Clown in corsia

Di tanto in tanto mi capita di parlare un po’ con giovani i quali si occupano, a vario titolo, di attività di clown in corsia. Sono cose che entusiasmano. Tuttavia, molto spesso emerge un fatto deprimente: pare che fra le varie organizzazioni che promuovono queste attività vi sia scarsa collaborazione e forte tendenza all’accentramento. Non posso essere certo di questo ma è un fatto che emerge regolarmente quando mi capita di approfondire con qualcuno di questi ragazzi.

Io ho paura delle organizzazioni. Ho paura dei corsi, dei titoli, dei crediti che si comprano frequentando corsi a pagamento. Ho paura degli esami; ne ho avuta come esaminato e ne ho di più ora come esaminatore. Mi terrorizzano. Ho paura dei numeri chiusi, dei test per esservi ammessi, assurdi, privi di senso. Ho paura dei voti, delle micrometriche discettazioni docimologiche sulla costruzione del voto di laurea. Ho paura degli ordini professionali, delle abilitazioni formali. Ho paura dei progetti. Ho paura delle formalizzazioni. Ho paura della didattica formale. Ho paura dei professori; sì, ho paura di me stesso.

Ho paura che qualcuno possa brevemente decidere se quel ragazzo sia adatto o meno ad alleviare la sofferenza col sorriso. Ho paura che si impieghi un metro di misura disastrosamente rozzo, come succede nella stragrande maggioranza dei casi. Magari quel ragazzo che non ha passato il test possiede doti umane imperscrutabili che lo renderebbero straordinario per fare il clown in corsia. O qualcuno ha scoperto nel frattempo il modo di misurare l’attitudine all’empatia? L’amore si misura?

Lo so che al mondo ci vuole struttura, ci vuole organizzazione ma perché succede così spesso che l’uomo finisce per scomparire in questi meccanismi? Così spesso che a me è venuta paura.

So che non è semplice inserire giovani aspiranti clown in un ospedale. Provo a ragionarci un po’.

L’aspirante manovale

Consideriamo un aspirante manovale, cioè colui che dovrà aiutare il muratore nelle attività più faticose caricare e scaricare materiali, impastare la calcina ecc. Nella pratica, l’avviamento al lavoro del manovale è sempre stato ed è ancora molto semplice, avendo luogo sul campo: “La pala è quella la, il camioncino da scaricare è questo, butta la sabbia la dietro …” e via e via.

Oggi sentiamo parlare quotidianamente di un numero impressionante di morti bianche. Una cosa incredibile: siamo in grado di porre domande complesse ad un database dall’altra parte del mondo ottenendo le risposte entro un battito di ciglia e non ci riesce di evitare che gente che lavora si ammazzi cadendo da un ponteggio o facendosi stritolare da una pressa! Evidente che se ad un manovale, che magari sa anche poche parole di italiano, si mette una pala in mano e si manda tout court in cantiere nei pressi di macchine che non conosce bene, il rischio che si faccia male o che faccia male a qualcun altro c’è e forse non è trascurabile. In questa situazione è ovvio che si debba prevedere una fase di formazione al fine di far conoscere le norme elementari di sicurezza. Questo è un tipo di formazione che può essere formale: qualche scheda da leggere, qualche spiegazione, qualche domanda per sincerarsi che si sia capito.

Va da se che ci sarà anche una parte di apprendimento importante che avverrà in modo informale: se il nostro manovale non ha mai usato la pala imparerà guardando gli altri. Figuriamoci poi se il ragazzo è vispo: seguirà il maestro muratore e finirà col diventarlo lui stesso.

Non vi è però dubbio che, in una società civile, attività del genere dovrebbero essere precedute da una fase formativa formalizzata, seppur limitata.

L’aspirante poeta

Vediamo ora il caso di un aspirante poeta. Può sembrare un esempio balordo ma in fin dei conti esistono i corsi di scrittura creativa. Ebbene, quanto possiamo pensare che possa incidere un insegnamento formale sulle future capacità espressive del nostro aspirante poeta? Sì, la conoscenza degli strumenti, metrica, ritmo, stile, potrà avere qualche utilità ma sarà sicuramente secondaria rispetto allo stupore, alla profondità, all’ispirazione e altre cose umane che possono portare una persona ad esprimersi toccando l’anima dell’altro. L’erudizione può costruirsela chiunque ma il resto no. Ognuno di noi ha in se una fiamma che è unica, irripetibile; compito della formazione e far sì che ognuno possa evolvere fino a far ardere appieno la propria unica fiamma. Si può far poco con l’ insegnamento formale su questo. Lo so che è economicamente e organizzativamente scomodo ma non ci sono scorciatoie. Non è possibile incasellare lo sviluppo di una mente creativa in qualche comodo diagramma, stiamo parlando della cosa più complessa e misteriosa che noi conosciamo in questo universo, non dimentichiamolo.

L’aspirante clown in corsia

E che possiamo dire per gli aspiranti clown in corsia? La cosa è complessa perché comprende ambedue gli aspetti esemplificati nei due casi limite che abbiamo appena visto. Per un operatore all’interno di un ospedale il rischio di fare danni è elevato. Chi va ad operare in un ospedale deve essere informato su ciò che si può fare e su ciò che non si può fare. Questo vale a maggior ragione per un clown che per sua natura si avvale di rumori, parole, oggetti e comportamenti inusuali mentre in ospedale vi possono essere attrezzature complesse e delicate, stati fisici e psichici anomali, contesti etnici particolari. Sembra del tutto naturale inquadrare questo tipo di formazione in modo formale.

Tuttavia per fare il clown nelle corsie ci vuole anche ben altro. Qualche capacità circense e artistica ovviamente non guasta ma è fondamentale una buona dose di empatia, cioè di capacità di mettersi nei panni dell’altro. Inutile conoscere tutti i possibili pericoli, tutti i possibili disagi, tutte le possibili patologie del mondo, saper fare tutti i possibili esercizi di giocoleria e suonare tutti gli strumenti del mondo, se manca l’empatia.

L’empatia è un’attitudine e come tale non si può insegnare, certamente non nel senso scolastico. La predisposizione personale dovrebbe essere al centro dell’attenzione di qualsiasi formatore. La predisposizione è un dono inestimabile per la comunità, un dono che è stolto dissipare. In qualsiasi tipo di formazione, la sensibilità del formatore deve essere orientata a comprendere quale sia la fiamma che c’è in ciascun allievo. Lo so, è un modo di pensare utopico; tutti dobbiamo fare i conti con i vincoli imposti dalla realtà ma l’utopia dà un timone all’azione.

Nella didattica non formale il ruolo del formatore non è marginale rispetto alla didattica convenzionale di tipo formale, anzi è cruciale, è meno appariscente ma può incidere moltissimo sul percorso degli allievi. È proprio qui che il formatore ha la possibilità di percepire la predisposizione di ciascuno.

Ho seguito le vicende dei protagonisti del progetto M’illumino d’immenso, un gruppo di studenti guidati da due clown in visite periodiche ad alcuni reparti di un ospedale fiorentino. Trovo che sia un’esperienza di grande interesse anche per il modo nel quale è impostata:

1)ogni uscita in ospedale avviene in coppia, un giovane ed un maestro

2) una volta al mese ha luogo una riunione di un giorno intero dove tutti i giovani ed i maestri lavorano sulle abilità e sulle capacità di espressione.

Non c’è da spendere molte parole, davvero un bell’esempio di didattica informale con un grande impegno da parte di coloro che svolgono il ruolo di docente. E i risultati si vedono: il gruppo è animato da grandissimo entusiasmo, basta leggere qualche post del blog M’illumino d’immenso per rendersene conto. C’è anche un altro risultato che non si può non notare: questa è un’attività che coinvolge più facilmente le ragazze dei ragazzi. Attenzione, ci sono anche alcuni ragazzi e sono bravissimi. Tuttavia sta di fatto che nel corso dei mesi si è consolidata una netta maggioranza di contributi femminili.

L’esperienza di questi ragazzi è un bellissimo esempio che insegna molte cose. Non c’è dubbio che per trarne un modello valido per altre realtà, questo dovrebbe essere arricchito da una fase di istruzione sulle modalità di funzionamento di un reparto ospedaliero, sulle cautele da adottare e sui possibili rischi ma senza deturpare la magia che si realizza quando ad un giovane entusiasta si dà la possibilità di cimentarsi.

11 pensieri riguardo “Clown in corsia”

  1. Eccoli! Quel polverone all’orizzonte sono loro! Gli studenti! Mamma quanti sono … qualche esploratore era già arrivato … mi sono ricordato che c’è da preparare roba … volevo cambiare un sacco di cose … mi sono dimenticato di rispondere qui …

    Brevemente

    @ Gianformaggio grazie grazie bacioni a tutti i clown!

    @ Aeroalex eh sì, la verità finisce col venire a galla: ah quante volte sono sopravvissuto a scuola grazie agli appunti delle compagne di classe e di corso … come vedi continuo …

    @ Maria Grazia appunto, grazie! Scaricato. Leggo a spizzichi e bocconi, veramente ho urgenza di far partire questi ragazzi e le idee si affastellano pericolosamente all’ultimo momento nella mente … utile per me leggere queste cose … ma quanto è lontana la realtà dalle cose dette e scritte …

  2. Non so se tutti quelli che hanno letto questo post ne conoscono personalmente l’autore. Io lo sto conoscendo ed il mio debito di gratitudine nei suoi confronti cresce di giorno in giorno (confido nella possibilità che continui a vivere “distrattamente” e che non mi presenti mai il conto!). Tutte le persone autentiche non possono che riconoscersi in ciò che Andreas dice, scrive, pensa… Io lo invidio anche un po’, perché mi sembra uno che non lascia mai niente di intentato, non “getta mai la spugna”. Forse adesso non possiamo fare a meno di pensieri così: costruttivi, creativi, gentili. Ma anche aperti costantemente agli interrogativi. Dalle parole di Arf mi arriva un incoraggiamento a non accettare le sconfitte, a non sentirmi mai schiacciato da chi trova mille modi per dimostrarmi di essere TROPPO più grande di me. Vorrei riuscire ad aprire dialoghi fiduciosi, senza il timore che qualcuno voglia fregarci, ancora una volta…
    Grazie, Andreas.

    Mirko Gianforaggio (dott. Formaggino)

  3. Ehm, ehm… Allora…

    La distinzione tra *apprendimento* formale (per intenderci quello che si fa a scuola, all’università, ecc.), non formale (musei, associazionismo, ecc.) e informale (chiedere un’informazione in mezzo alla strada, imparare a compilare un bollettino o un formulario, ecc.) a puoi trovare nel Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente (p.9) scaricabile da qui [pdf] http://www.pubblica.istruzione.it/dg_postsecondaria/memorandum.pdf

    In questa prospettiva, l’educazione informale è rappresentata dal sistema di vita di una società, dalle “valenze educative” che sono presenti in ogni situazione della vita quotidiana mentre l’educazione formale e non-formale è la realtà educativa che si sviluppa all’interno di questa società (cfr. Paolo Orefice sull’argomento).

    Ciò di cui parla Andreas… è altro ma ora devo scappare 🙂 . Spero di riuscire a tornare sull’argomento al più presto. Buona giornata

  4. Se capita qualche mio collega di Scienza dellal Formazione ti può dare una spiegazione precisa.

    Io ti do la mia, che è abborracciata. Tanto tu lo sai che sono abborracciato, appassionato quanto tu vuoi, ma abborracciato.

    Supponiamo che tu abbia la necessità di conoscere i versi che fanno gli animali.

    1) Ti iscrivi ad un corso erogato in modalità formale. Segui le lezioni in powerpoint, registri le lezioni, sbobini, studi le dispense, se ci sono… arrivati al capitolo del pulcino ti viene spiegato che il pulcino fa “pio”.

    Arriva l’esame. Il prof ti chiede

    “Come fa il pulcino?”

    Se rispondi “pio” passi, se rispondi un’altra cosa, magari “iop” perché t’è venuto il singhiozzo dalla paura, allora bocci.

    Questa è didattica formale.

    2) ti iscrivi ad un corso erogato in modalità informale. Non ce ne sono nella realtà ma questo è solo un esempio.

    Tu e gli altri studenti andate a giro per il mondo con il prof nei posti dove ci sono gli animali. Guardate e ascoltate insieme. Se vi vengono dei dubbi ne parlate con il prof. Magari potete discutere insieme del fatto che il pulcino a noi italiani par che faccia “pio”. Magari, c’è uno studente cinese col quale viene discusso il fatto che a loro, i cinesi intendo, pare che il pulcino faccia “iop”.

    Alla fine del corso, il prof certifica che sono successe le cose che dovevano succedere.

    Questa è didattica informale.

    Ora ti potrei chiedere:

    “Con quale di questi due sistemi si imparano meglio i versi che fanno gli animali?”

    ma non te lo chiedo perché sennò sarebbe didattica formale e a me piace di più quella informale …

  5. Quale potrebbero essere le discriminanti tra didattica formale e didattica non formale?
    Mi rendo conto allo stesso tempo che distinguere le due tipologie possa essere un “formalismo”.
    Forse sto spostando il nocciolo della discussione, anzi senza forse. Scusate.
    Però se si dovesse spiegare a qualcuno la formalità dell’insegnamento quale sarebbe un buon esempio e quale no? E perché?
    Nella mia esperienza di studente nei vari gradi della scuola mi sono reso conto che possono cambiare molto i modi di insegnare (anche la stessa cosa), e posso dire lo stesso anche dei miei apprendimenti extra scolastici (intendendo come scuola il vero e proprio luogo fisico).
    Ma sia dentro che fuori forse vi possono essere formalità e non formalità d’insegnamento. Senza entrare nel discorso “meglio formale o informale”, sto domandando un po’ a tutti voi lettori e scrittore e commentatori di questo blog come possono essere distinti, se qualcuno li distingue o se non possono essere distiniti. E se sono distinti, in che modo?

  6. Ieri ho ascoltato l’intervista di Pennac da Fazio. Un elogio della lentezza, della riflessione, dell’ascolto, del… “crogiolarsi” nel rapporto educativo.

    Questa è una recensione del suo ultimo libro, che spero di aggiungere alla mia collezione al più presto:

    “Diario di scuola” affronta il grande tema della scuola dal punto di vista degli alunni. In verità dicendo “alunni” si dice qualcosa di troppo vago: qui è in gioco il punto di vista degli “sfaticati”, dei “fannulloni”, degli “scavezzacollo”, dei “cattivi soggetti”, insomma di quelli che vanno male a scuola.

    Pennac, ex scaldabanco lui stesso, studia questa figura popolare e ampiamente diffusa dandogli nobiltà, restituendogli anche il peso d’angoscia e di dolore che gli appartiene.

    Il libro mescola ricordi autobiografici e riflessioni sulla pedagogia, sulle universali disfunzioni dell’istituto scolastico, sul ruolo dei genitori e della famiglia, sulla devastazione introdotta dal giovanilismo, sul ruolo della televisione e di tutte le declinazioni dei media contemporanei.

    E da questo rovistare nel “mal di scuola” che attraversa con vitalissima continuità i vagabondaggi narrativi di Pennac vediamo anche spuntare una non mai sedata sete di sapere e d’imparare che contrariamente ai più triti luoghi comuni, anima – secondo Pennac – i giovani di oggi come quelli di ieri.

    Con la solita verve, l’autore della saga dei Malaussène movimenta riflessioni e affondi teorici con episodi buffi o toccanti, e colloca la nozione di amore, così ferocemente avversata, al centro della relazione pedagogica.

  7. se tu l’abbozzassi di parlare di empatia e di fiamme ti ignorerei ogni tanto, ma come fare?
    i lavori sociali sono a prevalenza femminile (in quanto chiocce malefiche?) da sempre e in tutti i settori temo, nel mio settore (socioeducativo/handicap/psichiatria) gli uomini che se ne occupano sono pochi e molto motivati di solito, andrebbero incoraggiati in effetti, certo i cazzoni ci sono da tutte le parti….pero’ negli anni ho visto un bell’incremento in qualita’ e quantita’ di maschietti, forse anche grazie all’iniziativa del servizio civile che magari fanno (e son pagati poco meno che per il lavoro in cooperativa) e decidono di rimanere nell’ambiente. il servizio civile e’ una fucina di nuovi operatori sociali in effetti.

  8. Che cosa si può aggiungere al discorso fatto da Andreas? Io penso proprio poco, più che altro bisognerebbe riflettere su ciò che dice e cercare di capirlo a fondo poichè insegnanti che la pensano così ne abbiamo pochi e ne abbiamo tutti un gran bisogno e non è un complimento dettato dalla nostra amicizia ma la prima impressione che ho avuto di lui quando, venendo a trovarmi per la prima volta e non conoscendomi, arrivò con quattro uova in dono messe in cestino e preparate per me e mia moglie da sua moglie, pareva un cappuccetto rosso coi capelli lunghi, col suo cestino in mano, con le uova e la motocicletta (un raro esempio di guida acrobatica con uova). Devo dire che da subito sperai che fosse vero e non un ologramma ma, visto che esiste ancora, le cose sono due o ho preso un’acido molto molto potente o è vero sul serio e io penso sia la seconda ipotesi. Invito tutti quelli che leggeranno questa cosa a riflettere e personalmente li invito a venire nel gruppo m’illumino d’immenso per fare due cose contemporaneamente, e cioè insegnare agli altri quello che sanno apprendendo quello che non conoscono. Solo così secondo me si può creare gioia tra di noi, con gli altri e anche con chi non s nemmeno chi siamo ma ci incontra ogni tanto sulla sua strada, auguri a tutti e buona riflessione.

    Nuvola

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