
In due post precedenti, uno e due, ho proposto delle testimonianze di studenti che hanno seguito i miei corsi.
Qui voglio specificare meglio cosa intendo dire con l’espressione “Far del mondo la classe”. Il rischio è infatti che molti pensino che si tratti giusto di un metodo didattico facente uso di nuove tecnologie per migliorare l’insegnamento, e che l’idea di uscire dalla classe, raffigurata nel disegno qui accanto, consista nell’integrare nelle pratiche didattiche i mezzi di comunicazione e le tecnologie che i giovani oggi usano diffusamente.
Non si tratta solo di questo, anzi, si tratta di questo solo in minima parte. Far del mondo la classe non può prescindere dal modo di vedere il mondo, in particolare dalla necessità di rivedere il modo di vedere il mondo. Non si tratta quindi semplicemente di applicare nuove tecnologie per insegnare meglio le stesse cose.
Con questo post, cercherò di evocare il contesto necessario per capire il senso degli esperimenti didattici di cui ho presentato alcune testimonianze. Per comprendere come questi corsi siano, rispetto allo standard corrente, meglio descritti come non-corsi, i programmi come non-programmi, il professore come non-professore; ripeto, rispetto allo standard corrente. Non è facile comprendere tutto questo, non tanto perché ci sia qualcosa di molto difficile da capire, ma perché è una questione di prospettiva, di visione del mondo, di paradigma di conoscenza.
Sono consapevole di non avere gli strumenti adatti per essere convincente ma ci provo lo stesso a mettere per iscritto questi pensieri. Del resto la forma del blog si presta a scrivere per cercare di chiarire le idee anche a se stessi, con il vantaggio non trascurabile di ricevere eventuali osservazioni da parte di qualche lettore di passaggio che potrebbero rivelarsi preziose.
In passato alcuni amici mi hanno esortato a scrivere post più agili, conformemente allo stile tipico dei blog. Provo qui ad adeguarmi articolando questo testo in due o tre post più piccoli che pubblicherò in sequenza a brevi intervalli di tempo.
In ultimo, mi accorgo in questo momento di un articolo di Gianni Marconato sul tema del connettivismo che attiene notevolmente al tema di questi post.
L’istruzione di massa è nata nel IX secolo e, ovviamente, esprime la visione del mondo di quell’epoca. Il problema oggi è che non si è più mossa da lì mentre tutto il resto è cambiato moltissimo. Poiché è proprio mediante l’istruzione che si ritiene una persona debba acquisire un’adeguata conoscenza del mondo, si pone il seguente evidente problema.
Se la scuola deve insegnare cosa si sa del mondo ma è ferma ad un certo numero di anni fa, significa che manca qualcosa. Sorge quindi la questione di “quanto” fare e “fino a dove” arrivare, difficilissima da risolvere poiché le conoscenze stanno crescendo a ritmo esponenzale in tutti i campi. Infatti oggi si stima che la quantità di informazioni prodotta, alla quale la nuova conoscenza è in qualche maniera correlata, raddoppia ogni due anni. Questo significa che tutta la nuova informazione che verrà prodotta da qui a due anni sarà pari a quella prodotta dagli albori della civiltà ad oggi!
Se vogliamo tener dietro a questa quantità mantenendo la stessa logica di insegnamento e adattando opportunamente i programmi, occorre fare due cose: allungare la durata degli studi e specializzarne ulteriormente i corsi, specialmente verso la fine. Sfortunatamente, ambedue questi fattori sono già critici. La maggior parte dei neolaureati entra oggi nel mercato del lavoro piuttosto tardi, con una cultura scolastica tendenzialmente teorica e priva di esperienze pratiche significative, con un grado di specializzazione che penalizza la futura mobilità da un settore all’altro. Esattamente il contrario di cui oggi c’è bisogno.
Il metodo di insegnamento basato su di un modello industriale di distribuzione di conoscenza quale “commodity” [1] offerta mediante sequenze rigide di lezioni ad un “mercato” passivo e coatto, nel quale l’individuo ha pochissime possibilità di scelta e deve semplicemente seguire le istruzioni, completa un quadro che non può che condurre a risultati largamente subottimali. Basta intervistare i neolaureati dopo le prime esperienze di lavoro e i responsabili delle organizzazioni che li assumono, per avere una misura dell’inadeguatezza del sistema, nella forma di ampie dosi di frustrazione da parte dei primi e di insoddisfazione da parte dei secondi.
Posto in questi termini, il problema sembra irrisolvibile e l’evidente necessità di dover provvedere ad una formazione di massa in un contesto di crescita esplosiva delle conoscenze, crea una sensazione di angoscia e impotenza. Sembra quasi di essere in presenza di un limite invalicabile all’espansione della conoscenza umana, che trova l’ostacolo principale nell’impossibilità di educare adeguatamente i singoli individui per metterli in grado di affrontare un mondo così complesso. Di fronte ad un problema irrisolvibile occorre trovare un indizio che ci consenta di “uscire” dal problema, di fare un passo indietro per vedere altre vie, di volargli sopra per poter vedere il contesto.
La mia tesi qui è che l’indizio stia proprio nel “mondo complesso” che ho appena citato, in particolare nell’aggettivo “complesso”. La chiave di volta è la complessità e il modo con la quale essa sta entrando nella percezione comune, cioè in modo molto lento e a sua volta complesso.
Il discorso intorno alla complessità coinvolge una serie di dicotomie il cui approfondimento costituisce un obiettivo fondamentale per i tempi a venire, dicotomie tipo ordine-disordine, oggetto-sistema, gerarchia-rete. I termini di queste dicotomie sono assai comuni ma appena si tenta di approfondirli, subentra una sensazione di disorientamento perché mancano gli strumenti per affrontarne la vaghezza. Disordine, sistema, rete sono concetti molto utilizzati in senso generale ma altrettanto difficili da esplorare, in altre parole sono resistenti alla “riduzione” alla quale siamo stati educati per affrontare la maggior parte dei problemi. Essi sono fondamentalmente sconosciuti, assenti da qualsiasi percorso di formazione, se non in forma occasionale e generica, oppure circoscritta a particolari ambiti specialistici. Essi non fanno quindi parte dello strumentario che la scuola fornisce ai futuri cittadini.
Eppure sono termini molto comuni. La “rete” la troviamo ormai ovunque, complice l’esplosione di Internet. Si sa tuttavia che quando le parole vengono abusate perdono gran parte del loro potere e quindi diventano facilmente noiosi e luogo comune privo di significato, si pensi al “fare rete”. Anche “sistema” è un termine ubiquitario e altrettanto abusato, basti pensare al “sistema paese”. Il “disordine” invece non ha subito questa inflazione e mantiene il suo significato, sostanzialmente negativo eccetto che in casi molto specifici.
È proprio sul disordine che vorrei imperniare questo discorso, accompagnando il lettore in un breve excursus sugli episodi della storia della scienza nei quali il disordine ha invaso il campo proprio dove non ce lo saremmo aspettato, cioè in quei luoghi che ritenevamo i fondamenti più solidi e sicuri di tutta la costruzione scientifica e culturale. Dedicherò il prossimo post della serie “Far del mondo la classe” ad una passeggiata sui campi delle battaglie perse contro il disordine.
Il termine commodity descrive un bene per cui c’è domanda ma che è offerto sul mercato senza differenze qualitative e che ha lo stesso valore indipendentemente da chi lo produce, come succede per tanti beni di largo, quali i carburanti o i prodotti alimentari di vario genere. I beni di questo tipo sono facilmente imagazzinabili, possono essere conservati inalterati nel tempo mediante opportuni accorgimenti e quindi si prestano ad essere negoziati sui mercati internazionali. Oggi è normale, mangiare frutta argentina o pesce giapponese.
Per il sistema economico è vantaggioso trasformare i prodotti in commodities, per esempio utilizzando tecniche per prolungare la conservazione di prodotti altrimenti troppo facilmente deperibili; senza la catena del freddo il pesce non sarebbe una commodity. In generale, quando beni o servizi di un certo tipo perdono la differenziazione si parla di “commodification”.
Se questo concetto è molto interessante per un economista, perché consente di progettare più agevolmente processi e meccanismi di mercato, spesso rappresenta invece una calamità per la reale qualità dei prodotti e addirittura una minaccia per tradizioni sociali e culturali di grande valore. Questo è per esempio il tema dominante dell’opera di Slow Food.
Detto questo, io trovo interessante descrivere la conoscenza, così come essa è concepita nei sistemi di istruzione, quale una commodity. Per esempio, i Learning Objects, intesi come “mattoni” di conoscenza che possono essere distribuiti, riciclati e composti in varie combinazioni per scopi didattici diversi realizzano in sostanza il concetto di commodity.
Ho usato quindi il termine per mettere in luce il limite di una simile concezione, secondo la quale in sostanza la conoscenza può essere trasmessa mediante elementi standardizzati e completamente decontestualizzati.
E’ questo il rischio che le nuove generazioni non vogliono correre, loro sono tutto e subito, life is now, e se si sbaglia strada si perde tempo prezioso, si boccia l’esame, si salta l’anno e siamo fuori dal mercato. Conta l’obiettivo, il pezzo di carta, la certificazione e il voto. Siamo comunque incanalati nell’ottica prestazionale. Poi uno si stupisce del perchè subentri l’ansia da prestazione…
certo, ma questa bella visione siamo noi che gliel’abbiamo confezionata
questo è il fallimento fondamentale della mia generazione, il fallimento di un sistema culturale, al punto che culturale non è se non esteriormente, il fallimento di un sistema di istruzione, ma non quello di ora, bensì quello che ha formato noi (over 50) e che *non ha funzionato* se poi ci siamo concentrati su altro piuttosto che sulle qualità che ora vorremmo vedere fiorire nei nostri figli …
Possibile che l’università sforni dei terapisti che hanno fatto 250 ore di tirocinio totale in tre anni e li mandi a far danni con i bambini?
e credo che il tuo corso di laurea non sia dei peggio in questo senso …
il fallimento del sistema di istruzione di cui dicevo prima è legato a questa visione ottocentesca del sapere e in essa congelato a causa della deriva burocratica
il sistema di istruzione è una macchina burocratica prima che un’istituzione educativa e a causa di questo si sta rivelando clamorosamente inadatto alle finalità per cui esiste
mi piace quel che ha scritto iamarf e mi piace molto il commento di Sandro, perchè mi ci ritrovo in pieno. Ho perfino interrotto il mio precedente percorso di studi per 10 anni, per il senso di noia e di frustrazione che ricevevo dallo studio a suo tempo, facendomi coinvolgere in cose più sperimentali tipo diventare mamma. Ora che studio, da vecchia babbiona, animata solo dalla motivazione, mi scontro con i ventenni che mandano a mente, che non comprendono assolutamente quel che dico, che sono contrari ad un sistema che li metta in gioco come auspica Sandro, perchè è più comodo come è ora, perchè mettersi in gioco vorrebbe dire rischiare, mentre mandare a mente l’esamino significa essere certi (o comunque ragionevolmente certi) di un risultato.
Io mi sono data questa risposta, una scuola, una società, un individuo che punta al raggiungimento di una meta (ottica prestazionale) sarà destinato a rimanere deluso se non la raggiunge, riuscirà ad essere felice solo nel caso in cui vi arrivi. Statisticamente ha il 50% di possibilità di successo.
Se invece della meta si tiene presente il percorso c’è il 100% di probabilità di soddisfazione perchè la scuola, la società, l’individuo di prima, si sarà comunque spostato dal punto iniziale, avrà fatto un cambiamento. Minimo? medio? è arrivato alla meta? chissenefrega, sarà una questione di tempo, ma non è più la stessa scuola, società, individuo di prima, è cambiato!
L’ottica va variata da “prestazionale” a “gestazionale” cioè bisogna che uno capisca quel che è o quel che vuole diventare, mentre sta andando, mentre studia, anche se va nella direzione sbagliata, solo perchè segue ciò che lo incuriosisce. Avere dentro di sè qualcosa non da raggiungere ma da far sviluppare. E’ questo il rischio che le nuove generazioni non vogliono correre, loro sono tutto e subito, life is now, e se si sbaglia strada si perde tempo prezioso, si boccia l’esame, si salta l’anno e siamo fuori dal mercato. Conta l’obiettivo, il pezzo di carta, la certificazione e il voto. Siamo comunque incanalati nell’ottica prestazionale. Poi uno si stupisce del perchè subentri l’ansia da prestazione…
Sia come sia, io ho finito il secondo anno, ora mi aspetta il terzo, dopodichè dovrei essere pronta per dedicarmi ai pazienti e fare la terapista. Io non mi sento pronta proprio per nulla, e come Sandro anche io ho una bella media, sono abbastanza in pari con gli esami e non mi ricordo più un cavolo dell’ultimo esame che ho dato. Io lavorerò con i bambini handicappati… così si dice… ma mi sento molto handicappata anche io, senza nessuno che capisca come fare per aiutarmi.
Possibile che l’università sforni dei terapisti che hanno fatto 250 ore di tirocinio totale in tre anni e li mandi a far danni con i bambini? sì ok il discorso dell’esperienza, e ok la storia del “non si smette mai di imparare”, ma ammesso e non concesso che dopo il fatidico pezzo di carta uno trovi lavoro, cosa gli dice alla prima mamma che gli capita in ambulatorio nella sua vita? “Sì, signora, mi scusi sa, ma dovrei approfondire, perchè mi sono laureata ieri l’altro, e non sono ancora molto pratica…”?
Quando ho chiesto la stessa cosa ai miei professori, hanno risposto che l’esperienza me la farò col tempo, ma a me questa risposta non m’ha lasciato nulla: che vuol dire? che nutrimento dai alla mia curiosità interiore dicendo così? che speranze mi dai? ma soprattutto, dove, come e quando mi faccio esperienza una volta che sono laureata, sono FUORI dall’università e sono “sul mercato”? non dovrebbe essere il percorso scolastico quello che guida verso la conoscenza? e del tirocinio? ne vogliamo parlare? io sto mettendo grandemente in dubbio la favola del sapere, saper fare, saper essere e saper diventare, perchè siamo già arenati sul sapere, che oggi significa sempre più “saper mandare a mente”, figuriamoci l’aspetto operativo del saper fare…
(@andreas: tu mi fai imbarazzare bischerone! 🙂 )
Antonio (intanto G-R-A-Z-I-E delle tue parole: giuro che mi hanno toccato!), sono stato massacrato dalla scuola?
non credo sia stata primariamente la scuola a massacrarmi, credo sia stata la società e quindi, in questa, anche la scuola (come dice Greta “l’università non è che lo specchio della società e prima va curata la società….” (anche se pure curando la scuola curi la società) …. altri specchi poi sono quelli che scrivi anche tu nel post che mi linki: “Famiglia, scuola, lavoro, arte [che rabbia e pena mi fanno quegli artisti – e ce n’è tanti – che si credono più liberi degli altri!!], sport, media. Ognuno a suo modo è agente stirante, agente che rende piatta e monodimensionale la nostra umanità”);
sono stato massacrato addirittura dalla mia famiglia che mi ha sempre amato, ma che purtroppo mi ha ceduto i suoi schemi e i suoi paletti: dico spesso che se fossi cresciuto in un ambiente diverso avrei potuto fare tante ma tante cose di più, lo dico spesso e lo penso davvero;
sono stato massacrato da me stesso, dalla mia difficoltà a comprendere e partire, dalla mia mancanza di coraggio (grazie per il link Andreas e ad Antonio per avere scritto il post) e ancora di più da quella di mantenermi in cammino, e dal mio ozio che agisce anche in questo momento facendomi cazzeggiare su internet (non dico che internet sia cazzeggiare, dico che sto cazzeggiando io!) al posto di seguire i tuoi buoni consigli (“cerca di uscire presto da quella gabbia di matti che è la scuola/università italiana. è il consiglio che do anche ai miei studenti incaxxati. e buono studio per ora. studia in fretta così esci prima”);
sono stato massacrato da quelli che credevo i miei amici;
da quello che credevo amore;
dalle mie illusioni e dalle mie paure e perché no dai miei ideali,
sono stato massacrato da tutte queste cose insieme
.
ma devo essere onesto e dirmi:
– la scuola non è solo male, sia per me che per la società: di fatto l’espansione dell’alfabetizzazione è stata una conquista indiscutibile, pensiamo a una vita in cui si comincia a lavorare da bambini e mai si va a scuola o si apre un libro come tutt’ora succede in molti paesi poveri;
– la mia famiglia non è stata certo solo un male: oltre ad avermi dato la vita/nutrito/accudito/protetto mi ci sono sempre sentito accolto, l’appoggio dei miei famigliari lo do per scontato in ogni situazione e se c’è una persona che mi abbia insegnato qualcosa sull’amore quella è stata la mi’ mamma… e poi mi hanno insegnato tante cose che non avrei imparato altrove;
– io, poi, non sono certo solo una merda, andreas dice che ci sono cose buone da dire su di me, e credo sia vero anche se adesso io non mi sento poi questo granché e senz’altro potrei dare tanto ma tanto di più;
– e poi le circostanze della vita: l’amore, gli amici, i sogni gli ideali: non sono certo stati solo merda.
la società stessa non è una merda completa: la società non è solo giochi di potere di cui siam tutti pedine più o meno inconsapevoli (come la formica non sa di far parte del formicaio, per il quale la vita di una singola formica è irrilevante), è anche e sopratutto il prodotto che emerge dalle relazioni fra le persone, è il modo in cui l’essere umano fa di sé un essere potentissimo e capace di investigare le più piccole particelle elementari come le più vaste immensità siderali, e scrivere poesie e giocare al pallone, e inventare il giuoco del pallone. la società è probabilmente un frutto dell’amore e della curiosità, di quelle forze che ci spingono agli altri.
…
che peccato che la società – riflesso dell’animo umano – sia al contempo così marcia, corrotta e inconsapevole.
certo nutre in sé anche i germogli delle rivoluzioni… che però, una volta cresciuti, tende ad abbattere (e il modo più subdolo in cui li abbatte è proprio quello per cui, dopo che una rivoluzione andata a buon fine, si va instaurando un sistema del tutto simile a quello precedente……).
perché dobbiamo sempre essere così limitati dalla società/scuola/polizia/psichiatria/buoncostume/etichette/arte/quant’altro? perché i veri obiettivi sociali non sono la felicità, la sperimentazione, l’uguaglianza tra le persone, ma piuttosto il mero sopravvivere, il denaro ed il far diventare sempre + ricchi quelli che lo sono già? può darsi che una certa dose di “freni” la società ce li debba mettere, va bene, ma allora perché la consapevolezza (vero primo ed unico obiettivo che la scuola dovrebbe tentare in tutti i modi di diffondere, ma che giammai le sarà permesso dal potere di turno (che dell’inconsapevolezza fa proprio nutrimento)), piuttosto che l’aderenza ad un qualche dogma moral/sociale, non è vista come una delle prime e più importanti qualità di un essere umano? consapevolezza che è il presupposto forse anche dell’amore, perché è il presupposto di ogni scelta?
io non ho idea se la scuola e la società siano così lobotomizzanti a causa di persone potenti che ‘tramano’ alle nostre spalle e faccian di tutto per mantenere il potere: senza dubbio molte volte è così, ma forse più spesso è l’imperfezione del ‘sistema’ stesso a determinare il nostro ruolo di formichine all’interno di un gigantesco formicaio che si autorigenera e fa di tutto per mantenersi in auge – come un vero Leviatano – del quale ogni appendice – come ad esempio è la scuola – agisce al contempo da una parte con lo scopo che tutti gli attribuiamo (nel caso della scuola è quello di mantenere e diffondere la cultura) e dall’altra con quello di “sistema immunitario” che seda e stronca ogni mente e idea che tenti per davvero di cambiare la società nel suo profondo, seppur in meglio.
non so come finire questo commento, che dire?…
posso dire che da bambino avevo una considerazione degli adulti migliore di quanto ne abbia ora, e mi sentivo più colmo di potenzialità di quanto mi senta ora.
c’è qualcosa di più malleabile della mentalità di un bambino?
che arma potente, la plastica mente di un bambino, per chi – sia esso persona o Leviatano sociale – volesse controllare le mentalità delle persone e diffondere schemi di pensiero fra la popolazione.
perfetti polli da allevamento.
tristesse.
P.S. @iamarf: le cose che ti dicevo t’avrei spedito sulla fisica e il significato e via dicendo: anche no, dai. mi par fatica.
Come posso esprimervi tutta la mia più sentita partecipazione…i sentimenti che esprimete sono i miei. Una scuola senza anima? O semplicemente manca il pragmatismo che caratterizza altre società, una consequenzialità logica che permetta di aggiustare il tiro sempre verso ciò che funziona megli, un legame logico tra una cosa e quello x cui quella cosa serve.
Lo scopo dell’educazione dovrebbe essere la felicità (nella filosofia di un pedagogo giapponese -T. Makiguchi-) e della creazione di valore. Quando diventa un esercizio di stile perde la sua anima e i contatti x rispondere appropriatamente ai bisogni x i quali è stata creata.
Le società hanno fatto dei balzi in avanti dall’oscurantismo e infelicità quando hanno messo l’uomo al suo centro. Non è un caso che ad oggi ci si contenda il David di Michelangelo, un uomo rinascimentale. Ora, la rinascenza dell’università mi piacerebbe molto!
Ma forse l’università non è che lo specchio della società e prima va curata la società.
Non manchiamo di uomini di valore, sono solo strangolati nella forma formale della formalità, dea indiscussa.
eh Antonio,
quando un mio (ex)studente mi fa ombra io sono tutto contento 🙂
purtroppo quelli che forse sarebbero più inclini – in questo caso a fare il medico, ma il concetto è generale – rischiano parecchio nel tritacarne universitario, che se ne infischia di tutto ciò che è attitudine specifica, motivazione e qualità umana, basta essere adatti a imparare a memoria … un vero disastro
di Sandro non voglio nemmeno parlare perché per me è come un figliolo, per una serie di motivi, rischierei di parlarne bene per forza, ma tanto lo vedi da te che tipo è, Antonio
Sandro, io credo che l’ultimo post scritto da Antonio nel suo blog ti possa piacere … 🙂
per una volta perdonami, Andreas.
Condivido ovviamente il tuo post, ma il commento, IL COMMENTO, IL C-O-M-M-E-N-T-O di sandro (che non gli garba neppure più il suo nome!), è di quelli che rendono le nostre chiacchiere direi quasi superflue.
Sandro, si vede che la scuola ti ha ben bene massacrato e stirato, eppure hai la forza residua e il coraggio per dire “non ce la faccio più, toglietemi di dosso il ferro da stiro!”
questo tuo commento, COMMENTO, C-O-M-M-E-N-T-O, ci dimostra che ogni tentativo di ricamare moderatamente sulla scuola e sull’università italiana è da considerarsi un gesto complice della malpolitica e malgestione.
Ogni giochino scolastico tecnologicamente poco o molto evoluto produce valore ZERO (anzi MENO UNO!) rispetto alla condizione drammatica dell’istruzione-educazione italiana.
Serve l’energia e il cuore di un sandro.
sandro, hai ancora sufficiente lucidità e cuore per ribellarti alla stireria di Stato, per non fare la fine di tanti soldatini ammaestrati.
continua, PER FAVORE!, a gridare il tuo sdegno. e cerca di uscire presto da quella gabbia di matti che è la scuola/università italiana. è il consiglio che do anche ai miei studenti incaxxati.
e buono studio per ora. studia in fretta così esci prima. e studia ciò che ti stimola e appassiona, lascia stare le pubblicazioncelle accademiche. quelle servono per il curriculum e la carriera. di altri. a te serve l’aria. tornare a respirare aria pura.
un saluto complice
Antonio
p.s. se non hai capito cosa intendo per bambini e ragazzi stirati, leggi qui: http://liberidallaforma.blogspot.com/2010/07/e-nato-il-midbs-movimento.html
condivido questo post in ogni sua virgola, dai pensieri sulla scuola a quelli su ordine/disordine e – fra l’altro – sarà da quasi 2 anni che sto cercando di scrivere (ormai non più da un pezzo) un testo sulle cosiddette leggi della scienza, e sull’ordine e sul disordine e via dicendo che ora ti mando una mail che si sa mai che ci trovi della roba da cui prendere spunto, e sennò tanti saluti al gatto.
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QUESTO è UN COMMENTO-SFOGO, ME LO SI PERDONI E VOGLIATE TROVARCI COMUNQUE QUALCOSA DI UTILE, SE C’è VERSO
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dove sono ora?
in una casa vuota.
a dover studiare una materia che NON-HO-VO-GLIA-DI-STU-DIA-RE, perché dopo 5 anni di università non trovo più le motivazioni che mi hanno spinto a medicina, la mia strada, e io, Dio carissimo, l’autore di questo blog se lo ricorderà, di motivazioni ne avevo A FROTTE.
e invece ora niente, CAPUT, mi si scatafrasftano le palle: NON NE POSSO PIU’!!
voglio finire, andarmene, CIAO!
non starò certo a dare tutte le colpe alla scuola e al sistema: la principale responsabilità di alimentare il proprio “fuoco sacro” interiore è chiaramente nostra, sia chiaro: potrei sforzarmi di più; ma detto questo e fatto il mea culpa non ne posso proprio più di studiare esami enormi senza un briciolo di pratica, studiarli bene e poi nel giorno dell’esame i professori (che la data l’hanno decisa loro!) non si presentano perché sono andati in vacanza e quindi ci tocca fare l’esame con degli specialisti di un’altra disciplina – simile, intendiamoci, ma che non hanno un’idea del programma d’esame e quindi fanno domande assurde e quindi va male pure l’esame, ma vada pure che va male l’esame anche se le cose l’hai studiate e le sai, tanto son solo voti e vaffanculo, ma porca puttana quello che me le fa girare davvero è il fatto che io, dopo 5 anni di medicina, non ho ancora imparato un cazzo! e ho una media del 27 (e spererei anche di alzarla, se i professori fancazzisti me lo permettessero), le cose le ho sufficientemente studiate! ma la cosa grave, quella che mi demotiva davvero, è che dopo aver dato un esame, dopo una o due settimane, io non mi ricordo già più una benemerita sega! c’avrò l’alzaimerd so una sega ma mi rimane solo un vago ed impreciso senso generale, qualche particolare qua e là, una sostanziale incapacità di organizzare i discorsi e nozioni frammentate che un tempo conoscevo nel complesso e nel dettaglio disperse nei reconditi della memoria… certo che discorsi: se mi mettessero in reparto le cose adesso le imparerei abbastanza in fretta proprio grazie al mio studio passato, ma sono SICURO che avrei potuto imparare tutto quanto nella metà del tempo, con la metà della difficoltà, con il triplo della consolidazione e con 15 volte meno noia!!!
altro che limite invalicabile all’espansione della conoscenza umana!
tutto quello che so meglio, invece, oggi, è quello che ho imparato da solo, di più: anche quello che mi hanno detto a scuola e che mi sembra di saperlo lo so perché ho mandato a ‘fanculo l’accademia e mi son detto: io le cose le imparo a modo mio, sicché ora studio a modo mio!
cosa questa che nessuno a scuola m’ha detto mai tranne qualche timido e impotente consiglio “trova il tuo modo di studiare”, senza rendersi conto che il problema non sta tanto nel sottolineare prima o dopo aver ripetuto, ma nell’istituzione stessa, nello stilestile con cui la nostra società affronta la conoscenza e l’apprendimento.
Gelmini di mmerda, la colpa non è che per un solo miserrimo briciolino tua ma tu mi fai schifo anche te!
mah… se aspettiamo che le cose le cambino quelli che ricoprono il ruolo adatto, campa cavallo!
la società, la società è becera e istupidita, inconsapevole. gli unici o quasi senza pregiudizi, che davvero potrebbero cambiare le cose se se ne desse loro la possibilità, sono i bambini: l’hai belle visto te come li rincoglioniamo uno a uno fino a che non diventano frustrati e impotenti come me, o ottusi e beceri affascinati da specchietti per le allodole come metà e + dei soggetti che si vede a giro.
mavvia.
sia chiaro, per correttezza devo dire che ci sono studenti che in questa università se la cavano, che le cose se le ricordano: tanti complimenti a loro.
però questa università, questa scuola, è per pochi.
chi ha un certo tipo di mente (pochi), adatta allo studio di questi mallopponi scrostagengive se la cava, gli altri – la maggioranza – NISBA.
adattarsi ai meno, al vecchio, a quello che non ha mai funzionato – ah sìsì scusate: funziona funziona!
mavvia.
aggiungo qui un commento che scrissi l’anno scorso sulla mia scuola ideale, in un altro blog che ora non esiste più.
credo che si sposi piuttosto bene con codesto “Far del mondo la classe”, iamarf, quindi, anche se il commento si allunga troppo (me ne scuso!!), lo posto:
saluti vivi a tutti, auguratemi un buono studio per favore, perché io un ne posso più!