infuori della piattaforma Coursera.

        Allora tra questa proprietarietà tesaurizzatrice e l’implementazione al ribasso della GTC (1), viene il sospetto che in realtà, dell’allargamento dell’accesso alla conoscenza tramite traduzioni, quelli di Coursera se ne sbattono, lo vogliono solo usare come argomento promozionale per i partner.

        In effetti, il 2 marzo di quest’anno Coursera ha tweetato, nel contesto di una presentazione della GTC in una conferenza per i propri partner: “Experiments show that the quality of the Coursera’s Global Volunteer Translator Community (5.6k active) is better than a professional translator” (Degli esperimenti dimostrano che la qualità della Global Volunteer [sic] Translator Community di Coursera è superiore a un traduttore professionista).

        E si sono incavolati non solo dei traduttori professionisti, ma anche dei volontari della GTC che sanno bene che nella GTC, si può accedere al video anche se in modo molto scomodo, per controllare quel che viene realmente detto quando i sottotitoli originali forniti sono inesatti, il ché è un vantaggio notevole.

        Perciò dopo una serie di risposte che chiedevano la pubblicazione dei rapporti di quegli “esperimenti”, indicando in quali condizioni il traduttore professionista aveva lavorato, Coursera, invece di pubblicarli, ha cancellato quel tweet e le risposte (2). Tanto per l'”apertura” di Coursera.

        Pratica tesaurizzatrice: i dati e i contributi dei partecipanti: Nei Terms of use, la tesaurizzazione e il riutilizzo di questi dati vengono presentati come promozione della ricerca in scienza della formazione e dell’apprendimento. Sarebbe da esaminare in dettaglio quel che ne dice la loro Privacy policy. Ma questo commento è già troppo lungo, poi ci vorrebbe un* giurista.
        Però per quanto riguarda noi in Europa (Spazio europeo + Svizzera), vedi Coursera and Safe Harbour of student data di Paul-Olivier Dehaye, 10 ottobre 2014.

        Claude

        (1) soltanto 2 (due) impiegati di Coursera, e che cambiano senza una continuità di approccio, per gestire traduzioni di – attualmente – 306 corsi per un totale di 2’100’000 parole da parte di 17,922 traduttori ammessi nella GTC, a partire da sottotitoli originali scadenti, con uno strumento – Transifex – ottimo di per sé, ma non fatto per questo e configurato da Coursera in modo incomprensibile tramite script diversi che ogni tanto buttano fuori i volontari e maciullano il loro lavoro ogni volta che c’è un aggiornamento dei sottotitoli originali. Inoltre, Coursera impone una disugualianza tra le varie lingue di traduzione: in partenza, dando più strumenti a quelle per le quali aveva un partner, poi a quelle che ne avevano meno bisogno perché i traduttori si erano già coordinati efficacemente tra loro.

        (2) Tutto lo scambio è stato però ricostituito in Coursera’s inventive claims about its Global Translator Community.

        1. Grazie Claude.

          Il responsabile IP (Proprietà Intellettuale) di IBM, dopo che IBM aveva rilasciato una gran quantità di brevetti all’inizio degli anni 2000, a un’intervistatore che chiedeva lumi su una pratica così inusuale e apparentemente assurda, rispose: “Non è che noi siamo diventati buoni, noi rimaniamo un’azienda che pensa a massimizzare il proprio profitto. Abbiamo semplicemente scoperto che ‘collaborando’ con il mondo open source facciamo dei buoni affari.”

          Nelle cose che dici, quelli di Coursera fanno certamente i “birboni”, ma in tema di aziende private credo che sia molto comune. A meno che non si tratti proprio di gente che fabbrica bombe, la questione non è se sono buoni o cattivi. Cercano di fare soldi e basta. Non credo che Coursera sia meglio della Apple o della Nike. Quando i soldi in gioco sono tanti le regole diventano assai semplici e crude.

          Ma qui, nel contesto di questo laboratorio, per quanto riguarda questo specifico aspetto, ho tirato fuori l’esempio per mostrare che i movimenti di apertura nati e esplosi dagli anni ’70 in poi, software libero compreso ma non solo, non è roba di tecno-fricchettoni e romantici. Sono invece fenomeni che hanno cambiato le carte in tavola in maniera profonda e pervasiva, costringendo tutti, agnelli e lupi, a fare molte cose in maniera diversa.

          L’esempio di Coursera, con l’approfondimento che ci hai regalato, è perfetto per documentare questa diversità e anche tutte le ambiguità che comporta.

    1. Se intendevi la canzone Rien à cacher, ho aggiunto i sottotitoli inglesei, spagnoli e ungheresi youtube alla pagina già esistente http://www.amara.org/en/videos/2qf1qg3Wlwy6/info/rien-a-cacher-jeremie-zimmermann-et-la-parisienne-liberee/ Poi ho fatto quelli francesi usando la trascrizione fornita e la sincronizzazione di quelli inglesi importati 😀

      Ho anche iniziato una pista di sottotitoli italiani ma mi sono arenata subito perché non so come si dice “carnet de santé” in italiano. Quindi lascio la traduzione a voi italofoni

      1. Mi verrebbe da dire “libretto sanitario” ma in Italia ce l’hanno solo i bambini o alcune categorie professionali, non gli adulti. Oppure si potrebbe tradurre “cartella clinica”. Qui occorre il parere di qualcuno che insegna a medicina 😉 Poi si potrebbe anche partire con la traduzione, la canzone e i cantanti mi sono decisamente simpatici.

  13. Grazie, Andreas.

    A proposito di “In realtà gratuito in senso lato non è, perché si “paga” mettendo a disposizione parte della propria identità; ne parleremo in futuro” – un piccolo aperitivo: Rien à cacher (con ST in inglese, spagnolo e ungherese), dalla serie Datalove di Jérémie Zimmermann e la Parisienne libérée:

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